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Читать книгу: «Eros», страница 5

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XVII

Era una di quelle ultime notti d’autunno che preludiano l’inverno, scura e tempestosa. Gli alberi si contorcevano sotto un vento furioso che gemeva come voce umana; i cani uggiolavano spaventati; l’aria era talmente carica d’elettricità che sentivasi quel vago senso di terrore, fantastica attrattiva della notte.

Alberto saltò giú dalla finestra, quella medesima finestra che avea scavalcato qualche tempo innanzi con tutt’altro amore nel cuore, e non volse gli occhi a quella della cugina se non per spiare se potesse esser visto. In tutto il suo interno non c’era che una sola idea, indistinta, cieca, affascinante; passeggiò innanzi e indietro pel viale che correva dinanzi alla villa, coi capelli irti, e il sudore sulla fronte, mentre il vento ululava, e le foglie degli alberi sembravano scrosciare per gragnuola; il buio che l’avvolgeva lo penetrava del tutto; sentiva dentro di sé certo mugolío tempestoso, somigliante al vento che gli faceva sbattere sul viso le foglie morte. Due ore scorsero in un lampo; ci avrebbe passeggiato tutta la notte senza accorgersene, sotto la pioggia, in balía del vento, sotto l’uragano.

Tutt’a un tratto sentí afferrarsi da una mano, quasi le tenebre avessero preso corpo.

«Velleda!» esclamò, prorompendo in quel nome che lo riempiva tutto.

«Ebbene, che volete.»

«Velleda!» ripeté.

Ella non lo vedeva, sebbene lo toccasse quasi, e quella voce, nel buio, le faceva paura.

«Sapete quel che m’avete fatto fare?…»

«Sí, lo so!» rispose risolutamente.

«Voi! il fidanzato di un’altra!…»

«Sí.»

«Il fidanzato della mia amica!…»

«Sí!»

«M’avete minacciato di fare una pazzia, per farmi commettere una pazzia!»

«Sí!»

«Cosa dovete dirmi?»

«Che vi amo!» diss’egli con voce sorda.

«Io venni qui per dirvi che sono la figliuola del conte Manfredini!» rispose Velleda con la voce fremente di orgoglio.

«Io ci venni per dirvi che son pazzo di voi!» ribatté Alberto.

Successero alcuni istanti di silenzio.

«Oh! se avessi potuto prevedere!» diss’ella finalmente.

Alberti esclamò duramente:

«Voi lo sapete da molto tempo!»

«No!»

Egli non batté palpebra.

«Sí» riprese con febbrile esaltazione; «avete sorpreso il mio pallore da Caino, avete indovinato il mio tremito e i miei sguardi da Giuda; vi siete vista nello specchio e avete pensato: son bella, mi ama, deve amarmi, deve contorcersi a strisciare al pari di un insetto calpestato dal mio stivalino!…»

Velleda trasalí, come se il demone dell’orgoglio avesse accarezzato con lingua di fuoco tutte le vanità della donna.

«Sí, l’ho temuto» disse «e sono stata piú forte di voi!»

«Ne avete riso!…»

«Io vi amavo già!» disse ella con nobiltà.

Alberti barcollò, e cercò inutilmente una parola che esprimesse l’irrompere della sua passione:

«Voglio vedervi!» gridò. «Lasciatemi vedervi!»

Ella scorse gli occhi di lui scintillare nel buio come quelli di una belva. Il forsennato la spinse per forza verso quella parte del viale dove gli alberi erano piú radi e l’oscurità meno fitta, l’afferrò per le tempie, le rovesciò il capo all’indietro, e la baciò con labbra di fuoco. Velleda mise un grido, che il vento soffocò.

«Marchese Alberti;» disse pallida come uno spettro, «io non vi aveva fatto l’insulto di diffidare di voi.»

Ei si arretrò di due o tre passi.

«Ascoltatemi bene, signore! Son l’amica di Adele, e mi sento ancora degna di lei, e di me. Questa è l’ultima volta che ci vediamo; vi parlo come attraverso un abisso insormontabile, come stessi per morire per voi: ecco perché non vi ho nascosto e non vi nascondo nulla. Non vi ricambierò d’amore giammai! Io farò il mio dovere, e prego Dio che voi facciate il vostro»

«Qual è il mio dovere?» domandò Alberti a guisa d’uomo colpito dal fulmine.

«Dimenticatemi, è il meglio che possiate fare.»

Alberto rispose con un fosco sorriso.

«Ebbene, io farò il mio» soggiunse Velleda dopo un istante di silenzio.

«Ho previsto tutto quello che potreste fare,» diss’egli con tenacità disperata. «Voi mi fuggirete, io vi seguirò; mi disprezzerete, vivrò per vedervi; non mi amerete, vi amerò io!…»

Cosí dicendo sembrò che gli mancassero le forze, cadde lentamente sui ginocchi dinanzi a lei abbracciando la sua veste. Velleda gettò un lungo sguardo su quell’uomo che singhiozzava ai suoi piedi.

«Alberto!» disse dolcemente – ei balzò in piedi. «Alberto, lasciamoci degni l’uno dell’altro; dimentichiamo un istante di debolezza e di follía; siamo forti!…»

«Che bisogno avete di esser forte voi?» domandò il giovane con terribile ingenuità. «Quali debolezze sentite? quali follie temete?»

Ella chinò il capo senza rispondere.

Alberto attese due o tre secondi in ansia mortale.

«Ma parlate, in nome di Dio!» gridò delirante, scuotendole le mani con asprezza. «Mi fate impazzire!»

«No!» esclamò dessa. «No!… no! Mai!»

E fuggí come un’ombra.

XVIII

I contadini dei dintorni udirono abbaiare i cani tutta notte come se una bestia randagia avesse scorazzato per quei monti. Alberto rientrò verso il mezzogiorno, sotto pretesto d’aver fatto una lunga passeggiata mattinale, stanco, trafelato, febbricitante. Alla villa trovò tutto sossopra: i domestici andavano e venivano in furia, la carrozza era dinanzi alla porta, coi cavalli ancora fumanti di sudore; lo zio Bartolomeo era ritornato allora allora in compagnia del medico. Durante la notte Adele era stata assalita da un accesso di febbre violentissimo. A quella notizia Alberto si sentí mancare il cuore.

Trovò lo zio sull’uscio della camera di lei.

«Dove sei stato?» gli domandò.

Ei balbettò delle bugie, al par di un colpevole. Lo zio era cosí turbato da non accorgersi del turbamento del nipote.

«La povera Adelina sta male, sai!» gli disse. «Non si sa che diavolo abbia; anche il dottore ci ha perso il latino. Entra pure. Adele, c’è qui Alberto!»

Il giovane incontrò gli occhi di Adele, ardenti come carboni, che lo fissavano senza dir motto; tutti i muscoli del viso di lei sembrarono decomporsi. Il dottore stava a capo del letto, e teneva fra le dita il polso dell’inferma; ei volse al sopravvenuto uno sguardo che sembrava scrutatore.

«Chi è quel signore?» domandò il medico al signor Forlani sottovoce.

«Mio nipote Alberto, il fidanzato della mia figliuola.»

«È strano!» borbottò l’altro. «M’era parso di sentir trasalire il polso.»

E si mise nuovamente a guardare in viso l’inferma che stava immobile, cogli occhi fissi, le guance accese, le manine che stringevano di quando in quando convulsivamente la rimboccatura della coperta, e le labbra agitate da un tremito nervoso.

La camera era quasi al buio; si udiva solo il tic-tac dell’orologio ed il cinguettío degli uccelli sul davanzale della finestra.

«Avevamo passato tranquillamente la sera in casa» diceva il signor Forlani a mo’ d’informazione; «la mia bambina era sana e allegra come sempre; ella non ha chiamato una sola volta in tutta la notte; la Gegia che dorme vicino alla sua camera, non l’udí muoversi, né fiatare; stamane poi me la trova in quello stato e colla finestra spalancata, per il gran vento di stanotte, o perché l’abbia aperta ella stessa, senza ricordarsene poi, sentendosi soffocare dal sangue che le montava al capo. Dalle otto a questa parte è stata sempre in quello stato; non parla, non risponde, sembra non abbia conoscenza. La contessina Manfredini, la sua piú cara amica, è venuta a dirle addio prima di partire, ed ella non se n’è accorta; anzi, vedendola entrare, è divenuta pallida, ha chiuso gli occhi, e allorché la sua amica volle baciarla fu colta da un accesso di febbre o di convulsione, si diede a tremare e a rabbrividire che faceva pietà; non ha risposto una sola parola a tutto quello che le diceva la contessina, sembrava non sentisse proprio nulla, e seguitava a stringere convulsamente la rimboccatura della coperta, come la vede fare adesso; d’allora non ha aperto mai bocca.»

Il medico non diceva nulla.

«Guarda, Adele, c’è qui il tuo Alberto!» riprese il signor Forlani ad alta voce.

Alberto, spinto da lui, si accostò al letto. L’inferma lo fissò con quegli occhi spalancati, lucidi e senza sguardo, talmente che egli non poté fare a meno di chinare i suoi.

«Stai male, povera Adele?» mormorò con voce commossa.

La poverina incominciò a tremare, quasi fosse colta dal ribrezzo della febbre, ma non rispose.

«È il tuo Alberto!» insisté il babbo.

Ella tremò piú forte.

«Non mi conosci?» balbettò il giovane, non sapendo che dire, piegandosi verso di lei.

«È partita!…» disse l’Adele con un soffio di voce appena sensibile, e con tale accento che lacerò il cuore di lui.

«Cos’ha detto?» domandò il babbo.

«Non ho inteso…» rispose Alberto chinando gli occhi dinanzi agli occhi di lei, che lo fissavano sempre.

XIX

I giorni seguenti trascorsero in alternative di speranze e di timori per la vita della giovinetta. Alberto non ardiva piú comparirle dinanzi e domandava sempre sue notizie, inquieto, agitato, piú sofferente di lei. Se fosse morta gli sarebbe parso di aver commesso un assassinio.

Finalmente Adele migliorò; ma come andava inoltrandosi nella convalescenza, mostravasi piú fredda e riservata verso di lui, cercava mille pretesti per non ricevere le sue visite evitava di rispondergli e di guardarlo in faccia. Finalmente un bel mattino capitò in camera sua lo zio Bartolomeo, il quale, dopo avergli parlato della pioggia e del bel tempo, quasi non sapesse da che parte incominciare, gli disse infine, con mille proteste di rincrescimento, che quanto a matrimonio non se ne sarebbe fatto nulla, almeno pel momento.

«Adele non vuole sentirne parlare. È un capriccetto da convalescente, cosa vuoi? Bravo chi sa leggervi. Ti voleva un gran bene, e te ne vuole di molto tutt’ora. Ma che diavolo di novità l’è saltata in mente? Cosa vuoi farci? A me rincresce piú di te, che vorrei poterti dir figlio due volte!… Ma passerà!… Oh, passerà!»

Alberto capí assai piú in là dello zio, e si trovò piccino dinanzi a quel nobile sacrificio della fanciulla; ma, egoista come un innamorato, non seppe indovinare quante lagrime e quanti dolori fosse costato quel capriccetto da convalescente alla povera Adele.

Poco dopo ricevette una lettera di lei.

“So tutto. Perdonami, Alberto, ma il cuore mi si spezzava. Dio mi ha dato la forza di non tradirmi, e nessuno saprà giammai il motivo della mia risoluzione. Ma a te bisogna pur dirlo, per non farti credere anche a te che sia un capriccio… perché il mio rifiuto non ti umilii… e per dirti che ti amo ancora. Capirai che se ti scrivo cotesto, adesso, vuol dire che non sarò giammai piú tua, non ci rivedremo mai piú… e ti prego di partire senza cercar di vedermi. Addio.”

Il cugino partí per Firenze di nascosto, come un ladro, senza volgere una occhiata a quella finestra di cui le persiane rimanevano ostinatamente chiuse da molto tempo.

XX

Alberto era giunto a Firenze in una disposizione d’animo singolare – vergognoso di sé, cercando Velleda e temendo di rivederla, avendo spesso dinanzi agli occhi il viso pallido e gli occhi ardenti di febbre della cugina, e bevendo, senza avvedersene, il fascino di quell’altra e tanto diversa bellezza che l’aveva sedotto, coll’aria che respirava, sembrandogli che il vento delle colline rendesse il profumo di quei biondi capelli, che ogni angolo della città, che l’eleganza dei negozii di mode, il fasto degli equipaggi, il sorriso delle donne avvenenti, la giovinezza che sentivasi gonfiare tripudiante nelle vene, avessero qualche cosa della Manfredini.

La madre e la figlia abitavano un grazioso villino, piccino e civettuolo, posto a ridosso dell’amena collina di Bellosguardo. Il giardino era diligentemente tenuto, le lance del cancello sembravano dorate ieri, i viali non avevano né un sasso, né un filo d’erba, il muro di cinta era tappezzato di pianticelle rampicanti, gli arbusti erano rimondati con cura. La casa era a due piani, semplice, bianca, circondata d’alberi, colle persiane verdi, dietro le quali si vedevano scintillare i vetri.

Allorché il timido innamorato osò spingere un po’ piú innanzi le sue ricerche, seppe che il villino era deserto, e che le signore Manfredini non erano ancora ritornate in città.

Alberti era quasi sconosciuto a Firenze. Quello stato d’isolamento dava una fittizia tenacità alla sua passione, anche senza la sua immaginazione, che ostinavasi a mettere il bruno al suo cuore. – Però egli avea venti anni.

Intanto era sopraggiunto il carnevale, e il giovane Ortis non s’era fatto scrupolo di andare ad un veglione della Pergóla, era stato spinto qua e là, ci si era annoiato, ma c’era rimasto a guardare con tanto d’occhi spalancati. Tutt’a un tratto una bella mascherina gli si fermò di faccia, saettandolo di un sorriso indiavolato e con due occhi scintillanti attraverso i fori della maschera.

«Ciao.»

Alberto le fissò addosso un lungo sguardo, che valeva per lo meno quanto il ciao.

La mascherina era vestita da paggio italiano del XIII secolo, svelta, fresca, elegante, sembrava bella come un amore.

«Sai che sei un bel biondino!» gli disse nella lingua officiale del palcoscenico della Scala il paggetto, prendendogli le mani.

«Non capisco il turco, bella mascherina.»

«Non capisci che mi piaci?»

«E tu?» rispose Alberto, diventato ardito anche lui «sei bella?»

«Guarda!»

Scostò rapidamente la maschera e l’abbagliò.

«Addio, marchese Alberti!» disse vicino a lui un’altra voce che lo fece trasalire.

«Sei anche marchese?» domandò il paggetto.

«Ti rincresce?»

«Sei cosí bel giovane che puoi essere anche marchese».

«Lasciate cotesta ragazza» disse ad Alberto la voce di prima con accento breve. «Son discesa in platea per voi. Devo parlarvi.»

Ei si vide accanto una signora in dominò, vestita di nero, tutta velata, senza un gioiello. Di quelle due donne mascherate che si contendevano il suo braccio l’una era modellata come una Venere dal costume attillato, avea i capelli ricci, l’occhio sfolgorante, il collo alabastrino, era rosea, civettuola, affascinante; l’altra non avea che il portamento del capo, l’eleganza della persona, l’attrattiva dell’accento, il profumo aristocratico del fazzoletto, e le trine che cadevano sul guanto grigio – e bastò. Costei prese il braccio del giovane come cosa propria, e la folla li separò ben tosto dal paggetto. Andavano verso i corridoi dei palchi, la donna mascherata prima, salendo le scale con passo franco e leggero, senza dire una pàrola, rialzando un po’ i lembi del vestito sulle scarpette di raso. Quando furono arrivati al terz’ordine e nell’angolo piú oscuro del corridoio, si fermò all’improvviso, gli prese le mani, lo guardò in faccia e gli disse:

«Traditore!»

«Mi conosci?» esclamò Alberti attonito.

«Ti rammenti di Belmonte?»

Ei le afferrò le mani, ricercandola dappertutto collo sguardo.

«Chi sei? Dimmi chi sei!»

«Son tua cugina Adele!»

Al primo istante Alberto impallidí, l’attirò vivamente verso la parte piú illuminata del corridoio; poi sorrise stentatamente, e mormorò:

«Non è vero.»

Anche la donna mascherata sorrise.

«Per chi mi hai tradita?»

«Dimmi chi sei» ripeté Alberti cercando di leggere in quello sguardo che luccicava nell’ombra.

«È inutile che te lo dica, giacché non mi conosci, e non mi conoscerai giammai.»

«Giammai?»

«Giammai!»

Alberto la fissava ansiosamente, non osando pronunziare un nome che gli veniva alle labbra con certi impeti, direi, vertiginosi.

«Che vita fai?» esclamò alfine colei con bizzarra intonazione di voce. «Perché non ti si vede in nessun luogo? Ami ancora quell’altra?»

«Io vado dappertutto» rispose Alberto eludendo la domanda.

«Dappertutto è troppo poco. Vai sabato al ballo al Casino?»

«No.»

«Vai!» insisté la mascherina con una stretta di mano.

«Ti vedrò colà?»

«No.»

«Che t’importa allora ch’io ci vada?»

Ella parve esitare.

«Vuoi che ti dia un segno di riconoscimento?»

«Dammelo.»

Si tolse il guanto e gli porse la mano bianca come il marmo e venata d’azzurro.

«Te ne rammenterai?» gli disse sorridendo, con un accento che gli penetrò sino al cuore.

«Oh!…»

«Baciala… Addio.»

«Aspetta!» gridò Alberto. «Non mi lasciare cosí. Ci rivedremo?»

«No! no! te l’ho detto!»

Ella s’era svincolata di nuovo, e stava per svoltar l’angolo del corridoio.

«Ti sei innamorato diggià della mia mano?» gli disse fermandosi un istante in capo alla scala.

«Ebbene… t’ho lasciato almeno un ricordo… Rammentati di me. Addio.»

Il giorno dopo Alberti rivide Velleda all’improvviso, e quando meno se lo aspettava – passava in carrozza dinanzi al Doney, e non s’accorse di lui che s’era fermato sul marciapiedi come se gli fosse mancato il respiro – o non volle accorgersene. Allo svoltar di Santa Trinità la contessina mise a caso il capo allo sportello, e guardò dalla parte di via Rondinelli. Ei vide un istante, attraverso il cristallo scintillante, i capelli biondi di lei.

XXI

Alberti avea ricevuto un invito pel ballo al Casino, senza sapere da che parte gli venisse; cotesta era forse una buona ragione per non mancare, se non ce ne fossero state anche delle altre.– Andò.

La prima persona che vide, circondata dalla folla, corteggiata come una granduchessa, fu Velleda. Ella ci stava proprio come una granduchessa e non s’accorgeva di lui. Ad un tratto, come si accorgesse solo allora di lui, gli stese la mano con un bel sorriso, poi, senza lasciare il braccio del suo ballerino, gli agghiacciò la gioia che irrompeva tripudiante negli occhi di lui, rifacendosi a un tratto seria e fredda.

«Tutti sanno che ci conosciamo» gli disse. «M’inviti per un ballo.»

«S’è presentato alla mamma?» gli domandò poscia allo stesso modo.

«…No…»

«Che cosa penserà… Si presenti.»

La contessa Manfredini accolse Alberti col suo sorriso e col suo cicaleccio melato.

«Troppo gentile, davvero!… Siamo state via da Firenze… Abbiamo viaggiato. Bella città Napoli! la conosce?… E Roma? il Vesuvio?… Abitiamo il villino Flora, appena fuori Porta Romana. Riceviamo il lunedí. Non manchi.»

Le allusioni a Belmonte, ed alla famiglia Forlani furono evitate con garbo.

«Hai qualche impegno col signor De Marchi?» domandò la contessa alla figliuola che si era riaccostata: Velleda si fece pensierosa un istante, come non avesse intesa la domanda; scosse il capo un po’ vivamente, e rispose:

«No… non rammento…»

Alberti sorprese uno sguardo rapido e acuto che la madre saettò sulla figlia. Mentre conduceva Velleda a prendere il suo posto nella quadriglia, costei gli domandò negligentemente:

«La mamma l’ha invitato a venire ai nostri lunedí?»

«Sí!»

Allora aggrottò leggermente il sopracciglio, si mise al suo posto, spinse indietro lo strascico della veste; e non disse altro. Eseguiva le diverse figure della quadriglia colla sua grazia e disinvoltura abituale, alquanto fredda, noncurante, rivolgendo ad Alberti la parola solamente quel po’ ch’era necessario per non dar nell’occhio.

«Ieri l’altro l’ho vista a Firenze per la prima volta» incominciò il marchese. Ella non disse verbo.

«Sapeva che ero qui?»

«Sí» rispose asciutto asciutto; e si mise a battere il tempo col ventaglio.

E dopo alcuni minuti di silenzio:

«Bella cotesta musica!»

«Sembrami d’averla udita.»

«Dove?»

«A Belmonte… in villa Armandi…»

«S’inganna» disse ella freddamente.

Tacquero.

«S’è divertita in questo viaggio?» domandò Alberti.

«Assai!»

«È stata via molto tempo!»

«Le pare!… appena quattro mesi.»

Ei chinò il capo.

«Troppa gente!» mormorò Velleda per rompere il silenzio.

«È vero.»

«Ha visto la contessa Armandi nelle altre sale?»

«No.»

«Deve esser qui. Sembrami d’averla vista un momento.»

La quadriglia era finita. Mentre Alberti la riconduceva, Velleda gli domandò:

«Ha promesso alla mamma di venire?»

«Sí… Le rincresce?»

«Perché dovrebbe rincrescermi?» disse ella alteramente.

«Mi dia un bicchiere d’acqua» aggiunse immediatamente, come per mitigare la durezza della sua risposta.

Dopo di avere attraversato due altre sale, riprese, guardando attentamente i disegni del suo ventaglio:

«E non pensa di viaggiare anche lei?»

«Perché?» rispose Alberto con un po’ di sorpresa.

«Perché è giovane, e il mondo è bello. Vada a Roma, in Grecia, in Oriente…»

«Mi manda molto lontano» rispose Alberti sorridendo a bocca stretta.

Ella, dopo aver giocherellato col fiocco del ventaglio, rispose lentamente:

«Faccia come vuole.»

«Mi dia i suoi ordini…»

«Degli ordini, io?» esclamò Velleda rizzando il capo, «e a qual titolo, dica?»

«Dei consigli, almeno…»

Per la prima volta l’altera fanciulla alzò gli occhi su di lui, e guardandolo fisso:

«Credevo non ne avesse bisogno» disse. «Ma giacché li desidera… glie li ho dati… Parta.»

Bevve tranquillamente, si passò sulle labbra il fazzoletto ricamato, riprese il braccio di lui, che non diceva piú una parola, e si fece accompagnare al suo posto senza aggiunger altro.

Un bel giovane, che sembrava in qualche intimità con lei, le si avvicinò con premura appena la vide seduta, e si chinò verso di lei per dirle qualche cosa. Alberto udí ch’ella rispondeva freddamente:

«Grazie. Sono stanca.»

«Non balli piú?» domandò la contessa.

«No, mamma; vorrei già essere a casa.»

La mamma rivolse su di lei uno sguardo penetrante e disse:

«Andiamo pure.»

Il giovane, che era rimasto a discorrere con loro, accompagnò le due signore. Mentre Alberto stava per partire anche lui, incontrò la contessa Armandi.

«Oh! Lei qui! Lo credevo ancora a Belmonte. Va via anche lei? M’accompagni sino alla mia carrozza in tal caso…»

Gli porse il suo mantello ovattato, in anticamera, perché l’aiutasse un po’; e andava chiacchierando mentre il maldestro cavaliere era alquanto imbarazzato. «O come va che trovasi qui e solo? e la sua cuginetta?… Quest’altro capo qui, sulla spalla… È andato in fumo dunque?… Badi anche a lei, dicono che fa freddo. Grazie, cosí!… Per colpa sua, ne son certa; gliel’avea predetto, si rammenta?… Tiri un po’ in su il cappuccio… Non speravo d’incontrarla: che fortuna!»

«Come va che non l’ho vista al ballo?»

«Era cosí occupato! Ma non me l’ho a male, veh!»

In questo momento rientrava il giovanotto che avea accompagnato le signore Manfredini, e salutò profondamente l’Armandi.

«Soletto?» gli disse costei.

Il giovine evitò di rispondere facendo un inchino, e un mezzo sorriso.

«Chi è quel signore?» domandò Alberti accompagnandolo con un lungo sguardo.

Gli occhi della contessa brillarono di un’ironia maliziosa: «Il signor De Marchi» rispose «un amico di casa Manfredini. Bel giovane, non è vero?»

E scese le scale appoggiandosi appena al braccio di Alberto. Questi, mentre le porgeva la mano per montare in carrozza, le domandò:

«Mi permette che l’accompagni?»

«No. Ella non potrebbe piú fingere d’ignorare dove abito, e sarebbe costretto a farmi la visita di Belmonte.»

«Me la son meritata!»

«Non sono in collera» e gli strinse la mano, sorridendogli dal fondo del cappuccio. «No, davvero!»

La carrozza partí.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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