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Читать книгу: «Eros», страница 3

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VIII

Al veder la faccia patriarcale e il sorriso giovialone dello zio, il giovanotto si sentí meglio, e cercò di sorridere anche lui. Lo zio aveva un monte di scartafacci sul tavolino, e gli occhiali sul naso.

«Stavi per andare a caccia?» domandò amichevolmente. «Sí, caro zio» balbettò il giovane con tenerezza.

«Scusami, ma ho a farti un discorso serio.»

Alberto sentí che si faceva piccino di nuovo. Gli occhiali dello zio gli abbacinavano la vista.

«Ma mi sbrigherò in un fiat» riprese il signor Bartolomeo. «Ho messo tutto in ordine da un mese. Non avrai che a gettare gli occhi sui conti, e spero che sarai contento di me.»

Alberto respirò liberamente, e rispose ch’era contentissimo.

«Vedrai che ordine! che esattezza scrupolosa! Se avessi amministrato sempre io a quest’ora saresti… Basta! dei morti non si parla. Cotesti son atti di gabella… le spese… i bilanci… il rendiconto della tutela… Stammi a sentire.»

«Ma zio mio!… le pare!…»

«No, no, figliuolo mio… Sono affari delicati questi… Ci son di mezzo io… Si tratta di tutela…!»

Alberto, che non capiva nulla di nulla, e che aveva in corpo per giunta il rimorso di quella tal magagnetta della notte scorsa, perdette intieramente la testa soltanto a gettare gli occhi su quelle lunghe filze di cifre, e si lasciò trascinare pei capelli in un labirinto di dare ed avere, riscossioni, pagamenti, bonificazioni, atti giudiziari, spese diverse, ecc., approvando del capo, o sfogandosi in proteste di fiducia e di gratitudine. Dopo un par d’ore di quel supplizio venne a sapere che lo zio Bartolomeo, sulle trentaduemila lire d’entrata, avea fatto, durante la sua tutela, una economia di lire 5876 e 97 centesimi – oltre le tutte spese e la pensione pagata regolarmente al collegio Cicognini – delle quali, 5876 lire e 97 centesimi avea mandato al nipote 2000 lire, quando era ancora a Prato, e senza parlare di un rigo di ricevuta, e le rimanenti lire 3876,97 le consegnava al momento. Ben inteso senza voler sentire nemmeno discorrere d’indennità – diamine! non era del medesimo sangue per nulla! Alberto gli rammentava al vivo la sua povera Cecilia! Anzi non volle neppur restituiti i tre centesimi d’avanzo.

Il nipote, malgrado la sua inesperienza, sentiva vagamente che i ringraziamenti gli venivano stentati, e che si ricordava della tosse significativa della notte scorsa.

«Adesso, per la vita e per la morte, è bene mettersi in regola per via di notaio con una buona quietanza.»

Alberto non fiatò, e sottoscrisse tutto quello che lo zio e il signor Zucchi gli misero sotto la mano.

IX

Gemmati era andato a Pistoia per un par di giorni. Alberto l’aveva accompagnato per un tratto di strada; poi era ritornato a piedi, per le scorciatoie che s’arrampicavano su per l’erta fiancheggiate da siepi fiorite. La viottola sbucava sulla strada carrozzabile, a pochi passi, in mezzo ai folti che continuavano a salire col monticello. Le due ragazze stavano per mettervi il piede quand’egli arrivò dall’altra parte della strada maestra; si voltarono al rumore dei suoi passi, e misero un oh! prolungato.

«Vi ho fatto paura?»

«Paura di che?» disse Velleda.

«Sí, ci hai fatto paura» rispose ridendo l’Adele.

«Volete che vi accompagni?»

«Dove andremo?»

«Ma.. dove vuoi» rispose Velleda all’interrogazione dell’amica.

«Se tornassimo a casa?»

La signorina Manfredini non fece alcuna osservazione; si voltò indietro, e incominciò a camminare verso il cancello, appoggiandosi all’ombrellino, con quell’altera indifferenza che l’avea fatta soprannominare la principessa.

«Sai, non è stato nulla!» disse al cugino Adele, senza osar di guardarlo.

Velleda li precedeva senza affettazione pel gran viale del giardino, voltandosi di tanto in tanto per fare una interrogazione, o fermandosi per raccogliere col medesimo interesse un fiore o un filo d’erba. I due cugini la seguivano l’uno accanto all’altra, chiacchierando fra di loro, ma senza

darsi il braccio. L’Adelina era un po’ pallida, aveva certi rossori fuggitivi, certi impeti d’allegria, come una pienezza di vita che si fosse concentrata nel cuore. Andava lentamente, quasi fosse stanca, con certa mollezza carezzevole rispondeva a lui con voce piena di una dolce sonorità, e gli sorrideva senza alzare gli occhi, con un sorriso velato.

Entrando nel salotto Velleda sprigionò i suoi magnifici capelli biondi, togliendosi il largo cappello di paglia, e vi rovesciò tutto quel mucchio d’erbe e di fiori che si teneva in grembo.

«Cosa vuoi farne?» le domandò Adele.

«Il piú bel mazzo, vedrai!»

Appena rimasero soli il cugino prese la mano della giovinetta, e le disse: «Come sei bella!». Ella gli sorrise senza alzare gli occhi.

Il sole faceva scintillare i vetri della finestra, e inondava di atomi dorati il viso della fanciulla. Ella lavorava in silenzio, col capo chino sul ricamo, e le sue mani, che si affaticavano con febbrile impazienza, dicevano al giovane amato tutte quelle cose che le labbra tacevano. – Essi si parlavano da mezz’ora senza aprir bocca – lui cogli sguardi che la giovinetta si sentiva posare sui capelli come un bacio – ella con quel silenzio, cogli improvvisi rossori che passavano sulla nuca delicata, e col lieve tremito delle mani.

«Adele!» mormorò alfine Alberto con voce appena intelligibile. Ella trasalí. «Sei in collera con me?» Essa cercò due o tre volte il buco del canovaccio dove infilar l’ago, e balbettò:

«Perché?»

«Perché non mi dici nulla…»

«Sto ad ascoltarti» rispose ingenuamente la fanciulla.

«Mi ami?»

Adele abbassò il capo sin quasi a toccare il lavoro che avea fra le mani, e il sangue le corse come una vampa in tutte le vene.

«Dammi qualcosa di tuo!…»

«Non ho nulla…»

Il cugino prese la forbicetta: ella se ne avvide, impallidí leggermente, smesse di lavorare, ed attese, a capo chino, trepidante. Ei prese un ricciolino di quei che le svolazzavano sul collo, e lo recise.

«Ahi!» esclamò la poveretta, di cui le mani tremavano forte.

«Ti ho fatto male?»

«…No… mi son punto un dito…»

Trascorsero parecchi giorni di gioie tumultuose, nascoste in due mani che s’incontravano per caso, e di sospiri riboccanti di felicità, di rossori provocanti e di pudiche audacie, di mostruose dissimulazioni, che avrebbero aperto gli occhi anche ad un cieco, e di sotterfugi abilissimi, che nessuno faceva le viste d’indovinare, – cercandosi cogli occhi, parlandosi colle mani, accarezzandosi col suono della voce, respirando l’amore e l’amante coll’aria, col profumo dei fiori, col raggio del sole, e col canto degli uccelli. Velleda, quasi fosse sola a vederci chiaro, si faceva vedere il meno possibile. Gemmati era a Pistoia, lo zio Bartolomeo si fregava le mani guardando il bel tempo che favoriva l’ubertosa vendemmia. Era un paradiso. – Al giovane innamorato sembrava di vivere in un’estasi deliziosa, che non era priva di voluttà, voluttà sottile, quasi eterea, che gli ricercava squisitamente le fibre piú riposte, e gli centuplicava il piacere di certe sensazioni. Il suo cuore vi si abbandonava mollemente; ei non desiderava dippiú, non avrebbe osato cercare piú in là: tutte le larve gioconde che avevano popolato i suoi sogni giovanili, la donna, l’amore, la felicità, erano riunite in lei, nel suo sorriso, nella sua voce, nelle carezze di quella vesticciuola che s’increspava un po’ troppo sul petto e sugli omeri delicati. Allorquando lo strascico superbo di Velleda frusciava sul tappeto vicino a lui, o le sue chiome folte gli accarezzavano gli sguardi col loro bel biondo, egli guardava con piacere, come se quell’altra bellezza invece di essere una sottrazione alle attrattive di Adele, ne facesse parte, appartenesse anch’essa alla donna amata… o al suo amore.

Del resto egli vedeva di rado Velleda, all’infuori dell’ora di pranzo, e della sera – non sempre però. Alcuni giorni dopo l’incontrò in giardino per la prima volta sola colla larga manica svolazzante sul braccio, il viso colorito dei rosei riflessi dell’ombrellino, lo sguardo vagabondo, l’andatura graziosamente indolente. Ella si fermò su due piedi, gli stese la destra, e gli disse con una sicurezza di frase e d’intonazione che parve pesare come una mano vigorosa sulla spalla di lui:

«E Adele?»

«Non l’ho ancor vista.»

Ella sorrise come sapeva sorridere alcune volte, e disse: «Ooooh!…» Alberto arrossí per timore di farsi rosso.

«La troveremo forse sulla terrazza, dove il signor Forlani sta facendo collocar dei vasi di fiori» soggiunse. «Vuole accompagnarmi?»

E andarono pel viale, l’uno accanto all’altra. Le leggere balzane del vestito di lei sussurravano sugli stivalini di pelle lucida.

«Le piace la campagna?» incominciò Alberto dopo alcuni passi.

«Tanto!»

«Ci fa delle lunghe passeggiate?»

«Sl.»

«Non si vede quasi mai la mattina!»

Ella si voltò a guardarlo, con una sfumatura di sorpresa, e inchinò leggermente il capo, un po’ ironica.

«Prima eravamo in due a correr pel giardino» soggiunse tosto come a scancellare l’effetto del suo saluto. «Ma adesso l’Adele è sempre stanca.»

«E non si annoia ad andar da sola?» si affrettò a rispondere Alberto.

«Perché dovrei annoiarmi?»

«È pur vero che alle volte si preferisce stare in compagnia dei propri pensieri…»

«Che pensieri?» interruppe Velleda bruscamente, fissandogli gli occhi in viso.

Essi rimasero un istante a guardarsi in tal modo.

Lo zio Bartolomeo, che stava lí presso, gridò, come se avesse indovinato la situazione scabrosa:

«Ehi, ragazzo, chi vuol vedere la bella carrozza? Correte sulla terrazza.»

Passò infatti un cocchio superbo, luccicante di vernice, di stemmi dorati, di livree gallonate, di campanelli, adorno di nastri e di fiori, alle testiere dei cavalli e agli occhielli dei postiglioni; i razzi delle ruote brillavano al sole come rapide ali di uccello; un sottil velo di polvere avvolgeva il legno elegante, imbottito di seta come un elegante scatolino, e la bella signora che vi stava mezzo sdraiata, appoggiando i piedi al sedile di faccia, con posa indolente, in mezzo ad una nuvola di mussolina fresca e leggiera come il tulle; il velo azzurro del suo cappellino svolazzava su tutto quell’assieme leggiadro.

«La bella signora!» esclamò ingenuamente Adelina che era venuta correndo.

«È la contessa Armandi» disse Velleda.

Alberto l’aveva seguita con un lungo sguardo.

Tornarono indietro pel desinare, e lo zio andava innanzi piú lesto degli altri, dicendo che avea fame. Di tanto in tanto Alberto rimaneva pensieroso, e non rispondeva subito, o rispondeva a sproposito alle interrogazioni e ai discorsi delle due ragazze, che sembravano festanti tutt’e due. A tavola parlò due o tre volte della contessa Armandi e dopo desinare andò a fumare in giardino.

Si sentiva gonfiare in petto i germi di tutte le forme dell’amore, come un rigoglio di vita, come acri fiori di giovinezza: era uno strano miscuglio degli occhi turchini di Adele, del suo sorriso pudico, e delle lusinghe, dei biondi capelli di Velleda, della sua elegante civetteria piú in là, fra le nuvole azzurre e purpuree dell’avvenire, ondeggiava vagamente la larva di un altro amore nebuloso come la mussolina che modellava il bel corpo della contessa Armandi, sdraiata mollemente nella carrozza come in un letto. – Tutti cotesti fantasmi gli turbinavano confusamente nella mente, gli scorrevano per le vene col sangue acceso di febbre. – Quel fanciullo che cominciava a sentir la donna aveva bisogno di piangere.

X

Allora fu recato in villa un invito pel ballo della contessa Armandi.

Andarono in una magnifica sera d’autunno. Le siepi fiorite esalavano vigorosi profumi; le sonagliere dei cavalli avevano un non so che di festoso; le fruste dei postiglioni scoppiettavano allegramente; l’ultima squilla dell’avemaria moriva in lontananza, coll’ultimo raggio di sole che colorava di tinte opaline uno strappo di cielo. Poi venne la notte, tacita, stellata.

Il giardino della villa Armandi era illuminato, la scala adorna di fiori, tutte le finestre brillavano come le lenti di una lanterna magica. – Alberto guardava avidamente attraverso un’iride di tappezzerie, di colori, di dorature e di specchi, vedevasi un via vai di gente in festa; nelle sale olezzavano profumi soavi, brillavano gemme superbe ed occhi vellutati, c’era una carezza di musica, di frasi leggiadre e di raso che frusciava – e in mezzo a tutto questo una donna piú bella, piú elegante di tutte le altre, che si chiamava la contessa Armandi.

Era una delicata bellezza: l’occhio nero, superbo, profondamente e voluttuosamente solcato, l’andatura, la voce ed il gesto molli, gli omeri candidi e profumati come le foglie di magnolia, ondulati in linee pure, carezzate dalle trecce nere ed elastiche, il seno squisitamente modellato nell’avorio, marmorizzato da sfumature azzurrine, vaporoso pei veli ricamati, lo strascico della veste susurrante in modo carezzevole dietro di lei, la punta dello scarpino di raso che luccicava di tanto in tanto come una lingua serpentina, la fronte altera e il sorriso affascinante. – Ella aveva quarant’anni.

Allorché si trovarono faccia a faccia con Velleda, coteste due donne leggiadre in modo diverso, scambiarono un’occhiata che avrebbe potuto dirsi il luccicare di due spade da duellanti, mentre s’inchinavano graziosamente. – La contessa sorrise all’Adele, al signor Forlani, e si voltò a guardarlo mentr’egli si allontanava.

Tutti gli sguardi seguivano la signorina Manfredini; sembrava infatti che le grazie della sua persona sorridessero trovandosi nel proprio elemento; nella sua elegante disinvoltura c’era un che d’impaziente, di avido, di febbrile, che luccicava nei suoi occhi, e dilatavasi colle rosse narici, mentre ella agitava il ventaglio chinese. Anche Alberto sorprese sé stesso a seguire la direzione di tutti gli sguardi, e fissava lungamente la contessina – poscia, inquieto, cercò cogli occhi l’Adele

Velleda stava presso il pianoforte circondata dai piú eleganti giovanotti, come una cerbiatta attorniata da una muta di cani; ma la cerbiatta teneva testa da tutte le parti, col brio, col sorriso, con una parola, con un gesto, spiritosa, caustica, leggiadra e impertinente. Due o tre volte volse a caso gli occhi su di Alberto, e ad un tratto gli fece segno col ventaglio di avvicinarsi; prese il braccio di lui e si allontanò.

«Non ne potevo piú!» disse ridendo.

Il povero giovane si sentí tutto sossopra.

«È naturale che tutti le facciano la corte…» balbettò.

«Vorrebbe farmela anche lei?» diss’ella con un accento e un sorriso singolari.

Alberto ammutolí, e a lei il sorriso morí sulle labbra.

Passeggiarono lentamente per le sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.

«Com’è bello!» esclamò Alberto.

«È Strauss,» rispose ella distratta.

«O perché non si balla un giro?»

«A proposito della corte?» diss’ella sorridendo.

Alberto volle sorridere colla medesima disinvoltura, ma ci riescí assai male.

«Ebbene…» disse «sí!»

«No!» rispose ella col medesimo tono, ma un po’ piú recisamente.

Il giovane insistette con insolito calore; ella diveniva piú capricciosa e piú ostinata, scuoteva il capo con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso, appoggiando le spalle allo stipite di una finestra e stringendo il ventaglio nelle mani. Di tanto in tanto, quasi non se ne avvedesse, raggi seduttori le scappavano dagli occhi. Ad un tratto, senza dir nulla, mentre sembrava piú ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente il braccio alla spalla di lui, e si lasciò andare.

Essa ballava in modo singolare, un po’ diritta, col capo alto, e il braccio disteso. Di tanto in tanto gli diceva qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la sua bionda testolina. Si fermò all’improvviso, un po’ rossa, un po’ smarrita, svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidí leggermente.

«Non ballo piú» gli disse «sono stanca.»

La contessa Armandi era lí presso ed esclamò:

«Che bella coppia!»

Velleda rispose con un grazioso inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e poscia arrossí di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè. Andò verso la povera Adelina, la quale se ne stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e sembrò rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.

«Non balli?» domandò il cugino, allorché furono soli.

«Non mi hai invitato a ballare!» rispose Adele timidamente carezzevole.

«Ci son tanti giovanotti…!»

«Non voglio ballare cogli altri…»

«Perché?»

«Perché… perché… perché non voglio.»

Ei chinò il capo, tuttora bollente del soffio che Velleda vi aveva gettato, e si allontanò sopra pensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui vetri, guardando nel buio, allorquando udí un fruscío di vesti vicino a lui, e si trovò accanto la contessa Armandi.

«Non balla il cotillon?…» gli domandò.

«No, contessa.»

Ella sembrò volere aggiungere qualche altra parola, ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinío di quella danza in mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si contendevano un sorriso o un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò diritto verso di lui, gli gittò come una sultana il suo fazzoletto ricamato, gli mise sulla spalla la mano splendida di gemme, e fra le braccia la vita sinuosa ed elastica – poi, quando ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un sorriso.

«Voglio conoscerla meglio:» gli disse «facciamo un giro.»

Tutti gli sguardi si volsero su quell’uomo fortunato e quell’altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno in cui l’aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di polvere e di veli.

Entrarono nella stufa, profumata, silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito con certa bizzaria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando in tutti i zig-zag serpentini pei quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo, elegante come lei. Poi ella non disse piú una sola parola, appoggiò il mento sulla mano, e guardò qua e là con occhi distratti; il fisciú alitava lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d’alabastro: ella apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le stecche fra di loro. Tutt’a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e un sorriso singolari, e gli disse:

«Ma noi ci compromettiamo orribilmente, mio caro!»

Si alzò ridendo e si allontanò.

Allorchè gli ospiti di villa Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava fra le gole lontane. Adele un po’ melanconica stava nel fondo della carrozza, avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto respirava a pieni polmoni.

«Che bella sera!» esclamò. Velleda gli rivolse una rapida occhiata.

I sogni di quella notte! popolati di tutte le larve dell’amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le lusinghe delle vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! Povera Adele, se avesse potuto indovinarli!

XI

Alberti si svegliò tardi, stanchissimo, e col capo peso. Un raggio di sole penetrava fra le stecche della persiana e faceva luccicare la vernice del cassettone; ei gli sorrise, poscia rimase a fissarlo con occhi sbarrati; infine si alzò con un inesplicabile malumore.

Il suo primo sguardo fu per la finestra di Velleda: era chiusa. All’ora della colazione entrando nella sala da pranzo, volse intorno uno sguardo ansioso.

«Sei malato anche tu?» gli chiese Adele correndogli incontro festosa.

«Chi è malato?»

«Velleda, che non viene a colazione perché è cosí stanca da starne male. Avete ballato molto!»

Alberto lasciò cadere il sorriso ingenuo e l’aria giuliva della fanciulla. La colazione non fu molto gaia. Lo zio Bartolomeo uscí appena alzatosi da tavola, e li lasciò soli.

La fanciulla guardava il cugino alla sfuggita, gli porgeva i fiammiferi e la borsa del tabacco, cercava di prevenire tutti i desideri di lui, e, dopo di avere esitato lungamente:

«Che hai?» domandò.

«Io? nulla.»

«Non è vero; hai qualcosa.»

Il giovane sentí penetrarsi sino al cuore quell’osservazione, e rimase un po’ senza rispondere.

«Ma cosa vuoi che abbia?»

«Mah… se lo sapessi!» rispose la fanciulla ingenuamente.

Per la prima volta il giovane non poté sostenere il limpido sguardo della vergine, accese il sigaro ed usci.

Trovandosi all’aperto, l’aria, il sole, il profumo dei campi, tutte quelle cose salubri e schiette, sembravano purificarlo e rinvigorirlo. Gli ebbri fantasmi della notte, che avevano bisogno del lume, della stearina e delle ombre delle cortine si dileguavano alla chiara luce del sole, e non rimaneva che la mesta e pura figurina di Adele, colle sue candide manine intrecciate sulle ginocchia, e i grand’occhi turchini che l’interrogavano timidamente.

Il giorno dopo la contessina Manfredini comparve all’ora del desinare, fresca e rosea come prima. Alberto provò un singolare dispetto vedendola cosí. «S’è rimessa?» le domandò.

«Lo vede!» rispose ella tranquillamente.

Prendevano il caffè in giardino; Velleda posò la chicchera sulla tavola di marmo, e si mise a dondolare su di una poltrona di legno: «E il suo amico non torna piú?» domandò dopo qualche tempo ad Alberto. Ei rispose, con un po’ di sorpresa: «Verrà domani o doman l’altro».

«Ah!»

Si alzò, lasciò i due cugini in giardino, e andò a mettersi al piano. Il tocco della sua mano era secco, nervoso, quasi aspro; la melodia errava scucita, e come soffocata in mezzo ad un nembo di accordi tempestosi; c’era l’indolenza, la sprezzatura, la sbadataggine di chi va seguendo sui tasti i propri pensieri, e non si cura di afferrarli. Quella strana musica irrompeva dalle finestre aperte, e soverchiava, direi turbava, la pace solenne della sera, sembrava udirvi scoppi d’allegria e gemiti soffocati, e aveva qualcosa della leggiadria bizzarra della suonatrice.

Alberto si avvicinò al piano, e stette a guardar Velleda. Ella sembrava una statua di marmo che suonasse; calma, impassibile, cogli occhi fissi sulla carta.

«Canterai qualcosa?» domandò Adele

Ella scosse il capo continuando a suonare, poscia smise, e si alzò.

«Cosí presto!» disse Alberto «Continui a suonare almeno.»

Velleda alzò freddamente gli occhi su di lui, e gli domandò:

«Cosa desidera?»

«Ma… quel che le pare.»

Ella si mise a sfogliare della musica senza aggiungere verbo, l’aggiustò sul leggío, e incominciò una canzone di Schubert.

Adele erasi messa a sedere sul canapè. Alberto, appoggiato alla coda del piano, teneva gli occhi fissi sulla suonatrice: costei non levava i suoi dalla carta, con certa altera freddezza; metteva tutta la sua anima nelle mani, di cui gli anelli scintillavano assai piú dei suoi occhi e vedevasi solo che quel seno si gonfiava dai lucidi riflessi della sua veste, su cui cadeva il lume delle candele. A poco a poco il suono morí nelle corde, le mani si fermarono, e la suonatrice chinò il mento sul petto.

«È finito?…» domandò Alberto come svegliandosi di soprassalto.

«Sí» rispose lei bruscamente.

E andò ad aggiustarsi un fiore tra i capelli, baciò Adele, salutò appena del capo Alberti, e se ne andò.

«Si soffoca qui!» disse Alberto alla cugina «vado in giardino,»

Il domani doveva arrivar Gemmati. Alberto andò ad incontrarlo, e dopo la prima stretta di mano il suo amico gli domandò:

«O cos’hai?»

«Cosa mi vedi? Sto benissimo.»

«Stanno tutti bene in villa?»

«Tutti.»

«Siamo in broncio, eh?»

«No!»

«V’amate sempre?»

«Non amo che lei!…»

«Chi ti parla degli altri?» disse Gemmati.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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