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Читать книгу: «Eros», страница 4

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XII

Alberto si abbeverò di quel sottile veleno che lo penetrava senza che egli se ne avvedesse, e l’ebbrezza di oggi gli dava la sete per domani – spesso non era che un gesto, un’inflessione di voce, uno sguardo distratto, un sorriso appena accennato. Egli stava in una continua agitazione. Non si accorgeva nemmeno che cercava tutti i mezzi per star vicino alla contessina Manfredini, che accanto a lei era tutt’altro uomo che non poteva saziarsi di rimirarla, ch’era inquieto, dispettoso, cogitabondo quand’era costretto a star colla cugina, non si avvedeva degli innocenti sotterfugi, delle ingenue manovre che la povera Adele inventava per vederlo sorridere; non indovinava le domande che c’erano nel silenzio di lei, l’inquieta ansietà dei suoi sguardi. La poverina cercava almeno la compagnia di Gemmati, come per sfogarsi con lui, come se egli avesse qualche cosa del suo amico, e stava sovente vicino a lui zitta zitta, o pensierosa, o parlandogli di cose indifferenti, spesso ricacciando indietro le lagrime che le facevano velo alla vista, senza osar di svelargli giammai il suo dolore. Lo zio Bartolomeo non guardava piú il tempo, non si fregava le mani, e prendeva tabacco con molta enfasi. Velleda non si accorgeva di nulla, non mostrava di evitar Alberto, ma lo incontrava assai raramente da sola. Al contrario, si trovava piú spesso con Gemmati, stava piú volentieri a discorrer con lui, gli si mostrava graziosa, si faceva accompagnare nelle sue passeggiate, e faceva gravare su di lui il peso dei suoi capriccetti bizzarri.

Una volta Gemmati, tornando da caccia, avea incontrato le ragazze, Alberti, lo zio Forlani, i coniugi Zucchi, la intera comitiva insomma, al cancello del giardino. Tutti si erano affrettati attorno al suo carniere ben pieno facendogli i mirallegro. Velleda sola rimaneva zitta. Però la signora Zucchi, ch’era molto sensibile, offuscava un po’ la gloria del cacciatore fortunato con esclamazioni compassionevoli verso una “tortorella fedele” che teneva spenzoloni per un’ala, e se la prendeva col crudele divertimento, colla durezza di cuore, ecc. Velleda, seria seria, l’interruppe:

«Se fossi un uomo non vorrei far altro.»

«O tu perché non sei venuto?» domandò Gemmati al suo amico, mentre s’avviavano verso la villa

“Non sono cacciatore, disse Alberti con un po’ d’ironia; non sono destro come te.”

Gemmati rimase alquanto sorpreso dal tono di quella risposta, consegnò schioppo e carniere ad un domestico, e andò cogli altri; ma lungo il giorno fu pensieroso, ed anche inquieto. Guardava qualche volta il suo amico, tutto annuvolato, e che evitava visibilmente di trovarsi con lui. Alla fine approfittò di un momento in cui erano soli, e gli disse:

«Alberto, stammi a sentire… Da qualche tempo ce l’hai con me!»

– «Io?» disse Alberto senza guardarlo.

Sí, tu, e non so perché. Cosa t’ho fatto?»

«Nulla, t’inganni. Perché dovrei avercela con te?»

Gemmati gli prese la mano, ch’ei non osò rifiutargli, e gli disse guardandolo negli occhi:

«Saresti geloso?»

«Geloso?…» disse Alberto trasalendo, «e di chi?»

L’altro ebbe un moto di sorpresa.

«Ma… dell’Adele.»

«Perché sarei geloso?» replicò Alberto dopo un breve silenzio, e fissandogli gli occhi in viso per la prima volta. «Non fai la corte alla Velleda per conto tuo?»

«Io?»

«Sí, tu» insisté con un sorriso stentato; «oppure è lei che la fa a te»

Gemmati scoppiò in una buona e franca risata.

«Sei matto! Io sono un povero diavolo di medico in erba, e lei una contessina che ha piú anelli ch’io non abbia quattrini… Come vuoi?.. Del resto… Ma a te che te ne importa?»

«Nulla me ne importa.. proprio nulla. Ho detto cosí per convincerti che non potevo esser geloso di te a motivo di Adele.»

Gemmati stette ancora qualche istante guardandolo negli occhi, e stringendogli le mani; e riprese da lí a un momento:

«Ascoltami, Alberto: forse non sai tu stesso qual tesoro sia il cuoricino della tua Adele, e come ti ami, la povera fanciulla, con quanta sincerità, e con quanta delicatezza… e come ti nasconda i suoi timori, i dispiaceri che le dai senza accorgertene.. Sai che se tu la tradissi faresti… To’, ci vogliamo abbastanza bene per dirti la parola tal’e quale – una viltà!»

Da alcuni giorni la povera fanciulla amava anch’essa la solitudine, non perché si vedesse negletta dal cugino, ché quando lo vedeva sorridere le si schiudeva il paradiso, ma pel dolore di vederlo cosí… cosí… non lo sapeva lei stessa. Ei la trovò su quel sedile dove la luna li avea visti l’uno accanto all’altra, e sentí qualche cosa che gli stringeva il cuore; la poverina stava a guardarlo timidamente, spalancando gli occhi per dissimulare le lagrime che le spuntavano, e non osando chiamarlo nemmen cogli sguardi ei le si avvicinò col sorriso falso, come un colpevole. – Allora Adele gli afferrò la mano con vivacità, e scoppiò in pianto..

«Perché piangi?» disse Alberto, quasi anche lui colle lagrime agli occhi.

«Oh, perché son felice!… Guarda che matta!»

Stettero un po’ insieme; egli parlava poco e distratto; essa lo guardava di nascosto, quasi temesse di annoiarlo.

«Alberto, mi permetti che ti dica una cosa?» balbettò infine timidamente.

«Di’.»

«Confidami cos’hai!»

«Ma cosa mi vedi?»

«Non lo so… Non sei piú il medesimo…»

Egli arrossí lievemente.

«Perché mi fai cotesta domanda?» disse bruscamente, rialzando il capo da una specie di meditazione.

«Perché… perché sei molto cambiato.»

Egli parve esitare.

«Temi che non ti ami?»

La fanciulla lo guardò attonita, e rispose ingenuamente:

«Perché non mi ameresti? Non me l’hai detto tu stesso che mi ami?»

«Voglio dire… se temi che non ti ami piú?»

«Non me lo diresti, in tal caso?» rispose Adele al modo istesso, e senza distogliere gli occhi dai suoi.

«Dunque?…» balbettò il giovane, e quel dunque gli s’inchiodo nel pensiero.

«Dunque sarei proprio un vile!» mormorò allorché fu solo, e fuggendo per la campagna come se alcuno l’inseguisse.

XIII

«Come va che non s’è piú visto, marchese Alberti?» udí esclamare dietro di sé.

Si voltò, e vide la contessa Armandi a cavallo, che si era fermata sulla via, a due passi da lui. La contessa stava bene in sella, l’amazzone disegnava elegantemente il suo bel corpo, il velo azzurro le svolazzava sul viso, quasi la baciasse, la cavalla, col freno tutto bianco di spuma, allungava il collo e scuoteva la bella testolina colla grazia di una gazzella addomesticata.

«Bisognava proprio incontrarlo per via!» disse l’Armandi stendendogli la mano all’altezza del suo ginocchio. «Fortuna che viene a cercare i dolci tramonti, e i bei punti di vista!… Farebbe anche dei versi, marchese?»

Il sorriso di lei era cosí gaio, che il giovane se lo sentiva quasi comunicare, e rispose:

«Non ho questo vizio, contessa.»

«È innamorato dunque?»

«Anch’ella ci viene senza far versi, né essere innamorata…»

«Che ne sa lei?» domandò con un sorriso che lo scombussolò del tutto.

«Ma…»

«Non posso essere innamorata di mio marito… o della mia Zelia?» aggiunse con quel risolino mordente e leggiadro, guardandolo ardita e civettuola, e giocando col pomo del frustino fra i crini della cavalla.

«Però» riprese «ella che non ha né marito, né Zelia, amerà la bionda, o la bruna. Quale delle due?»

Il giovane arrossí, volle negare, e rimase imbarazzato.

La contessa stava a guardarlo col gomito sul ginocchio, la guancia sulla palma, e una provocante ironia negli occhi.

E dopo averlo ascoltato cosí fra ironica e motteggiatrice soggiunse con una gran serietà:

«È vero! Ella è troppo giovane per amare la bruna, e non amerà la bionda che per un quarto d’ora. Ella non ama che la sua giovinezza, e la donna allo stato di nebulosa. Addio. Quando avrà bisogno del consiglio di una buona amica venga a trovarmi; cosí m’avrò la sua visita che aspetto da un pezzo.»

E spronò Zelia, senza dare il tempo ad Alberto di balbettare le scuse che gli si leggevano in volto. Poi arrestò di botto lo slancio della cavalla, e rizzandosi sulla staffa con piglio grazioso ed ardito, si voltò indietro, e gli disse da lontano:

«Oh, non sono in collera… e per prova!…» sul ciglione della via spuntava una margherita tardiva; ella la recise di un colpo di frusta «ed in prova le lascio un ricordo: consulti l’oracolo, marchese.»

E sparí come un lampo.

«Hai visto la contessa Armandi?» domandò a tavola Gemmati.

«Sí»

«Cosa t’ha detto?» aggiunse Adele.

Alberto s’imbrogliò nel racconto di una storiella metà vera e metà inventata, si confuse e si fece anche un po’ rosso. Lo zio Forlani tossí due o tre volte, e Velleda gli rivolse una rapida occhiata.

«Che bella signora!» disse per cambiar discorso.

Il giorno dopo, quando Alberto stava per andare a villa Armandi, incontrò per caso la signorina Manfredini presso il cancello.

«Va dalla contessa?» gli domandò.

«Sí.»

«Ci tien proprio a far cotesta visita?»

«Ma… tenerci…»

«Se non ci tiene non ne faccia nulla per oggi. Il tempo è bello; andremo alla Sassosa in carrozza con Adele.»

E per la prima volta chinò gli occhi dinanzi allo sguardo di lui.

«Sí…» diss’egli, «sí!»

XIV

Adele accettò l’invito tutta giuliva. Era tanto tempo che il cugino sembrava le tenesse il broncio! Ma in quella comparve il babbo, con un viso piú scuro del solito, e chiamò la figliuola nella sua camera sotto pretesto di farle un discorso serio.

Alberti ascoltava assai distratto i discorsi che teneva Velleda, la quale era assai piú calma e piú padrona di sé. Adele ritornò poco dopo, pallida, tutta sossopra, e col viso ancora bagnato di lagrime.

«Cos’è stato?» domandò piano il cugino.

Ella lo guardò cogli occhi lagrimosi, il petto le si gonfiò, e scoppiò a piangere.

«Nulla! nulla!» rispondeva ostinatamente a tutte le interrogazioni di lui che si sentiva trafiggere il cuore da quel pianto.

Dopo circa una mezz’ora ritornò lo zio. Era serio in viso, ma con quell’aria di burbero benefico che gli andava a meraviglia. Egli fu amabilissimo con Velleda, e accarezzò il nipote sulla spalla.

«Il tuo baio mi sembra un po’ malato» gli disse. «Vuoi venire a vederlo?»

Alberto sentí in nube che il suo baio stava assai meglio di come egli non si sentisse in quel momento; pure seguí lo zio, di cui il viso andava rannuvolandosi a misura che si allontanavano dal pergolato dove avevano lasciato le ragazze. Arrivati nel viale rimpetto alla scuderia, ch’era dall’altro lato della villa, ei si fermò su due piedi, dominando il nipote da tutta la maestà della sua corpulenta statura e del suo sguardo da zio.

«Alberto, tu sei il figliuolo della mia cara Cecilia!» incominciò solennemente.

«Zio mio…»

«E sei anche un ottimo ragazzo… non ho difficoltà di dirlo.»

«Oh, mio zio…»

«Io ti voglio e ti vorrò sempre del bene, da secondo padre che ti sono. Tu puoi vedere come ti ho accolto in casa, e come..»

«Grazie, zio mio!…»

«Ma che lavoro mi fai in ricambio!

Alberto si fece di bracia.

«M’hai stregata quella povera bambina, di’?…»

Il nipote, con tutti i colori dell’iride sul viso, teneva gli occhi fitti a terra, come se avesse voluto sprofondarvisi. Lo zio tacque maestosamente, aspettando risposta per alcuni secondi; indi riprese in aria paterna:

«M’accorgo dal tuo imbarazzo che capisci d’esserti condotto assai male, e che ne sei pentito!…»

E mise una seconda pausa; ma la risposta che aspettava non venne.

«Me ne sono accorto soltanto oggi… troppo tardi! Ma avrei potuto diffidare di te, del sangue mio, del mio secondo figlio.. ché per tale ti ho?…»

Alberto non fiatava, ma andava ruminando come diavolo lo zio se ne fosse accorto proprio adesso che egli non pensava quasi piú alla cugina, e ricordavasi della tosse che si era udita quella sera del famoso colloquio con Adelina, e che in buona coscienza aveva allora attribuito allo zio. Costui, vedendo che il nipote non si risolveva a parlare, e rimaneva impalato quasi fosse stato di sasso, riprese:

«Mea culpa! mio danno! i cocci li pagherò io! io che son stato troppo cieco, fiducioso come… come un galantuomo… Quella povera figliuola passerà qualche grosso guaio… ma pazienza!»

«La sposerò!», rispose Alberto pallido come un cencio.

«Figliuol mio!» esclamò il signor Forlani abbracciandolo teneramente. «Non ho mai dubitato di te!»

Ritornarono sotto il pergolato, non curandosi altro del baio che mangiava tranquillamente la sua avena. Velleda, senza alzare gli occhi dal lavoro, li saettò di uno sguardo che avrebbe fatto onore ad un diplomatico. Adele chinò maggiormente il capo, ed impallidí.

«Figliuola mia» le disse il babbo appena Alberto si fu allontanato; «tuo cugino Alberto mi ha domandato la tua mano. Posso parlarne qui dinanzi alla tua amica che è come una sorella.»

Adele lasciò cadersi il lavoro di mano, e si fece bianca, Velleda si alzò come per lo scattare di una molla, corse a lei in furia, l’abbracciò e la baciò a piú riprese, poi, al sopravvenire di Alberti, gli sorrise graziosamente, e gli stese la mano.

«Che Iddio vi benedica, figliuoli miei!» finí il signor Forlani abbracciando i due giovani nel tempo stesso.

«O come il babbo se n’è accorto adesso?» esclamò ingenuamente Adele, allorché rimasero soli.

La felicità della poveretta era cosí grande che sembrava irradiarsi anche sugli altri. C’era tanto affetto, tanta gratitudine, tanto abbandono, tanta espansione nella sua gioia che Alberto credette un istante il suo amore si fosse galvanizzato.

Gemmati avea fatto una corsa sino a Pistoia; ritornando alla sera trovò tutti in festa, e come seppe di che si trattava abbracciò Alberto, e gli disse con quel suo fare calmo e schietto:

«Bene, amico mio!»

XV

Alberto fu insolitamente mattiniero. Tornando dalla sua passeggiata, udí suonare il piano, ed entrò nel salotto.

Trovò Velleda al pianoforte; com’egli apparve sull’uscio le ultime note sembrarono trasalire.

«Oh, il signor Alberto!»

E gli stese la mano con calma perfetta.

Ei s’assise accanto a lei, e stette ad ascoltare.

«Non lo sa?» diss’ella dopo alcuni istanti, e senza smetter di suonare «aspetto la mamma, oggi.»

«Oh! L’avremo per qualche tempo con noi?»

«Per un giorno. È venuta a prendermi.»

«Va via?»

«Sí.»

«Quando?»

«Domani.»

«Cosí presto!»

«È piú di un mese che son qui.»

Alberto tacque, ed ella continuò a suonare.

«Che pezzo è codesto?» domandò infine.

«Uno studio di Liszt. Le piace?»

«Sí… molto…»

Egli si alzò, e si mise a guardare fuori della finestra. Poi tornò a sedersi al medesimo posto, e dopo alcuni istanti di silenzio le disse: «Ci rivedremo?».

«Ma… sí…»

Egli non disse piú nulla; anche il pianoforte si tacque. Rimasero zitti, immobili, senza guardarsi.

Ad un tratto si udirono dei passi vicino all’uscio.

«Lasciatemi» esclamò Velleda bruscamente dandogli per la prima volta del voi.

Entrò Gemmati, serio, freddo; scambiò due o tre parole colla contessina, poi prese Alberti pel braccio, e lo condusse fuori con un pretesto.

Dopo alcune centinaia di passi, Gemmati alzò gli occhi in viso al suo amico per la prima volta gli disse:

«Son venuto a cercarti per dirti una cosa. Domani vado via.»

Alberto parve un istante colpito da quell’improvviso annuncio; ma ad un tratto avvampò in viso e rispose masticando un sorriso:

«Accompagni la contessina Manfredini?»

«Vado solo:» rispose freddamente Gemmati; «partirò stasera.»

«Oh, fai pure il tuo comodo!»

Gemmati, dopo una lieve pausa, riprese:

«Dunque l’hai fatta?»

«Cosa?»

«Quella cattiva azione.»

«Luigi!» gridò Alberto.

«Non andare in collera, perché in tal modo mi dai ragione; vedi, io che non ho torto non andrò in collera: se gridi, griderò piú alto di te quello che la tua coscienza ti dice sottovoce; se tenti di picchiarmi, picchierò piú forte. Partirò stasera, perché non voglio stare a vedere certe scene; tu mi fai rabbia, e quella povera bambina mi fa pietà; le mie parole non son giovate a nulla; almeno non vedrò coi miei occhi… Se avrai la forza di essere quello che sei stato sempre, un galantuomo, verrò ad abbracciarti e a domandarti scusa… Se no… non ci rivedremo piú; addio!»

XVI

Verso sera giunse la contessa Manfredini. Era una bella signora che si era fermata ai quarant’anni, bionda come la figliuola, colle labbra sottili, il sorriso affabile, e quel gentile accento toscano che sembra una carezza della parola. Si sarebbe detta una donna tutta miele dai capelli alla bocca; era discreta, indulgente, riservata, semplice e spiritosa, all’occorrenza, e quando voleva poteva assumere certe arie matronali che bisognava vedere! Fu talmente gentile e affettuosa con Adele da far ingelosire Velleda, se Velleda non fosse stata buona come la mamma; trovò due o tre parole da fare andare in solluchero Alberti, e fu cosí graziosa col signor Forlani, che costui, per rispondere di galanteria alla sua maniera, avrebbe voluto farle bere di tutti i fiaschi della sua cantina. Dopo il pranzo le ragazze si misero al piano, il signor Forlani preparò i famosi scacchi, e il vento cominciò a gemere al di fuori.

«Ci faccia sentire qualche cosa!» disse Alberto a Velleda con voce lievemente commossa.

Ella parve esitare.

«Sii buona, via!» aggiunse Adele.

«È l’ultima volta che ci vediamo;» rispose finalmente rivolgendosi ad Alberto; «non le posso ricusar nulla.»

«L’ultima volta?» esclamò Adele.

«Ho detto per ischerzo, sai!»

E si mise accanto al piano, scelse la sua musica, e l’Adele si dispose ad accompagnarla.

Cantava con una mano appoggiata al pianoforte: la luce delle candele, difesa dalle ventole, giocava coi delicati chiaroscuri del suo viso; nella sua voce c’erano vibrazioni che facevano trasalire, che gli ascoltatori sentivano scorrere nelle loro fibre; i giocatori avevano lasciato gli scacchi; Adele stessa di tanto in tanto alzava gli occhi verso di lei, con un sentimento d’ammirazione. Tutt’a un tratto Velleda lanciò uno sguardo rapido e fiammeggiante come una stoccata ad Alberto, che ascoltava cogli occhi fissi su di lei, pallido e turbato.

«Come hai cantato stasera!» le disse Adele abbracciandola.

Ella sorrise sbadatamente.

«Fammi dare del fior d’arancio, mi sento un po’ agitata.»

Adele andò ella stessa.

Velleda rimase al cembalo, e vedeva Alberti senza guardarlo. Ei le si avvicinò lentamente come affascinato, e le si mise accanto – ella sembrò non accorgersene.

«Vorrei parlarvi!» disse finalmente il poveretto con voce sorda.

La contessina chiuse il libro tranquillamente e levò su di lui gli occhi sereni:

«Sto ad ascoltarvi.»

«Vorrei parlarvi da solo, stanotte, in giardino!» ripeté Alberti coll’ostinazione quasi minacciosa di uno che stia per ismarrire la ragione.

«È matto?» diss’ella freddamente.

Le labbra del giovane si fecero smorte, e tremarono due o tre volte senza poter proferire parola: «Sí, credo d’esser matto davvero!».

«Ma io non lo sono, davvero!»

Alberto guardò Velleda in tal modo che ella, in un salotto pieno di gente, ebbe paura.

«Sarete cagione di qualche disgrazia!»

«Io?»

«Voi!» rispose con fermezza, guardandola fisso.

«Ma sa quel che mi propone, lei?» disse la giovinetta con fierezza.

«Ho bisogno di parlarvi, stanotte!» insisté Alberto con ostinata tenacità.

Adele entrava in quel momento da un uscio accanto al piano, e udí quelle parole come se un demone gliele avesse incise nel cuore coll’artiglio. Ella si appoggiò all’uscio prima d’entrare; ma nella piú debole fanciulla ci son miracolose energie, ed ebbe la forza di mostrarsi calma allorché sollevò la tenda. Alberto insisteva collo sguardo, senza avvedersi di lei.

Velleda indovinò un po’ d’imbarazzo nel contegno scambievole.

«Sai che cosa gli dicevo?» le disse all’orecchio «che son gelosa!»

I due fidanzati trasalirono in modo diverso.

«Gelosa di me?» balbettò la povera fanciulla.

«No, ma di lui. Ei mi ruberà il tuo cuore.»

Alberto chinò gli occhi e arrossí.

La contessina incominciò a discorrere di mille cose, spiritosa e disinvolta come sempre, e la conversazione si fece generale, spiegò e raccolse le ondeggianti sue reti di parole che avevano significati diversi pei diversi attori di quella scena. Adele, coll’anima straziata dall’angoscia, osservava il cugino che sembrava intento ad un discorso interiore. A un tratto, guardando alla sfuggita Velleda con cert’occhi da spiritato, ei scappò a dire fuor di proposito: «Ebbene?» un ebbene che avrebbe stonato orribilmente nella conversazione generale, se in quel momento tutti non fossero stati distratti da una discussione abbastanza calorosa. Adele fu eroica per forza d’animo, Velleda mostrò una sorprendente presenza di spirito: prese la musica del Ballo in Maschera sbadatamente, cominciò a scorrerne le pagine, e canticchiò «Io là sarò… alle tre.» Si alzò, si mise al piano, come invogliatasi repentinamente, e cominciò a suonare la stretta. «Grazie!» le disse Alberto cogli occhi. Adele sentí che le si spezzava qualcosa dentro il petto.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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