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Читать книгу: «Eros», страница 10

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XXXVI

Il conte Armandi era uscito verso le tre; la musica gli piaceva al Regio, o alla Scala, con accompagnamento di ballerine, e aveva il buon gusto di stare nel salotto della moglie soltanto allorché ella non riceveva. Era dunque montato a cavallo, ed era andato a desinare alla villa di un suo amico.

Andava tranquillamente di passo, col sigaro in bocca, piegandosi sulle staffe per osservar da buon cavallerizzo la levata del cavallo, e compiacendosi nell’atteggiarlo come fosse al maneggio. La giornata era bella, rinfrescata da una piacevole brezzolina che faceva sventolare la banderuola di segnale posta da un lato della via che stavasi riparando. Il cavallo del conte ebbe un ghiribizzo alla vista di quella banderuola rossa che svolazzavagli dinanzi agli occhi, ricalcitrò, e passò sbuffando, guardandola torvo, con le narici fumanti, e contrastando alla mano. Armandi volle assicurarlo: cavallo e cavaliere si incaponirono, s’imbizzarrirono, sbrigliando, impennandosi, spronando, e rinculando verso quella parte della strada ch’era tutta sossopra e sparsa di buche, quasi il cavaliere avesse il proposito deliberato di rompersi il collo; tutt’a un tratto il cavallo mise un piede in falso, cadde, tentò generosamente di rialzarsi con isforzi disperati, e infine, vinto dal dolore, si rovesciò senza mettere un nitrito, da bravo. Armandi era saltato abilmente in piedi fuor delle staffe, e cercò rianimare colla briglia e colla voce il povero animale che aveva l’angoscia negli occhi, sollevava il capo e ricadeva. «Povero Falco!» disse il conte. Infine, vedendo che non c’era proprio nulla da fare raccomandò il cavallo ferito agli operai che lavoravano sulla strada, promettendo di mandar subito dei soccorsi, e invece di tornare a piedi per la via fatta, che sarebbe stata troppo lunga, scese sulla riva in cerca di un battello, e si fece condurre per acqua alla sua villa.

La villa dalla parte del lago avea un cancello che aprivasi sul molo microscopico dov’erano ormeggiate le due barchette del conte. Un centinaio di passi piú in lá era la casetta del giardiniere, addossata al muro di cinta, tappezzata di gelsomini, e di cui il tetto rosso faceva un bel vedere sul verde cupo dei grandi alberi del boschetto. Il conte andò a picchiare sui vetri della finestra col pomo del suo frustino, e si fece aprire il cancello, rimandò il giardiniere, e s’avviò pel viale che menava alla terrazza. Camminava lentamente, e di tanto in tanto fermavasi come per stare in ascolto, e alzava gli occhi verso le finestre del salotto.

Il viale, prima di mettere alla scalinata della terrazza, serpeggiava attorno ad una gran vasca ombreggiata da magnifiche piante acquatiche, e biforcavasi per mettere in un sentieruolo che conduceva alle scuderie, passando dinanzi ad una capanna rustica ch’era chiusa da lungo tempo.

Il conte s’era avviato pel sentieruolo, teneva gli occhi fissi sulla capanna abbandonata o sulle scuderie, cercando di veder qualcuno da mandare in soccorso pel povero Falco.

Ei passò accanto ad un padiglione di bosso e di mortella, tenuto con somma cura, aperto da quattro arcate, ornato di sedili e di statue, dinanzi al quale il sentieruolo svoltava bruscamente per salire l’erta verso la capanna.

Alberti era giunto all’ora fissata. La contessa l’aspettava: ei le s’appressò rapidamente, le baciò la mano, e le disse con voce breve:

«Vostro marito?»

«Uscito.»

«Tornerà presto?»

«Desinerà fuori di casa.»

«Come siete bella!» esclamò.

Ella si svincolò dalle mani che le stringevano i polsi, e andò a tirare il cordone del campanello.

«Lasciate aperto quell’uscio» ordinò al domestico «fa troppo caldo.»

«Non m’amate piú?» le disse Alberto sottovoce, rispondendo all’occhiata timida e come di scusa ch’ella gli rivolse tornando a sedersi presso di lui.

La contessa chinò la fronte nella mano. Dopo un istante rispose con voce commossa:

«Se vi amo!»

«Mi amate in un modo singolare davvero!»

«Singolare davvero! Sono una matta! Non so dov’abbia la testa in certi momenti… Stanotte non ho chiuso occhio pensando alla follía che ho fatto ieri sera!…»

«Perdonatemi!… Se sapeste!.... Perdonatemi!…»

Si parlarono a voce bassa, quasi senza guardarsi, padroneggiandosi perché i loro volti rimanessero impassibili, acciò qualche specchio indiscreto non li tradisse alla curiosità del domestico che stava nell’altra stanza. Quelle passioni ardenti, che sibilavano come il soffio del vapore imprigionato sotto quella maschera d’indifferenza, aveano qualcosa d’irresistibile.

La contessa s’alzò, andò ad aprire le persiane e si mise a guardar fuori.

«C’è un’arietta fresca che ristora» disse dopo alcuni istanti. «In giardino si deve star benissimo. Andiamo?»

Alberto la segui.

Ella precedeva di qualche passo, coll’andatura svogliata, dimenando un po’ il braccio, e tenendo l’ombrellino sulla spalla. Si vedeva il suo busto piegarsi e inarcarsi con graziosa elasticità sotto il tessuto leggero che gonfiavasi e increspavasi alternativamente. Si fermava agli sbocchi dei viali, mettevasi sugli occhi, per guardar lontano, la mano che al sole sembrava di un roseo trasparente, poscia s’avviava risolutamente, con vaga spensieratezza: il viale si arrampicava sull’erta serpeggiando; la contessa arrestavasi di tanto in tanto per ripigliar fiato, e voltavasi verso di Alberto per dirgli qualche parola. Ad un certo punto gli stese, senza voltarsi, la mano: ei la baciò.

«Cosa volete che faccia per provarvi quanto vi ami?» gli disse risolutamente.

«Datemi la chiave del cancello che mette sul lago.»

Ella si voltò, lo fissò seria seria, e scosse il capo due o tre volte.

«Vedete!» disse Alberto amaramente.

La contessa gli strinse la mano, conducendolo con dolce violenza; svoltò l’angolo del viale che saliva alla capanna abbandonata, ed entrò nel padiglione.

Stava ritta sotto l’arco fiorito, guardando il lago che luccicava in fondo al panorama, e colle mani appoggiate al bastone dell’ombrellino. Il venticello faceva svolazzare il suo vestito e glielo modellava adosso.

«Vorreste vivere con me, laggiú, in Isvizzera, a Londra, o a Parigi?» gli disse ridendo.

Ei le afferrò la mano con impeto.

«E voi lo fareste?…»

«Se lo potessi…»

«Oh, allora… Ma non bisogna chieder troppo neanche all’amore.»

La contessa gli piantò in faccia uno sguardo profondo e pensieroso. Alberti l’evitò, come se tutte le contraddizioni che c’erano nello stato di quella donna gli saltassero agli occhi. Sentí che il suo stesso silenzio glielo rinfacciava, e dovette ricorrere al paradosso per giustificar lei e sé stesso. Ella ascoltava avidamente, piú convinta di lui, affascinata da quella falsa eloquenza della passione; sorrise e gli disse:

«Cotesta è la teoria del frutto proibito…»

«Credete?» domandò dopo un voluttuoso silenzio.

Era seduta mollemente, un po’ piegata verso di lui, tenendogli le mani, ombreggiata dai folti ramoscelli, e tutta profumo. Ei la guardò avidamente.

«Sí!» le disse con un bacio.

«Zitto!» esclamò l’Armandi trasalendo e facendosi pallida. «Vien gente!»

Si udí scricchiolare la sabbia del sentieruolo che incrociavasi col viale pel quale erano venuti.

«Vostro marito!» esclamò Alberti con voce sorda, e facendole schermo istintivamente del suo corpo.

La donna s’avviticchiò all’amante, e gli nascose il viso in petto con un voluttuoso terrore. Stettero alcuni istanti immobili, nascosti nell’angolo piú oscuro, trattenendo il respiro coi due cuori che battevano l’un sull’altro. Si udirono i passi avvicinarsi lentamente, passare accanto al padiglione, e allontanarsi a poco a poco. La contessa rialzava il capo timidamente, e per la prima volta mise un respiro. I due amanti si guardarono, pallidi come cera, gli occhi di lei si velarono, e si abbandonò dolcemente nelle braccia di Alberto.

«Emilia… per l’amor di Dio! Fatevi animo, via!…»

Ella non lo lasciava, e fissavalo con occhi nuotanti in un languore delizioso, come se il pericolo, l’ansietà, la paura avessero dato non so qual divorante ed irritante attrattiva al desiderio, alla colpa, all’uomo amato. Rimase in quella specie d’estasi col capo appoggiato alla spalla di lui, colla bocca socchiusa, pallida, spaventata e sorridente.

«Andiamo, andiamo, Emilia!»

Emilia si rizzò vacillante, si fregò un po’ gli occhi, distese mollemente le braccia con un movimento di tigre, lo guardò con occhi addormentati, e gli disse:

«Passate sotto la mia finestra… vi butterò la chiave… Domani a mezzanotte… se vedete lume nel salotto… sarà segno di sí… Vattene! vattene!»

Il conte Armandi sembrava alquanto turbato allorché entrò nella stanza della moglie. La contessa gli rivolse un’occhiata alla sfuggita.

«Sapete l’accidente di quel povero Falco?» diss’egli. «S’è rotta una gamba!»

All’entrare del marito la contessa s’era allontanata bruscamente dalla finestra.

«Ma dove? come?… E voi?» domandò.

«Sulla strada maestra, proprio come in questa stanza. Non saprei dire io stesso come sia avvenuto. Povero Falco! Sono stato alla scuderia per mandare tutti i possibili soccorsi, ma pur troppo temo sieno inutili… Io sto benissimo, come vedete… Ma voi, cos’avete? Siete un po’ pallida anche voi!»

«Quest’accidente…»

«Che volete farci? Non ne parliamo altro. Cosa avete fatto di bello?»

«Ma lo vedete!» disse la moglie mostrandogli il ricamo che avea in mano.

«Il marchese Alberti non è venuto?»

«Sí».

«Avete fatto della musica?»

«Pochissimo; non mi sentivo bene. Ho un po’ di mal di capo…»

«È partito adesso il marchese?»

.«Mezz’ora fa.»

«Oh! ma non è lui… laggiú?» disse il conte dalla finestra. «Da dove diavolo viene dunque con questo sole?»

La contessa si fece alla finestra anche lei, sorridente e curiosa, gettò un’occhiata al di fuori, si strinse nelle spalle, poi tornò a sedersi. «Passeggiare con questo bel sole!… che follía…»

«Avrà fatto qualche visita nelle vicinanze» disse invece il conte.

XXXVII

Armandi dovea partire insieme al suo amico Marteni per un convegno di caccia.

L’ora della partenza era stata fissata per le dieci di sera. Il conte avea siffattamente assicurato che sarebbe stato puntuale, che aveva detto al suo amico di andarsene pur da solo se egli avesse tardato piú di cinque minuti, giacché cotesto sarebbe stato segno di essergli sopraggiunto qualche affare o impedimento imprevisto. Egli aveva preso il caffè nel salotto della moglie, ed era stato a chiacchierare tranquillamente con lei sino all’ora della partenza, fumando il sigaro, e leggendo qualche brano dei giornali di mode ch’erano sulla tavola. La moglie lavorava accanto a lui, e chinava la testa vicino alla sua per guardare insieme le incisioni del giornale. Di quando in quando volgeva gli occhi sull’orologio, e diceva sorridendo al marito che non avrebbe fatto a tempo. Finalmente il conte si alzò, ordinò la carrozza e strinse la mano alla moglie.

«Quando ritornerete?» domandò costei.

«Doman l’altro o giovedí al piú tardi.»

«Buon viaggio.»

Armandi s’affacciò alla finestra per vedere se la carrozza fosse pronta; guardò il cielo stellato, e disse alla moglie:

«La sera è magnifica, volete farmi il piacere di accompagnarmi sin da Marteni?»

«Volentieri, ma temo di farvi ritardar troppo.»

«Abbiamo tempo d’avanzo» diss’egli «il vostro orologio va di galoppo. Metterete qualche cosa sulle spalle, ecco tutto.»

La Armandi mostrò una certa premura nell’accondiscendere al cortese desiderio del marito; questi la ringraziò, le offerse il braccio; e montò con lei in carrozza.

«Perdio!» esclamò al momento di partire. «Ho dimenticato il mio portafoglio nientemeno! Quel che vuol dire far le cose troppo in furia!» E saltò a terra d’un balzo, ma mise un buon quarto d’ora a tornare. La contessa era piú impaziente di lui.

«Vai al galoppo!» ordinò ella al cocchiere.

Il conte si buttò in fondo al legno e si mise a fumare. La moglie sosteneva da sola il dialogo, con certa vivacità inquieta e nervosa, sporgendosi di tanto in tanto fuori dello sportello. Suo marito limitavasi ad evitare che il fumo del sigaro le desse noia, e a volgere qualche volta il capo verso di lei, per farle dei cenni affermativi.

«Il signor capitano è partito da venti minuti;» venne a dire il domestico.

«Alla buon’ora!» disse Armandi con gaiezza. «Ci perdo una caccia, ma ci guadagno il piacere di passare la sera con voi.»

Ella lo ringraziò con un pallido sorriso, e tornarono indietro. Questa volta anche la contessa s’era buttata in fondo al legno, avvolgendosi nel suo scialle, taceva e sembrava alquanto preoccupata. Giunti alla villa, saltò a terra per la prima con vivacità, e montò bruscamente i pochi scalini; il marito però la prevenne nello schiudere l’usciale, e la precedette nelle sue stanze.

«Perché avete lasciato acceso quel lume?» disse bruscamente l’Armandi alla cameriera.

«Non m’avete ordinato di spegnerlo.»

«Siete una stupida! Andate!»

«Via, via, non andate in collera» soggiunse il marito. «Infine che male c’e?»

Ella si strappò i guanti, li buttò sul canapè, e rimosse due o tre oggetti con impazienza.

«Vi disturbo forse…»

«Vi pare?… tutt’altro!» gli rispose saettando uno sguardo sull’orologio.

«Davvero! sembra che il vostro orologio abbia piú giudizio del mio!» disse Armandi regolando il suo su quel del salotto; «sono in ritardo di una buona mezz’ora.»

E sedendo accanto alla moglie:

«Volete regalarmi un po’ di musica?»

«Non sono proprio in vena, mio caro… Ma se lo desiderate assolutamente…» soggiunse con un sorriso abbattuto.

«Assolutamente?… Ma no! Desidero quel che vi fa piacere.»

Ella inchinò leggermente il capo, e si mise a guardare qua e là in atto sbadato. Il silenzio cominciava a divenire penoso.

«Volete che vi legga qualche cosa?» domandò Armandi.

«Fate.»

E si mise ad ascoltare, colla fronte sulla palma, all’ombra della ventola, saettando alla sfuggita sguardi rapidi e sfolgoranti su di lui. Egli non se ne avvedeva, leggeva colla sua bella voce chiara e limpida, e voltava tranquillamente le pagine. Tutt’a un tratto la contessa si alzò quasi soffocasse.

«Cos’avete?» domandò il marito levando gli occhi dal libro.

«Nulla… continuate» rispose lei tornando a sedere.

«È inutile, giacché non v’interessa.»

E chiuse il volume.

La contessa rimase alcuni istanti col capo fra le mani. Armandi continuava a sfogliare i disegni di mode. Finalmente ella si alzò di botto, bianca come cera, e gli disse stendendogli la mano malferma:

«Non mi sento bene. Buona notte…»

Il conte si alzò anche lui, le prese la mano senza dir motto, e la tenne fra le sue; ella incominciò a fissarlo negli occhi con una certa inquietudine. L’orologio suonava i dodici colpi della mezzanotte; i muscoli del viso della donna ebbero un lieve tremito, poi si allentarono rilasciati, e affascinata dal pericolo, perdendo la testa, si volse verso il balcone che dava sulla terrazza con un movimento invincibile, e tentò di svincolarsi dal marito che le stringeva sempre le mani con amorevole violenza.

«Fermatevi!» diss’egli con voce breve.

Rimasero a guardarsi due o tre secondi. La donna si lasciò cadere lentamente sul canapè.

Armandi andò ad aprire il valigino che aveva fatto posare sulla tavola, e ne trasse un paio di pistole da viaggio. La moglie, fuori di sé, si alzò per gridare, per far non so che cosa, e rimase atterrita, pietrificata sotto lo sguardo fermo e minaccioso di lui.

«Silenzio!» le disse con voce sorda. «Se fate un passo, se mettete un grido, ve l’uccido come un cane!»

Andò risolutamente verso il balcone, l’aprí, e si trovò faccia a faccia con Alberti.

I due uomini non dissero una parola, non fecero un gesto. Il conte, piú pallido di Alberto, avea la pistola in pugno e il dito sul grilletto. Finalmente disse interrottamente:

«Marchese Alberti… potrei uccidervi come un ladro stanotte, o passarvi la spada pel cuore domani… Ma non voglio farlo… non lo posso… Un giorno forse ne saprete il perché… e saprete anche che siamo pari!»

Prima che Alberto avesse potuto rimettersi dalla sorpresa, egli aveva chiuso il balcone.

XXXVIII

Alberti passò una notte orribile. Avea visto, attraverso i vetri di quel balcone, la donna che amava alla follía, accasciata sul canapè, colla testa fra le mani – ella non avea fatto un passo verso di lui, non avea messo un grido – egli non avea potuto stendere le braccia per soccorrerla, o per rapirla alla gelosia del suo rivale – questo soltanto bastava a delineare la situazione reciproca con una terribile eloquenza. L’amore di lui esaltavasi al pericolo di lei, al pensiero delle lagrime che non poteva vedere. Fece i piú insensati progetti; andò cento volte a spiare le finestre di quella casa. Il domani seppe che marito e moglie erano partiti all’alba, non si sapeva per dove.

Il giovane ardeva di seguirla, ma dove? Fece tutto quello ch’era possibile di fare per aver notizie di lei; poi sperò ch’ella gli avrebbe scritto; poi s’accasciò. A poco a poco incominciò a pensare a lei con una dolcezza melanconica, fantasticando sul castello solitario dove il geloso marito l’avea probabilmente rinchiusa, sulle lagrime ch’ella avea dovuto versare, sui ricordi mesti e cari che doveano tornarle alla mente mentre fissava i begli occhi alle stelle… E tutto ciò sarebbe stato possibile forse; ma Armandi conosceva troppo il mondo e le donne per contribuire a fare esaltare colla solitudine la passioncella della moglie. Dopo una breve spiegazione, fatta con garbo e da gente ammodo, entrambi avevano finito per andar d’accordo che quanto ci fosse di meglio a fare era d’andare a Baden. La contessa, dopo quella scossa inaspettata, erasi mostrata quasi riconoscente verso il marito del suo spirito conciliativo e da canto suo s’era prestata lealmente a riparare il male fatto. Passato il primo sbigottimento, il suo amore, chiamiamolo pur cosí, avea guardato la cosa dal lato mondano, e avea fatto giudizio.

Intanto il tempo scorreva sul rancore del marito, sulla melanconia della moglie, e sull’immaginazione di Alberto, come se si fosse incaricato di poter far riunire nuovamente e senza inconvenienti queste tre persone nel medesimo salotto, a centellinare il caffè, ciarlando tranquillamente di mode o di politica.

Alberti dopo alcuni mesi avea ripreso le abitudini di una volta. Al principio dell’inverno seppe da un amico che tornava da Baden come l’Armandi fosse stata la piú bella, la piú elegante, la piú allegra signora che si fosse trovata ai bagni. Il baccanale della babele europea estiva faceva crollare in uno scoppio di risa il melanconico castello di carte, dove la sua fantasia abbrunata avea rinchiuso i sospiri della bella, mentre egli dondolavasi sulla poltrona fumando il sigaro. Il suo funesto spirito d’analisi ebbe campo di fargli fare delle lunghe meditazioni, amare, irritanti, che ferivano non solo le sue illusioni giovanili, ma anche il suo amor proprio.

Coll’inverno erano ritornate le rondinelle dell’alta società, ed Alberti seppe che la contessa era andata a Torino col marito. A quella notizia, al sapersela cotanto vicina, sentí divampare in fondo al cuore, non diremo l’amore, ma il desiderio, la curiosità, una certa ostinazione dispettosa e andò e la rivide. Com’era cambiata! non al fisico – la contessa era sempre giovane e bella; ma il contegno di lei, cosí strano, cosí indifferente, ricominciava a montargli la testa o a fargliela perdere del tutto. Però l’Armandi non era tal donna da perdere la sua, quando non voleva, o da farsi trascinare pei capelli in una situazione imbarazzante. Finalmente gli rispose dandogli appuntamento in uno dei piú remoti viali del Valentino.

Allorché il giovane la vide discendere dal fiacre da nolo, sentí battersi il cuore come una volta, piú forte di una volta forse. Ella gli venne incontro un po’ esitante, e gli stese la mano.

«Volete che montiamo in carrozza?» le domandò.

«No.»

«Perché non rimandate il vostro legno in tal caso?»

«Lasciatelo lí.»

Alberto tacque, e presentí tutto quello che ella dovea dirgli con la sua voce pacata.

Fecero alcuni passi in silenzio. L’Armandi non s’era accorta del braccio che offrivale il giovane.

«Sentite, Alberto» gli disse alfine «dobbiamo dimenticare.»

Ei sentí scoppiargli in cuore, montargli alla testa, affogargli la voce nella gola, tutto ciò che avea sofferto, temuto e sperato per lei. Non disse motto, non le rivolse uno sguardo. – Ella gli strinse la mano.

«È necessario!» soggiunse.

«Lo volete?»

«È necessario. Mio marito mi ha perdonato, ma sa tutto… Cosa volete che faccia?…» Successe una breve pausa. «A che pensate?» diss’ella.

«Penso che veramente non dovete amarmi piú, se l’ultima volta che mi vedete potete aver il coraggio di dirmi addio in presenza del vostro fiaccheraio, per impedirmi che almeno vi lasci scorgere le mie lagrime.»

«Come siete ingiusto!»

«È vero, perdonatemi… Soffro tanto!» esclamò tristamente e scuotendole le mani.

Ella non rispose, e voltò indietro per ritornare lentamente verso il fiacre che l’aspettava.

«Vi domando un ultimo sacrificio: lasciate Torino.»

«Non vi basta che rinunzi a vedervi?»

«E mio marito?»

«Ebbene, partirò.»

La contessa continuava ad andare innanzi.

«Volete proprio che vi dica addio dinanzi al cocchiere?» mormorò il giovane con tutta l’amarezza che gli rodeva il cuore.

Ella si fermò, voltandosi appena verso di lui, gli strinse la mano, e senza rialzare il velo gli disse:

«Addio!»

Le labbra del giovane tremavano senza che potessero profferire una sola parola. La vide allontanarsi lentamente, e montare in carrozza.

Poi si asciugò di nascosto una lagrima – l’ultima.

Il giorno dopo partí davvero, per un altero rispetto della sua parola, o per un dispettoso amor proprio. Il vedere rompere con tanta indifferenza tali legami l’avea ferito profondamente; ma avea tanto amato quella donna, e tanto diversamente dalle altre, che fra loro parevagli dovesse sussistere sempre un vincolo indissolubile; il suo dolore avea certa voluttà che gli piaceva assaporare andando a seppellirsi in campagna – ma la sua campagna era troppo vicina a Milano, e gli amici non tardarono ad andare a farvi una partita di caccia – per distrarlo. Cosí seppe dopo qualche tempo quello che non avrebbe dovuto sapere: il colonnello Marteni, nell’assenza del conte Armandi, che era in Germania con una missione diplomatica, comprometteva un pochino la contessa, e la contessa si lasciava compromettere. Alberto corse a Torino, e colla ingiusta e malsana curiosità del geloso riescí a convincersi davvero che il colonnello era precisamente quello che dicesi un successore in tutte le regole.

Allora andò a cercare del colonnello Marteni.

Lo trovò che faceva colazione. Il colonnello, al ricevere il suo biglietto di visita, si era rammentato di lui, forse un po’ troppo, e l’invitò a prender posto alla tavola, da vecchio amico. Alberto rifiutò freddamente, dicendo che lo scopo della sua visita non permettevagli di fermarsi a lungo. L’altro si fece serio, vuotò il bicchiere che aveva offerto, e levò il capo come per ascoltare con maggior attenzione.

«Non avremo bisogno di molte parole per intenderci», disse Alberti. «Ella è soldato e gentiluomo, e troverà la cosa perfettamente naturale. Noi siamo rivali; non occorre fare il nome della donna che amiamo o che abbiamo amato. Son venuto per cercare di comune accordo un pretesto per liquidare la faccenda fra di noi, senza che sia compromesso il nome di quella persona.»

Il colonnello parve riflettere alquanto.

«Anzitutto» rispose «mi permetta una domanda: Lei è dalla parte di chi ama, oppure dalla parte di chi ha amato?»

«Cotesto non preme sapere.»

«Domando scusa, preme moltissimo.»

«Signore, sembrami che divaghiamo!» disse Alberti con una sfumatura d’ironia provocante.

Marteni conservò la piú perfetta calma.

«Scusi, avrei dovuto incominciare da un’altra domanda: Ella crede che io le debba qualche cosa… perché sono il suo… successore?»

«Signore!…»

«Caro marchese, sono ufficiale nei carabinieri, e come tale un po’ soldato, e un po’ legale; ragioniamo adunque, poiché a bucarsi la pelle c’è sempre tempo. Se lei è convinto che io le debba una riparazione soltanto perché son venuto dopo di lei, vorrei sapere chi di noi due avrebbe piú diritto di sfidar l’altro? Ella, perché io sono arrivato ultimo, oppure io perché lei mi ha preceduto?»

«Cotesto è invertire singolarmente la quistione.»

«Semplifichi, rettifichi pure; son qui ad ascoltare.»

«Non son venuto a dirle, né ho bisogno di dirle, quali siano le mie opinioni su quella signora; e sembrami che non occorrano tante parole fra due gentiluomini per bucarsi la pelle, come lei dice.»

«Caro marchese, non ha rettificato nulla, e si aggrappa alla provocazione come uno che non abbia migliori ragioni da metter fuori. Ma io ho piú anni di lei, sono soldato, ho due medaglie, di quelle che danno il diritto di esser sempre calmo, e posso permettermi di credere che occorrano proprio tutte le possibili spiegazioni fra due uomini di cuore, prima di mettere mano ai ferri, soprattutto allorché sono seduti, come noi, dinanzi ad una buona tavola. Ella viene a sfidarmi per amor proprio, per dispetto, piuttosto che per gelosia; senza pensare che colloca il suo amor proprio prima del mio, che avrei lo stesso diritto. Le parlo da uomo di cuore e da uomo d’onore – come le propongo di stringere la mano che stendo. Ora, se coteste ragioni non le bastano, e cerca proprio un pretesto, mi dica che questo bicchier di vino che le offro è cattivo, e io le getto la bottiglia alla testa e mi metto a sua disposizione.»

Alberti alzò lentamente il bicchiere, e bevve.

«Bravo cosí!» esclamò Marteni stringendogli calorosamente la mano.

«Un’ultima parola, colonnello… Da quanto tempo… Ella è il mio successore?…»

«Ah! Questo poi....»

«Era per farci su le mie riflessioni» rispose Alberti con un amaro sorriso. «Senza implicarci menomanente quella signora, in parola d’onore!»

«Le ho detto già troppo, perché ella è molto giovane… Ma mi lasci il mio segreto… professionale» finí Marteni ridendo.

«Grazie!» rispose Alberto dopo un po’ di esitazione.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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