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Читать книгу: «Eros», страница 11

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XXXIX

Erano trascorsi parecchi anni, ed Alberti aveva ricominciato a far la vita di prima, peggio di prima, abusando di tutto, esagerando il male, che cercava egli medesimo, calunniando il bene che non poteva raggiungere per fiacchezza di carattere, incallendosi in uno scetticismo di parata perché non conosceva altre donne all’infuori di quelle che alimentavano la sua vanità o i suoi piaceri – vanitose e capricciose come lui – e perché non aveva altri amici, all’infuori di quelli coi quali s’era battuto per un’amante o per una partita di giuoco. Possedeva tutte le disgrazie: l’immaginazione calda, l’indole fiacca, il cuore sensibilissimo, ma non temprato da affetti domestici, ed una certa agiatezza che gli permetteva di vedere la vita da un lato solo. Cotesta vita era stata occupata soltanto d’ozio, e faticosa di piaceri. A ventott’anni sentivasi isolato, stanco, senza scopo, senza emozioni che non fossero malsane, senza entusiasmo, senza domani. Provava momenti di debolezza e di scoraggiamento indicibili; ma si vergognava di confessarli. Nel baccano di una festa o di un bagordo pensava con abbattimento che il giorno dopo si sarebbe divertito al modo istesso. Spesso, la notte, ritornando stanco a casa, invidiava il suo cocchiere o il suo cameriere che stavano ad aspettarlo, pur non sapendo farsi idea del come si potesse vivere nella loro condizione.

Del resto faceva la vita che facevano gli altri, beveva, giuocava, schermiva e fumava piú degli altri. Era un po’ pallido la mattina, e avea il polso un po’ agitato la sera; nulla di piú. Di tanto in tanto i ricordi della sua prima giovinezza, che sembravagli tanto lontana, gli alitavano sul cuore, come i soffi della brezza marina in una calda notte d’estate; ei li assaporava tacitamente, coll’occhio socchiuso e il sigaro in bocca, vi lasciava vagare il pensiero e riposare il cuore, e allorché scuotevasi di soprassalto, anche un po’ vergognoso, il mondo che piú lo sorprendeva, che sembravagli piú falso, era quello in cui viveva.

In una di coteste situazioni di spirito, Selene gli s’era trovata fra i piedi, o fra le braccia. Ei le avea proposto di andare a vivere assieme in campagna, come se ella avesse potuto ridargli il vergine trasporto con cui s’era innamorato persin di una ballerina; le propose sul serio una capanna e il suo cuore. La ragazza, che si rammentava di qual fibra fosse quel cuore, rispose cu-cu! Egli soggiunse che la capanna sarebbe stata tappezzata di seta, e la rapí all’impresario e ad una mezza dozzina d’amanti, ancora vestita da baiadera. I loro amici dissero ch’erano ubbriachi tutt’e due. Giunti, mandò un biglietto di condoglianza.

«Mio caro,» gli disse Alberti la prima volta che lo rivide, «se quella ragazza mi piace, perché non dovrei amarla? Credi che valga di piú la tua marchesa sol perché è ricca? Selene non possiede che le sue scarpette di raso, ed ha bisogno di quattrini come una bella damigella ha bisogno di uno sposo, o una bella dama ha bisogno di un amante nulla piú, nulla meno – ella non è né signorina, né marchesa, non è altro che bella, ed è quindi naturalissimo che io gliene dia dei quattrini.»

«Tutto ciò va benissimo; non è di cotesto che intendo parlare. Fai quel che vuoi, rovinati pure, nessuno troverà a ridire; ma lasciala al suo posto, o piuttosto mettila al posto in cui deve stare. Compra per lei dei cavalli, dei gioielli, ma non andare a farti ridicolo coll’amore campestre! Che diavolo! sei uomo di spirito. Cosa vuoi fare colla Selene per tutto il santo giorno, dopo che le avrai detto in tutti i toni che le vuoi bene?»

«La vita che faccio mi stanca… mi annoia mortalmente… Voglio cambiare…»

«Povera Selene!» borbottò Giunti.

La povera Selene amava il bel biondino come poteva, quanto poteva; ma era abituata a ridere e a folleggiare, e quell’amante che la teneva a distanza, e che cercava l’x dell’amore, le rendeva l’orizzonte piú uggioso delle grigie nubi d’inverno. Il marchese Alberti avea perduto il suo vecchio Toni, ed avea per cameriere un giovanotto. Qualche tempo dopo s’accorse che era anche un bel giovanotto, scoprendo che gli faceva l’onore di essergli rivale fortunato. Allorché ne ebbe le prove incontestabili, chiamò la Selene e le disse:

«Di’ un po’, ti piace Cesare? Non starmi ad arrossire, bambina! qui non siamo sul teatro. È un bell’uomo, me ne sono accorto e non ti do torto, no, in parola d’onore… fosse biondo come me… tanto tanto!… potrei forse avere il diritto d’essere geloso… Ma che diavolo! avresti dovuto prevenirmi! Potevo correre il rischio di prendere a calci il mio rivale. Vuoi sposarlo, di’? Non mi far la grulla. Non sono in collera, ti dico, ma capisci che non posso fare le spese del mio rivale, né lasciarti sulla strada. Ti do in dote quel che avevo promesso di darti in cambio del tuo amor fido, ma ti condanno a sposarlo e perdonami se mi troverai severo.»

Dopo questa tirata partí per un lungo viaggio, recando seco le sue malsane abitudini, ed i germi funesti di uno scetticismo che, in mezzo a gente la quale si occupava di lui soltanto per vendergli dei piaceri, lontano dai luoghi cari per memorie, non poteva far altro che peggiorare. Invecchiò precocemente, correndo pel mondo come l’Ebreo Errante, spinto da non so quale inquietudine fatale che l’incalzava sempre dappertutto, non vedendo e non cercando altro dei diversi costumi che il lato peggiore. Visse tanti lunghissimi anni senza alcun sentimento schietto, senza alcuno degli affetti piú intimi, che si abituò a credere fosse un disgraziato privilegio quel cuore che sentivasi battere in petto alle lontane reminiscenze.

In questo tempo lo zio Forlani era morto, lasciando Adele orfana e sola. Costei, per accondiscendere all’insistente desiderio del padre, il quale le proponeva di sposar Gemmati, avea detto di sí; ma all’ultimo momento, con la lealtà che formava il fondo del suo carattere, era scesa un bel mattino a trovar Gemmati che passeggiava in giardino, e gli avea detto:

«Amico mio, io ho amato mio cugino Alberto, lo sapete; che cosa pensereste di me se vi sposassi?»

Gemmati tacque un momento.

«L’amate ancora?» le dimandò poi.

«…Sí.»

«Anch’io v’amavo, perché voi siete un angelo!» esclamò tristamente Gemmati; «e rinunziare a voi è dura cosa!… Ma è necessario, non è vero?»

Ella chinò il capo.

«Come meritate di esser felice! Se quello sciagurato avesse un carattere meno fiacco!…»

Cosí s’erano lasciati, stringendosi la mano, come due cuori onesti e leali che s’intendono in una sola parola. Egli non le aveva detto quanto gli costasse il sacrificio che dovea fare ed avea accettato un posto di medico a bordo di un bastimento che faceva lunghi viaggi di circumnavigazione.

Il signor Forlani avea lasciato la figliuola ricchissima, e le amiche di lei non si davano pace vedendo che essa, cosí ricca e bella, rifiutava tutti i partiti che facevano la caccia a lei e alla sua dote. Adele portava il lutto del suo cuore nobilmente e fieramente, senza una debolezza e senza un lamento. Del cugino, che non si curava menomamente di lei, avea saputo vita e miracoli, ma non avea detto una parola, ed era rimasta pallida e muta. S’era informata spesso di lui dalle amiche piú discrete, con pudica e delicata riserbatezza, e quando non ne avea avuto piú notizie, s’era chiusa dignitosamente nella sua tristezza, senza farne trapelar nulla al di fuori.

La sua bellezza intanto s’era sviluppata: era un genere di bellezza fantastica, delicata, flessuosa, elegante, alquanto pallida e diafana, con magnifici capelli neri, mani candide su cui il guanto adattavasi con certe pieghe e certo garbo aristocratico, e grand’occhi turchini, un poco incavati, accerchiati da un solco color perla, scintillanti di tal luce che avrebbe potuto dirsi fatale, se giammai fosse stata destinata ad incontrarsi con Alberto. Ella portava alta la testa leggiadra nei saloni fiorentini, e con un sorriso distratto e uno sguardo profondo che l’avevano fatta soprannominare Elisabetta d’Inghilterra.

XL

Dopo vent’anni che non s’erano piú visti Alberto e sua cugina s’incontrarono a Firenze, spinti dal turbine della fatalità.

Era il primo giorno delle corse. Le Cascine brulicavano di spettatori; il cielo era azzurro, il sole frastagliavasi fra i rami; i veli, le ciarpe, le piume svolazzavano; il prato stendevasi come un’immensa tavola di bigliardo, screziato dai vivi colori dei fantini che caracollavano; i cavalli nitrivano, si udivano gai accenti in tutti i dialetti d’Italia, si vedevano dei fiori dappertutto, ai cappelli, sui vestiti, nelle carrozze, alle testiere dei cavalli – c’era un profumo di giovinezza, di festa, e di primavera che inebbriava.

Adele era a cavallo presso la calèche di una sua amica di Viareggio, la Rigalli, e rispondeva al saluto delle sue numerose conoscenze inchinando graziosamente il capo; mentre discorreva passava il guanto sulla criniera della sua cavalla; cosí com’era, col suo amazzone nero, e nel suo grazioso atteggiamento, era assai leggiadra; la calèche era ovattata, riboccante di fiori, coi jockey ricamati e incipriati, immobili come statue, i cavalli irrequieti, dall’occhio e dal garretto teso. Una folla di curiosi s’era fermata vicino a quel bel gruppo.

«Oh, chi vedo!» esclamò tutt’a un tratto la signora Rigalli «non è il marchese Alberti quel laggiú, che ci arriva dall’India a cavallo del suo baio?»

Adele si volse di soprassalto, e divenne bianca come il suo colletto di tela.

Alberti si avanzava al passo. Il cavallo era impaziente, colle narici rosse, sbuffava, mordeva il freno bianco di schiuma, e lo scuoteva con bruschi movimenti. Il cavaliere era calmo, serio, freddo, e avea la mano di ferro; volgeva gli occhi sulla folla sbadatamente, col sigaro in bocca, e avea l’occhio smorto, il pallore cadaverico, e l’impassibilità quasi fosca. Guardava quella festa come un defunto avrebbe potuto guardarla dalla tomba. Passando vicino alla calèche volse gli occhi a caso, la Rigalli lo chiamò col piú grazioso sorriso, ed ei si trovò a faccia a faccia con Adele. Una fiamma rapida come un lampo passò per la prima volta dopo tanti anni su quelle pallide guance. Intanto la Rigalli diceva all’Adele:

«Mi permette che le presenti il marchese Alberti?»

«Vuol presentarmi mio cugino?» rispose Adele, ch’era divenuta calma e sorridente con un supremo sforzo di volontà e stese ad Alberto il pomo del frustino attraverso la calèche, come se gli stendesse la mano.

«È proprio un cugino d’America dunque!»

«Son quelli i benvenuti. Da dove ci piovete, cugino?»

«Da Calcutta.»

«Son piú di dieci anni che non lo si vede piú! Cosa avete fatto tutto questo tempo?»

«L’ho passato in ferrovia e in vapore, cugina mia.»

«Vi siete divertito?»

«Ma… assai.»

La calèche si mosse al piccolo trotto; la signora Rigalli si fece promettere una visita dal marchese, e i due cugini si trovarono accanto, in mezzo al gran viale.

«Volete permettermi di accompagnarvi, cugina?» disse Alberto.

«Volentieri.»

Ei voltò le briglie, e si mise al passo, accanto a lei, seguiti dal groom di Adele a distanza.

«Come trovate Firenze?» domandò lei.

«Piú bella che mai.»

«Vi fermerete parecchio?»

«Non lo so io stesso.»

«Raccontatemi qualche cosa dei vostri viaggi.»

«Cosa volete che vi racconti?»

«Ma… quel che avete visto.»

«Ho visto, su per giú, delle vie Calzaiuoli, degli Arni, e delle colline di San Miniato dappertutto, in grande, in piccolo, e in microscopico; e dei fiorentini gialli, rossi, e neri, che dicono giuraddio un po’ diversamente di noi altri.»

«E le donne?» domandò ridendo Adele.

«E le donne… quali le hanno fatte gli uomini.»

«Non so se devo ringraziarvi del complimento, cugino.»

«Ringraziatemene, cugina, ché me lo merito.»

Adele salutò una bella giovinetta che passava in phaéton al fianco di un signore elegante. «Conoscete quella signora?» gli domandò.

«No.»

«È Cecilia, la figliuola del conte Armandi, adesso maritata Livoretti.»

Sul viso di Alberto passò una nube rapidissima.

«Sono un uomo dell’altro mondo, cugina mia, abbiate la bontà di mettermi al corrente. E della contessa cosa mi dite?»

«È sul lago di Como da due anni a piangere la morte del marito.»

«Oh!… E della principessa Metelliani?»

« È a Roma, presidentessa di non so qual Congregazione di Carità… Vi sorprende?»

«No.»

Fecero un centinaio di passi senza dir altro.

«Sapete che ci rivediamo in un modo singolare?» disse Alberti tutt’a un tratto.

«Singolare o no, son lieta di vedervi.»

Ei la fissò di un lungo sguardo, e poscia:

«Avete molto spirito!»

Ella chinò lievemente il capo.

«Cugina mia» domandò Alberti all’improvviso «che cosa direste se vi facessi la corte?»

«La direi la cosa piú naturale di questo mondo.»

«Dopo quel ch’è stato fra di noi?»

«Appunto per quello.»

La sua cavalla fece uno sbalzo, e s’inarcò tutta fremente sotto la mano ferma dell’amazzone.

«Siete forte!» le disse Alberto.

«Cora è docile» rispose lei accarezzandola sul collo.

Tacquero. Andavano al piccolo trotto per uno dei viali al di là del piazzone. Il sole, che tramontava come un gran disco infuocato, lo inondava per tutta la sua lunghezza di pulviscoli dorati. Alcune nuvole un po’ alte sull’orizzonte disegnavansi come larghi sprazzi di porpora e d’oro.

«Che bel tramonto!» disse Adele per rompere quel silenzio.

Alberto levò il capo, e soggiunse sbadatamente:

«Par d’essere a Belmonte.»

«Avete buona memoria, cugino!» disse Adele con singolare sorriso. Alberti volle rispondere a quel sorriso.

«È la memoria del cuore, cugina mia.»

«Comincereste a farmi la corte?»

«Non avete detto che sarebbe la cosa piú naturale?»

«Cugino mio, cosa pensereste di me se vi permettessi d farmela?» domandò Adele alla sua volta, seria seria

«Avete ragione» rispose Alberto brevemente.

I viali cominciavano a velarsi d’ombra. Ella guardò di Sottecchi quell’uomo singolare.

«Siete stata felice qualche volta?» domandò Alberti come rispondendo ad una lunga meditazione.

«…Sí» disse Adele dopo una lieve esitazione. «Per quanto si può esserlo… E voi?»

«Io mi son divertito» rispose lui con accento glaciale.

Discorrevano a sbalzi, con lunghe interruzioni, come rispondendo ai pensieri che andavano svolgendosi per la loro singolare situazione. Il marchese di tanto in tanto gettava un lungo sguardo sulla cugina, che cavalcava calma e sicura.

«Non serbate rancore, cugina?» domandò alfine.

«No.»

«Che peccato!»

«E voi, cugino?»

«Io non credo averne il diritto in nessun caso… poiché nessuno ha torto a questo mondo!»

«Teoria comoda!»

Ei si rizzò sulle staffe con fredda ed altera serietà:

«Cugina mia, quando m’avete detto che non potevate permettermi di farvi la corte, io vi ho dato ragione!»

C’era tal tranquilla amarezza, tale accento di convinzione nel suo scetticismo, che il seno di Adele gonfiavasi violentemente di tanto in tanto. Egli respirava con forza, a lunghi intervalli. Cavalcavano in silenzio e a capo chino.

«Vi ringrazio per quest’ora che non avevo piú provato da vent’anni» disse alfine con voce sorda quell’uomo il quale non si commoveva piú.

Ella alzò il capo sgomenta quasi cercando da dove venisse quella voce che la faceva trasalire.

«Torniamo indietro!» disse brevemente.

Oltrepassarono il groom che s’era fermato anch’esso, e lo lasciarono molto indietro. Nessuno di loro due osò rompere per qualche tempo il silenzio che seguí. Il passo dei cavalli era sonoro; la luna incominciava a sorgere e ad insinuarsi fra gli alberi, strisciando sul bianco viale; a poco a poco i cavalli s’erano accostati e andavano fiutandosi. Alberto prese la mano della cugina, che le cadeva lungo il vestito.

«Lasciatemi…» diss’ella dolcemente.

«Perdonatemi!» rispose Alberto con voce sorda. «È la vostra ora!»

«Lasciatemi» ripeté Adele con tanta maggior vivacità per quanto sentivasi divenir piú debole. «Ora è troppo tardi.»

«Vostro marito?»

«Chi?» diss’ella con voce che lo fece trasalire.

«Gemmati!…»

Ella tirò bruscamente le redini, e si rizzò sulla sella, pallida, immobile, con occhi scintillanti.

«Io mi chiamo ancora Adele Forlani!» esclamò con voce estinta, ma colla fronte alta.

Il marchese ammutolí.

«Mi credevate maritata?» riprese ella dopo alcuni istanti. «E parlavate in tal modo alla moglie del vostro migliore amico!…»

Ei non rispose.

«Come siete divenuto, Alberto!» esclamò essa celandosi il viso fra le mani.

«Vi faccio orrore?»

«No… mi fate pietà»

Andavano rasentando gli alberi per non starsi vicini.

«Quanto avete dovuto soffrire per essere cosí cambiato!» diss’ella alfine.

«Lo credete?» mormorò Alberti con un strano sorriso.

«Sí! Tutte le sante credenze che c’erano nel vostro cuore non si sbarbicano senza dolore. Quando mi avete abbandonata per Velleda, quando vi siete invaghito dell’Armandi, quando avete fatto piangere e avete pianto, c’era ancora qualche cosa in voi. Adesso non ci avete piú nulla. I vostri occhi asciutti mi fanno paura!»

«E voi?» diss’egli con voce che sembrava uscire di sotterra «credete ancora a qualche cosa?»

«Credo a ciò che fa battere il mio cuore.»

Egli sorrise. «Ciecamente?»

«Non posso dubitare di quel che sento.»

«Io vi ho ingannata a vent’anni!»

«Io sono stata per morirne. Come volete che potessi dubitare del sentimento che mi faceva tanto soffrire?»

Alberti non rispose immediatamente. Poi le piantò gli occhi in viso e domandò:

«Voi siete bella, giovane e ricca; come va che non vi siete maritata?»

«Ho sempre rifiutato.»

«Per chi?»

«Per voi.»

«Mi amavate?»

«Sí.»

«Anche dopo?»

«Sí.»

Ei rimase pensieroso.

«Cugina mia» disse ad un tratto, con tutt’altro accento e con satanica disinvoltura «io non ho piú capelli, né illusioni; ho quarant’anni e trenta mila franchi di debiti.»

Dapprima Adele rimase come fulminata, cogli occhi sbarrati, quasi ad afferrare il senso di quelle parole che non poteva capire. Tutt’a un tratto si fece rossa come se Alberto l’avesse percossa in viso col frustino.

«Ah!» gridò, «Ah!»

E fuggí di carriera.

XLI

Dopo alcuni giorni Alberti si presentò all’anticamera di sua cugina, e le fece recapitare il seguente biglietto:

“Ho bisogno di vedervi e di parlarvi. So di avervi fatto un affronto mortale, e son venuto alla vostra porta affinché possiate farmi scacciare, se volete.”

Il domestico ritornò dicendo:

«Passi.»

Egli entrò, un po’ turbato, ma con passo fermo.

Adele stava presso il camino, sebbene la primavera fosse di molto inoltrata, coi piedi posati su di uno sgabelletto. Era un po’ pallida anch’essa, e come vide il cugino impallidí maggiormente. Alberto le strinse la mano e si assise di faccia a lei.

«Adele» le disse con calma «ho quaranta anni, e trenta mila franchi di debiti. Volete esser mia moglie?»

«No.»

Sul volto di lui passò un fosco sorriso.

«Ma se avessi una figliuola bella, ingenua, pura, con tutti i tesori del cuore e dello spirito, ve la darei in moglie.»

Dapprima ei le lanciò uno sguardo di sorpresa; ma poscia, in un altro tono:

«Disgraziatamente non l’avete!»

«Lasciate quel cattivo sorriso che fa male a voi e a me!… Perché siete dunque venuto, Alberto?»

Egli esitò alquanto. «Non lo so» disse alfine. «È la prima volta che non basto a me stesso.»

Quelle parole sembrarono colpire la donna; gli lanciò uno sguardo rapidissimo, e si fece rossa. Poscia ripeté dolcemente:

«Se avessi una figliuola ve la darei; ella vi metterebbe in cuore la sua fede, il suo affetto, i suoi santi entusiasmi, vi rinfrancherebbe lo spirito, vi farebbe rinascere.»

«Non esitereste a dare la figliuola vostra… a me?»

«No.»

«Ora che sono cosí cambiato?» aggiunse con un sorriso ironico.

«Appunto perché siete cosí!»

Ei le fissò gli occhi negli occhi.

«Perché non fate voi codesto?»

«Io non ho piú sedici anni, non ho piú la fede… e fra di noi c’è un triste passato.»

«Sia!» diss’egli.

E si mise ad attizzare il fuoco. Rimasero silenziosi lungamente. Adele stendeva verso la fiamma le sue mani pallide e di tanto in tanto Alberto vi fissava uno sguardo distratto.

«Cugina» disse dopo alcuni minuti «se fossi giovane e bello, e avessi pure i torti che ho verso di voi, mi amereste?»

«Perché mi fate questa domanda, Alberto?» rispose Adele rizzandosi sulla poltrona.

«Per sapere alfine in che stia codesto amore» mormorò lui sordamente.

Adele ricadde all’indietro sulla spalliera della seggiola, e rimase alcun tempo senza aggiunger motto. «Quanto avete dovuto soffrire!» esclamò poscia.

«Io ho goduto della vita» rispose egli.

Lei gli volse uno sguardo fra attonito e dolente. Il cugino teneva la fronte fra le mani, parlava con amara e tranquilla convinzione, ma evitava di incontrare gli occhi di lei.

«Ho letto chiaro nella natura umana come in uno specchio: la maggior parte dei nostri dolori ce li fabbrichiamo da per noi: avveleniamo la festa della nostra giovinezza esagerando e complicando i piaceri dell’amore sino a farne risultare dei dolori, e intorbidiamo la serenità della nostra vecchiaia coi fantasmi di un’altra vita che nessuno conosce. Ecco il risultato della nostra civiltà. Ho visto dei selvaggi scotennarsi per la donna o per il ventre, ma fra di loro non ci sono né suicidi, né spleen. Tutta la scienza della vita sta nel semplificare le umane passioni, e nel ridurle alle proporzioni naturali. – Ho regolato su questa verità la mia condotta… Ecco come non ho piú sofferto.»

«Oh!» diss’ella con immenso sgomento. «Oh!»

«Siete stata piú felice di me, cugina?» domandò Alberto con ironico sorriso.

Adele, pallida, come trasognata, gli rivolse un’occhiata paurosa: «No! voi non credete a ciò che dite!»

«È vero!» rispose Alberto con voce sorda, chinando il capo «e per la prima volta!… Mi avete fatto dubitare anche di cotesto, voi! M’avete fatto un gran male!»

«Ammogliatevi!» gli disse Adele, osando stringere finalmente la mano fredda di lui. «La famiglia vi salverebbe… So quel che vuol dire essere soli al mondo! Se potessi, col sacrificio della mia vita, mettervi qualcosa in cuore, vi giuro che lo farei.»

Ei la guardò in modo singolare, a lungo, senza aprir bocca. «Cugina mia!» disse dopo una lunga esitazione «io non ho quasi conosciuto mio padre; mia madre non ebbe nemmeno il tempo di abbracciarmi prima di morire; una volta fui sorpreso da un marito che avrebbe avuto il diritto e il dovere di uccidermi come un cane… Sapete cosa mi disse quell’uomo? “che mi risparmiava perché ero figlio della marchesa Alberti!…”»

Adele si celò il viso fra le mani.

«Addio!» diss’egli alfine

«Ve ne andate?»

«Sí.»

«Cosa farete?»

«Quel che ho fatto.»

«Non avete nessuno scopo?»

«Non vi pare uno scopo il viver come meglio si può?»

«Non siete nemmeno ambizioso?»

«Cosa potrebbe ricompensarmi della pena che mi darei per esserlo?»

«Che ci avete dunque dinanzi a voi, nel vostro avvenire?»

«Nulla.»

A quella parola ella trasalí, e si alzò risolutamente.

«Alberto se acconsentissi ad esser vostra moglie, credereste che vi amo davvero?»

Ei rimase stupefatto.

«Se ci credete» ripigliò Adele stendendogli la mano. «Stringetela son vostra.»

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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