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Читать книгу: «Eros», страница 2

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V

Il domani, appena Alberto aprí la finestra e appoggiò i gomiti al davanzale, colla sua bella pipa di schiuma in bocca, udí chiamarsi per nome.

Volse gli occhi sotto il pergolato, e vide un fresco visetto e due begli occhi che gli sorridevano; la cuginetta stava cogliendo dei fiori da un arbusto alquanto piú alto di lei, e rizzavasi sulla punta dei piedi per far piegare i ramoscelli restii; le maniche del vestito le cadevano lungo le braccia un po’ troppo delicate, ma bianche come alabastro; il piú gaio raggio di sole indorava quelle braccia e quel viso gentile.

«Buon dí, cugino!»

«Buon dí, cuginetta!»

«Son le nove, sa?»

«Lo so.»

«E non si vergogna?»

«O che fa lei costà, cosí mattiniera?»

«Lo vede, faccio dei mazzolini.»

«Per chi?»

«Pel babbo.»

«E poi?»

«Per Velleda.»

«E poi?»

«E poi… per chi se li merita.»

Egli alzò il naso in aria, mandò un grosso buffo di fumo, e disse:

«È una bella giornata.»

«Sí» rispose la fanciulla asciutto asciutto.

Adele andava e veniva fra gli alberi, chinandosi ad ogni istante sulle aiuole con una vivacità infantile e graziosa che era tutta sua. Alberto la guardava in silenzio. Di tanto in tanto ella pure guardava lui, cercando di non farsi scorgere, con una tal cera dispettosetta.

«Ha dormito bene?» domandò finalmente.

«Benissimo, grazie.»

«E vuol dormire ancora?

«No… perché?»

«Vieni ad aiutarmi dunque!»

«Vengo subito, cuginetta.»

Vedendolo venire ella si diede un gran da fare per assortire i fiori, e il giovane sentí sfumare in un attimo la grande audacia con la quale le avea quasi chiesto un mazzolino.

«Il babbo è andato lassú, alla Sassosa, alla vigna.»

«Oh davvero?»

«Quest’anno avremo una famosa vendemmia!»

«Sí?»

«L’ha detto il fattore!»

«Lui può saperlo.»

«E il babbo è contento. Ti piace codesto fiore?» riprese poscia l’Adele saltando da un discorso ad un altro.

«Bellino! come si chiama?»

«Non rammento; è un nome forestiero.»

«Dev’esser un fior raro.»

Ella stava per rispondere, ma vide che il cugino guardava piú la mano che il fior raro, e arrossí.

«Che bella aiuola!» diss’egli per non farsi scorgere.

«Sai cosa c’era qui prima? la piazzetta dove noi si giocava a volano! Ti ricordi?»

«Com’è cambiato!»

«Anche tu sei cambiato!» rispose ella senza alzare gli occhi.

Ei rispose dopo un istante: «E anche tu!».

E sorrisero entrambi.

«Andiamo a svegliare Velleda, la pigra!» disse Adele tutta rossa in viso.

Le finestre del pianterreno non erano molto alte dal suolo, ma la povera fanciulla si rizzò invano sulla punta dei suoi piedini: «Bussa tu» disse ad Alberto. Egli picchiò due colpetti timidi.

«Chi è?» si udí rispondere da una voce la quale aveva tuttora alcunché d’addormentato e di voluttuoso.

«Sono i miei fiori, che vengono a darti il buon giorno, dormigliona!»

Le stecche della persiana si schiusero alquanto; i raggi del sole vi s’insinuarono con una certa avidità e si disegnarono in strisce luminose su di una bella figura bianca, sul braccio roseo che si appoggiava al davanzale, sui capelli color d’oro, leggermente ondati, che cadevano mollemente sull’accappatoio. Velleda accostò il viso alla persiana, e si videro luccicare i suoi begli occhi; ma scorgendo Alberto, si tirò indietro bruscamente, e chiuse del tutto, dicendo: «Vengo subito».

«Non lo vuoi?» domandò un po’ crucciata l’Adele ad Alberto che rimaneva cogli occhi fissi sulla persiana chiusa, senza accorgersi del mazzolino che gli dava la cugina

«Dunque me lo merito anch’io?» diss’egli sorridendo.

«Presuntuoso!»

Passando sotto la finestra del cugino, Adele alzò gli occhi e stette a guardarla.

«Vedi com’è bello quel gelsomino che s’arrampica sino al tuo davanzale?»

«Perché fai cosí tardi alla sera?» riprese dopo breve pausa.

«Come lo sai?» Ella arrossí.

«…Me l’hanno detto» rispose.

Quel rossore fece dileguare in un lampo dalla mente di Alberto la leggiadra apparizione ch’egli avea scorto dietro la persiana e che luccicava ancora nel suo pensiero, come un raggio di sole irradiasi, anche dopo chiusa, nella pupilla che abbagliò. Egli levò gli occhi a quella finestra di faccia alla sua, dove la sera innanzi gli era sembrato veder del lume, esitò un istante, ma non aprí bocca. Sembravagli sentire tremare il braccio di lei, e che vaghi rossori fuggitivi le passassero con una trasparenza alabastrina, sul bel viso che teneva chino, e sul collo delicato.

S’erano seduti sotto il pergolato. Ella gli parlava con quella dolce favella della fanciulla toscana che somiglia a cinguettio d’uccelletto; sorrideva, arrossiva, giocherellava cogli sgonfietti del suo vestito e colle foglie del pergolato; era tutta festante, e si voltava ad ogni momento per veder comparire Velleda che non veniva mai. Le ombre delle frondi sembravano accarezzarla alternando la luce sul suo viso; il venticello, di tanto in tanto, faceva strisciare leggermente il lembo della sua veste sui piedi di lui. Egli respirò con forza, quasi con voluttà, e sorrise; ella respirò del pari e sorrise.

«O perché?» gli domandò ancora sorridente.

«Sento allargarmisi i polmoni.»

«È l’aria montanina.»

«Come fa bene!»

«Non è vero!» e si tacquero.

«Ti piace la campagna?» riprese ella poco dopo.

«Sí.»

«Ci starai volentieri?»

«Volentierissimo.»

«A me piace tanto!» esclamò ella battendo le mani tutta sorriso.

«Ti piace stare a guardare la luna dalla finestra?» domandò tutt’a un tratto e bruscamente il cugino, come rispondendo ad un pensiero insistente.

«Sí…»

«Anche a me!» e divenne pensieroso.

«Non ti par di voler amare la luna?» riprese quindi con certi occhi che luccicavano singolarmente; «e che quella dolce luce ti piova sul viso come rugiada, e ti rinfreschi il sangue, e ti accarezzi le chiome, e che le stelle scintillino come occhi innamorati, e che il venticello notturno baci mormorando le foglie e i fiori, e che i fili d’erba si agitino in leggiadri abbracciamenti, e che i tuoi sguardi cerchino lassú, in quella pallida luce, gli sguardi della donna… cioè, tu, dell’uomo…»

S’imbrogliò, balbettò, l’enfasi sbollí, e tacque arrossendo. Essa non rispose; dapprima avea spalancato tanto d’occhi a quella sfuriata; poi avea chinato il capo, col viso di fiamma, s’era tirata un po’ in là, e s’era sentito il cuore grosso di non so che sospiri.

«Andiamo a trovar Velleda?» disse dopo qualche momento, levando su di lui i begli occhi imbarazzati.

Ei la seguí. «Oh, il bel fiorellino!» esclamò la giovinetta; il cugino lo raccolse e glielo diede.

«Grazie!» diss’ella «ma anche il mio mazzolino è bello, non è vero?» e si mise a ridere. In quel momento erano giunti sotto la finestra di lei.

«È quella la tua finestra?» domandò Alberto con un lieve tremito nella voce.

«…Sí…» rispose Adele. «Ecco Velleda, finalmente!»

E le si buttò fra le braccia, coprendola di baci; la prese per mano, e si mise a correre con lei.

«Perché corri cosí?» le domandò Velleda.

«Mi sento le ali» diss’ella «e vorrei volare!»

VI

Quella sera lo zio Bartolomeo ritornò tardi dalla Sassosa, non si parlò di passeggiate in giardino, e i lumi si spensero di buon’ora a villa Forlani. Alberto stette inutilmente delle ore parecchie alla finestra, sperando rivedere quel tal lume dietro quella tal persiana; ma la persiana rimase pudicamente chiusa, come stanno abbassate le lunghe ciglia di una vergine cui si parli d’amore. Sembravagli che quel filo di luce gli avrebbe irradiato il cuore di tutte le aureole che ci sono in una dolce confessione, che quella finestra chiusa stesse pensando a lui, e che dietro quelle imposte Adelina dovesse trasalire, come lui, allo stormire di quelle frondi che il venticello agitava mollemente, o che stesse arrossendo, sentendosi accarezzare il viso da quel medesimo profumo di gelsomini che carezzava il volto anche a lui. Dolci sogni dei vent’anni che le bufere della vita fanno svolazzare qualche volta sul cuore dell’uomo, persino quando il sorriso dello scetticismo gli ha già increspato le labbra.

Lo zio Forlani aveva messo in campo una gita alla Sassosa; i cavalli impazienti scuotevano le sonagliere, e le giovanette si facevano aspettare. Finalmente comparve Adele un po’ pallida, e con un sorriso rugiadoso. Appena vide Alberto si fece rossa rossa.

«Buon dí, cugina!» Ella gli sorrise dolcemente, e gli porse la mano calda e febbrile.

«Sempre l’ultima!» disse ridendo Velleda, che scendeva di corsa infilandosi i guanti. «Il mio cappellino non voleva saperne di star fermo! Che hai? Come sei pallida!»

«Ho dormito male» rispose Adele tornando ad arrossire.

Alberto sentí balzarsi il cuore in petto.

Lo zio Bartolomeo sopraggiunse in tempo, come se avesse avuto l’intuizione delle situazioni delicate.

«Andiamo, figliuoli, che il sole è già alto.»

«Come sei bella oggi!» disse Velleda all’Adele, allorché furono sole.

Scorse in tal modo una settimana. Velleda sorprese piú volte la sua amica cogli occhi pieni di lagrime:

«O cos’hai?» le domandava.

«Nulla, ho il cuore troppo pieno.»

Lo zio Bartolomeo, da uomo che sa far le cose, avea preparato al nipote una grata sorpresa. La domenica successiva giunse da Pistoia anche Gemmati, e la sera ci fu gran veglia alla villa Forlani. Vennero dei vicini, il notaio Zucchi colla sua signora, ed altri tre o quattro. La serata scorse rapidamente in cosí bella compagnia; Alberto vicino al suo amico fu piú allegro del solito, ed anche chiassone; Gemmati era un bel giovanotto, tagliato un po’ grossolanamente, ma gioviale spiritoso e simpatico; Velleda, che sapeva annoiarsi con garbo, come una signorina ammodo, pestò sul piano tutto quello che vollero; Adele fece vedere l’album alla signora Zucchi, e voltò le pagine a Velleda; Alberto l’aiutò di tanto in tanto, per avere il pretesto di starle vicino, di toccare la sua veste o la sua mano nel voltare i fogli; poi le tenne il broncio perché ell’era gaia e spensierata, non cercava di guardarlo negli occhi, discorreva col primo venuto, ed evitava che le loro mani s’incontrassero. Andò a sedere su di un canapè, rannuvolato in viso, e lanciandole di tempo in tempo occhiate di fuoco. L’Adele che vedeva tutto cotesto armeggío come lo vedono le ragazze, colla coda dell’occhio, se la godeva ch’era un gusto.

La signora Zucchi, che la pretendeva ad elegante di provincia, si dava un gran da fare per mostrarsi disinvolta, ed era sempre in moto, ora ad annoiare il signor Forlani che giocava a scacchi col notaio, ora ad interrompere Velleda mentre suonava, ora a far la bambina con Adele, o la civettuola con Gemmati. Finalmente si pose a sedere sul canapè dove era il marchesino, facendo mille moine per attirarsi l’attenzione del bel biondo, che se ne stava rincantucciato all’altra estremità del canapè, con un certo viso da far credere che fosse in collera colla signora Zucchi.

Uno dei vicini aveva recato una gran notizia: si aspettava la contessa in villa Armandi – la bella contessa Emilia dicevasi.

«Non dev’esser piú giovanissima la bella contessa!» disse l’elegante signora Zucchi.

«Tutta Firenze parla di lei, e piú d’uno ha fatto delle pazzie…»

«Grazie tante!…» rispose la Zucchi assettandosi virtuosamente sul canapè. «Se non è che questo!…»

Il signor Forlani tossí; Velleda suonò un accordo fragoroso che non era segnato sulla carta, e Adele spalancò tanto d’occhi. Anche il notaio borbottò prudentemente: «Hum! hum! tutti i matti non sono all’ospedale!…».

Velleda avea smesso di suonare; Gemmati stava a discorrere con lei sottovoce, ella l’ascoltava, sorridendo a fior di labbro qualche volta. Poi Gemmati s’era avvicinato all’Adele e s’era dato a parlare con lei.

Alberto sentiva non so qual dispetto, né sapeva egli stesso contro di chi; ma guardava di sottecchi la cugina che non si occupava di lui com’egli avrebbe voluto. Infine si alzò, e andò a mettersi accanto alla signorina Manfredini. Costei levò gli occhi dalle fotografie, lo fissò con sicurezza da regina, sí che dovette chinare gli occhi pel primo.

«È un simpatico giovane il suo amico» gli diss’ella.

«Simpatico assai.»

` Ella si rimise a sfogliare l’album; il giovane cercò cogli occhi Gemmati, e lo vide presso il caminetto, discorrendo con Adele che rideva come una pazzerella. Egli si fece rosso e si mosse bruscamente per andarsene, ma invece d’infilare l’uscio ch’era dietro le sue spalle trovò piú corto di fare il giro del giardino per andare in camera sua, e dovette passare cosí vicino alla cugina da darle quasi uno spintone col gomito.

«Te ne vai?» gli domandò ella con sorpresa.

Ei rispose con accento da Otello: «Sí!».

«Perché?»

«Ho sonno» rispose bruscamente.

«Che bel giovane!» esclamò la signora Zucchi, non cosí piano da non farsi sentire dall’Adele, e osservandola con pettegola curiosità; la fanciulla, troppo ingenua per esser diffidente, si fece rossa di giubilo, seguitando a fissare l’uscio pel quale egli era partito.

«E il figliuolo della signora Cecilia?» domandò il notaio.

«Sí» rispose il signor Bartolomeo; «ha trentaduemila lire d’entrata in bei poderi.»

«E sí che il fu marchese!…»

«Ed anche la fu marchesa, pur troppo!…»

«Ma non parliamo dei morti. Quel ragazzo è stato fortunato di avere un parente che si occupasse dei suoi affari… Non faccio per dire, ma non avrebbe di che pagarsi nemmen la boria del marchesato.»

«Però non sembra punto allegro!» osservò la signora Zucchi.

«Cosa gli hai fatto?» susurrò Velleda all’orecchio di Adele.

«Io?… nulla, ti giuro!» rispose la fanciulla turbandosi.

Col cuore grosso ella andò a cercare il cugino che la fuggiva, e lo trovò sulla terrazza, appoggiato alla balaustrata.

«Cos’è stato?» gli domandò timidamente, mettendoglisi accanto come un’ombra.

«Ma nulla è stato!»

Ella non ebbe il coraggio d’insistere e tacque.

C’era accanto un ramoscello di gaggia in fiore; ne spiccò due o tre fiorellini, e glieli porse con atto gentile. Egli al sentirsi toccare dalla mano di lei trasalí.

«Conosci il significato della gaggia?» le domandò con un certo turbamento nella voce.

Adele si fece di bracia, e accennò negativamente col capo.

«Davvero?»

«Davvero!»

«Tanto meglio!» aggiuns’egli sorridendo.

La fanciulla scappò in casa, e corse all’orecchio di Velleda.

«Che significato ha la gaggia?» le domandò sottovoce, piú rossa della veste della signora Zucchi.

«Siamo di già a questi ferri?!» esclamò Velleda ridendo. «Vuol dire rottura…»

La giovinetta non volle udir altro, e tornò sulla terrazza trepidante. Il cugino teneva in mano un ramoscello di vainiglia fiorita.

«Vedi» le disse «io non son cattivo come te!» e le diede il fiore. Ella se lo mise in seno, e con grazioso e pudico ardimento, gli strappò dall’occhiello i fiori di gaggia, li buttò dalla terrazza, e fuggí. Alberto la vide, attraverso i vetri, passeggiare al braccio della sua amica; le due giovinette discorrevano sottovoce, e sorridevano di tanto in tanto. Tutt’a un tratto Adele si volse verso il balcone, e baciò il fiore che egli le aveva dato. Al giovane sembrò che quei vetri s’irradiassero di luce.

Sentivasi attratto verso di lei dall’incantesimo piú forte che avesse mai provato; ma ella sembrava evitarlo, lo guardava con un certo imbarazzo, quand’egli s’avvicinava a lei faceva istintivamente dei movimenti bruschi, come per fuggirsene, e rimaneva esitante, a guisa di un uccello spaurito che batte le ali. Tutto ciò la rendeva cosí bella che Alberto ne era affascinato; in quel momento tutte le attrattive della vita, della gioventú e dell’amore erano per lui in quel pallido visino e sotto quel modesto vestito grigio che tremava come le foglie agitate dalla brezza. Velleda era lí presso, bionda, elegante, graziosa, con tutto il fruscío della sua seta, col profumo chinese del suo fazzoletto ricamato – egli se ne avvide.

«Adele, desidero parlarti» le disse con voce tremante.

La fanciulla, un po’ rassicurata nel vederlo cosí commosso, rispose ingenuamente:

«Andiamo in giardino.»

«No… stanotte, quando tutti saranno a dormire… Allorché sentirai picchiare tre colpi alla tua finestra… sarò io…»

Ella sorpresa stava per domandargli la ragione di tutti quei misteri che non capiva, quando Alberto la interruppe vivamente:

«Zitta! ci osservano!»

E tirò di lungo colla guardinga disinvoltura di un cospiratore di melodramma.

Velleda s’era fermata ad aggiustarsi un nastro, e lo zio Bartolomeo in quell’istante era tutto intento a far vedere ai suoi ospiti che la sera era bellissima.

Alberto afferrò Gemmati per mano, al momento in cui stava per ritirarsi nella sua camera, e lo condusse seco in giardino.

«Stanotte le parlerò!» gli disse all’orecchio con voce soffocata.

Gemmati si fermò a guardarlo sorpreso, e gli rispose dolcemente:

«Perché cotesta pazzia? Non la vedi sempre? Non puoi parlarle quando vuoi?»

«No!… non è la stessa cosa… Tu non mi intendi… non puoi intendermi… non l’ami come io l’amo… L’hai vista? Com’è bella! non è vero?»

«Sí, è un angioletto.»

«Anche la Velleda è bella… forse piú bella… in modo diverso… Tutti lo dicono… e alcune volte, vedendole l’una accanto all’altra, anche io… Ma perché sembrami piú bella l’Adelina?»

«Perché l’ami.»

«E perché devo amar lei e non Velleda, che è bella per lo meno quanto lei?»

«To! perché ella ti ama.»

VII

Il tocco era suonato da un pezzo quando Alberto aprí la sua finestra – ora deliziosa che precedeva il primo appuntamento, ora piena di agitazione voluttuosa e di ansia inesplicabile. La finestra di Adele era chiusa: che fisonomia singolare avea quella finestra buia, e come lo guardava! Egli esitò alcuni istanti, come ogni Cesare che stia per passare un Rubicone; poi saltò sull’erba col cuore di un ladro che scassina per la prima volta un uscio. Il silenzio era profondo, e il giovane non aveva fatto il menomo rumore cadendo sulla punta dei piedi. Le frondi del pergolato stormivano appena. Egli si fermò, inquieto, guardando attorno, coll’orecchio teso, come se i menomi rumori venissero dallo zio che stesse soffiandosi il naso e prendendo tabacco. Poi si avanzò a passi di lupo fin sotto la finestra della cugina. Trattavasi adesso di picchiare quei tre famosi colpi, promessi quando ci volevano ancora due ore per picchiarli, quando il cuore, sotto gli occhi di lei, picchiava piú forte, e il chiacchierío che regnava nel salotto faceva supporre che non si sarebbero quasi uditi. Tutta la poesia dei romanzeschi convegni, delle scale di seta e dei segnali misteriosi, sfumò dinanzi al timore di udir tossire lo zio Forlani. Sentí di aver paura, e poi cotesta confessione che dovette farsi gli infuse coraggio. Allorché bussò leggermente alla finestra, gli parve di aver destato tutti gli echi della montagna e tutti gli zii del mondo.

Quanti palpiti in quel minuto che la finestra indugiò ad aprirsi! Quanti palpiti allorché l’udí schiudersi pian pianino: con una circospezione che confessava il peccato ad alta voce! Una striscia luminosa si disegnò sull’erba dell’aiuola, e la leggiadra testolina di Adele si mostrò timidamente. Essa tremava un po’; la luna che si era levata tardi, illuminava il muro di contro e riverberava un barlume livido e dolce sul candido viso di lei, che sorrideva con ineffabile imbarazzo, e guardava qua e là, senza osare di fissare gli occhi su di lui. Certamente si erano detto abbastanza; ma il cugino, messo alle strette da quel silenzio eloquente, incominciò:

«Come sei buona, Adele!»

Ella spalancò i suoi occhioni, e domandò con graziosa ingenuità:

«O perché?»

«Perché hai accondisceso…»

«Non me lo domandasti tu?…»

«Sí… ma a quest’ora dormiresti… ed invece io…»

L’Adele fece certo sorrisetto e rispose:

«No, non aveva sonno… Non ho sonno da parecchie notti.»

«Da quando?…»

«Sa che è molto curioso, signor cugino!» gli diss’ella dopo un istante d’esitazione.

Il cugino, senza aprir bocca, la guardò per la prima volta negli occhi coll’amore dell’uomo. Ella abbassò i suoi e non rise piú.

«Sei ben sicuro che dorman tutti?» gli domandò poco dopo, rispondendo senza saperlo a quello sguardo.

«Sí, da piú di un’ora non si vede un sol lume.»

Ella ritirò bruscamente la sua mano. Successe un silenzio che le diede animo e la fece sorridere: «Ebbene» gli domandò «son qua, che cosa devi dirmi?»

«Volevo… desideravo chiederti scusa.»

«Di che?»

«Sono stato cattivo…»

Ella scosse il capo lentamente: «No».

Alberto avrebbe preferito dei rimproveri, onde aver agio di menare il can per l’aia. Non seppe piú che dire, e rimase imbarazzato.

«Senti l’usignolo?»

«No, è il passero solitario.»

«Che notte deliziosa!»

Ella non rispose.

«A che pensi?»

«A nulla.»

«Non ti senti felice?»

«… Sí!»

«Che ora è?» domandò la fanciulla dopo alcuni istanti, come se si svegliasse.

«Sarà il tocco e mezzo…»

«È tardi, sai!»

«Vuoi andartene?»

«Sí» e non si muoveva.

«Perché hai detto che sei stato cattivo?» gli domandò sorridendo cheta cheta.

«Perché… è inutile adesso che te lo dica… tu mi hai perdonato!»

E pose un sospirone per punto.

Ella si mise a guardar la luna, dicendole tante cose cogli occhi.

Poscia vivamente, come trasalendo:

«Addio! addio! È tardi, buona sera!»

«Adele!…» esclamò Alberto mentre ella stava per chiudere la finestra. «Adele!» Ella si affacciò di nuovo, ma tutta tremante, quasi avesse udito tutt’altro accento nella voce di lui. Egli esitava. – Allora la fanciulla gli fissò in volto gli occhi lucenti. – Il giovane sentí tutti i pudichi ardimenti, tutte le avide reticenze che ci erano in quello sguardo di vergine, e disse: «Vi amo! ecco quello che volevo dirvi!».

Adele divenne bianca udendo quella parola che aspettava da un’ora.

«Perdonatemi» riprese Alberto turbato dal silenzio di lei. «Vi è dispiaciuto che ve l’abbia detto? Perdonatemi, Adele! Ma parlate, ditemi almeno una sola parola, per l’amor di Dio.»

«Perché mi date del voi?…» mormorò la fanciulla con un fil di voce.

«Ah! come sei buona, Adele! Sei buona quanto sei bella! Vedi, a darti del tu adesso sembrami una delizia! Tu non sapevi nulla! Non ti sei mai accorta di nulla! Ti amavo da lungo tempo, sai! Sin da quando ero in collegio; ma dacché ti son vicino ti amo come… non saprei dirtelo io stesso… Mentre ti parlo, ora, sembrami che il cuore stia per scapparmi dal petto… Vorrei…»

La fanciulla lasciò cadergli fra le mani il ramoscello di vainiglia che s’era messo in seno. Alberto afferrò quelle manine, e gliele baciò con ardore.

«Come sei bella!» esclamò guardandola con occhi innamorati. «Quanto ti amo!»

Infatti ella era proprio bella in quel momento; l’amore irradiavasi come una specie d’aureola dal rossore che la copriva, dal suo sorriso incerto e pudico, dai suoi occhi chini. C’era tanta luce in quegli occhi, che allorché li fissò in volto ad Alberto parvegli che due stelle lo abbagliassero.

Ei le parlava concitato, con quel primo irrompere dell’amore che avea vagato sino a quel giorno fra le nebulose dell’immaginazione. Le diceva di quel che sentivasi in cuore, di quel che avea fatto, degli anni passati in collegio, delle timide gioie, delle amarezze soffocate, della madre che avea perduta – come ella avea perduta la sua – di quella prima sera in cui s’era messo a sedere accanto a lei, di quel che aveva visto nella tremola luce delle stelle, irradiazione di mondi sconosciuti, di quel vago sentimento di un noi sparso per tutto il creato, di quelle aspirazioni eteree verso una parola senza voce umana, che s’erano concentrati in lei, e che gli inondavano il cuore, tutti in una volta, al semplice contatto della sua veste. Sí sentiva immensamente felice: era la prima volta che parlava d’amore, e che una fanciulla stava ad ascoltarlo. – Ella ascoltava avidamente, infatti; o piuttosto beveva l’amore vergine ed entusiasta del giovane nello scintillare dei suoi occhi, e nelle vibrazioni appassionate della sua voce. Le sue povere manine tremavano come foglie nelle mani di lui. «Mi ami?» le diss’egli con uno di quegli accenti che penetrano sino in fondo al cuore. Ella accennò di sí col capo due o tre volte, senza osar di guardarlo.

«E non amerai altri che me?»

La giovinetta lo fissò collo sguardo limpido e franco della vergine, e rispose con ingenua meraviglia:

«Potresti amare un’altra, tu?»

«No… no!…»

«O dunque?»

Ei rimase un istante pensieroso.

«E m’amerai sempre cosí?»

«Sempre, e insegnerò ai tuoi figli ad amarti cosí!» rispose la fanciulla con sublime candore.

Alberto tacque, si fe’ scuro in viso, ed evitò di guardarla. Aveva sentito come una trafittura. La schietta rivelazione del casto istinto materno che rivelavasi negli occhi sereni e nell’ingenuo sorriso della vergine, sconvolgeva l’artificiosa poesia del suo cuore, lo faceva precipitare dagli astri fra i quali libravasi, e lo faceva pensare.

«Cos’hai?» gli domandò Adele, che lo vide rannuvolato..

«Ho che voglio essere amato da te, e non dai miei figli!» rispose sfogando come poteva il suo malumore. «Ho che amo te, e non… Ho che ti amo, perché ti amo… senza pensare ad altro… Amami cosí, Adele! Amiamoci per amarci… perché altrimenti… sai…»

«Che cosa?»

«Potremmo dubitare di noi medesimi… delle nostre intenzioni… potremmo dubitare del nostro amore…»

Giusto quando Alberto stava per sciorinare tutta la sua teoria dell’amore puro, poetico e senza figliuoli, si udí tossire alla finestra di sopra, ch’era quella dello zio Bartolomeo. Adele scappò come una cerbiatta spaventata; Alberto si fece piccin piccino, e sgattaiolò rasente al muro. Ci volle una buona mezz’ora prima di decidersi a rientrare per la finestra, dopo essersi assicurato che non si udiva fiatare anima viva, e che la finestra dello zio era proprio chiusa. Però fu tormentato tutta la notte dal dubbio, combinato colla tosse dello zio, che quella tal persiana non fosse stata sempre socchiusa, come l’avea vista rientrando – e di vento non ne avea tirato una maledetta in tutta la sera. Il giorno dopo avrebbe voluto trovarsi cento miglia lontano piuttosto che comparire al cospetto del terribile zio.

Verso le otto stava per svignarsela bel bello, col pretesto d’andare a caccia, quando il domestico venne a cercarlo giusto da parte dello zio.

«Vengo subito» rispose il nipote, che sarebbe andato piú volentieri al diavolo.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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