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Читать книгу: «Eros», страница 12

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XLII

Il matrimonio fu celebrato in ottobre. Alberti si prestò a quelle pratiche che esigevano gli usi e le convenienze con perfetta compiacenza. In questa occasione molti suoi conoscenti, che non sapevano piú nulla di lui, lo rividero. Ei piegava il capo con una tinta di galanteria a tutto quello che Adele trovava necessario, o semplicemente conveniente – fossero anche stati dei pregiudizi – la schiettezza delle convinzioni di lei glieli rendevano rispettabili, ci credesse o no. Adele, al contrario, mettevaci il giulivo entusiasmo di chi è felice – un tal riverbero del suo affetto vergine e schietto; amava il cugino francamente, senza reticenze, senza dubbi, a cuore aperto, abbandonandogli con spensierata generosità tutti i tesori che per lui avea accumulato in segreto nel suo cuore. Alberto fece tutto quello che fanno gli altri, colla massima semplicità, senza esitazione. Andò in chiesa, serio e rispettoso, almeno al vedere, e allorché Adele gli mise la mano nella sua, e udí che si univa a lui per sempre con un fil di voce, e la vide dolcemente commossa, anche quell’uomo si turbò alquanto, e con lieve tremito strinse nella sua la mano che tremava.

Dopo la cerimonia religiosa partirono per Belmonte.

Il marchese avea preso un coupé riservato sino a Pistoia, e allorché furono in vagone, e Adele si fu assisa, chiuse i vetri della parte dov’era lei, tirò le tendine, le mise il plaid sotto i piedi, le rese con delicatezza paterna tutte quelle piccole cure, poi le si assise di faccia, le prese le mani, e le disse dolcemente, sorridendo con certa solennità:

«Vi saluto, marchesa Alberti.»

Era commossa anche lei, ed un po’ turbata, guardava fuori lo sportello pudibonda del suo imbarazzo, e si lasciava stringere le mani con un abbandono affettuoso.

Aveva un bel vestito grigio, un cappellino di paglia, dei lunghi guanti di Svezia, ed il suo viso delicato sembrava piú pallido attraverso il velo azzurro. Pareva che Alberto non potesse saziarsi di contemplare quella donna leggiadra che ormai gli apparteneva – ella, senza vederlo, sentiva quello sguardo, e ne era tutta penetrata. Ad un certo punto, sempre col viso allo sportello, posò una mano su quelle di lui.

«Non vi faccio paura?» le chiese Alberto dolcemente.

Ella raccolse le sue vesti, andò a sedere a fianco di lui, e senza rispondergli direttamente si misero a discorrere di mille argomenti comuni, di ricordi, che per loro avevano significati reconditi, e racchiudevano non so quali misteriose attrattive. Ei parlava poco, e l’ascoltava intento, con una certa avidità, come se stesse analizzando minutamente, con affetto gli avvolgimenti di quelle trecce, l’alitare di quel velo, le balze di quel vestito, le trine di quei polsini, i rossori improvvisi e irragionevoli che salivano al viso di lei, e che egli sentivasi dolcemente scorrere nelle vene. Ad un tratto:

«Vorrei tornare ai miei vent’anni!» disse collo sguardo fiso nel vuoto.

La locomotiva fermavasi sbuffante.

«Diggià!» esclamò lei.

«No, siamo a Prato.»

«Oh!… lasciami vedere!»

E si misero l’uno accanto all’altro presso lo sportello a guardar la campagna – ei con un sentimento che non avea provato da lungo tempo. Tutto ciò che vedevasi era verde ed azzurro. Adele, colle mani appoggiate alla manopola, gli diceva sommessamente qualche parola insignificante, come se stesse a parlargli di un gran segreto. Il nastro del suo cappellino svolazzava di tanto in tanto sul viso ad Alberto. Sembrava che i polmoni di lui si dilatassero avidamente, onde abbeverarsi di tutte quelle vergini sensazioni che gli erano quasi sconosciute. «Non vi faccio paura… proprio?» domandò quasi timidamente e a voce bassa. Adele cercò di nascosto la mano di lui, e la strinse a lungo, mentre il conduttore verificava i biglietti. Anche quel non so che di furtivo che vi era in tanta schiettezza faceva una potente impressione su di Alberto. Ei le prese le mani, serio serio, e guardandola negli occhi:

«Adele mia, quel prete m’ha stregato.»

Adele s’era fatta seria anch’essa.

«Stregato o no, son contento, e non saprei spiegarti il sentimento che mi lega a te. Non è solo amore il mio: sembrami che tu faccia parte di me, della mia casa, del mio nome. Tu sei la continuazione di mia madre, e mi è dolce chiamarti col suo nome. Ho amato in tutti i modi, ma non ho provato mai nulla di ciò che provo adesso. Sembrami che noi ci apparteniamo per qualche cosa che è in noi e al di fuori di noi – il mondo, la legge, gli uomini, Dio, che so?… Se mai avessi a dubitare di quel che sento adesso, vorrei morire.»

A poco a poco le era caduto ai piedi, e parlava con tale accento di calma e salda convinzione, che le lagrime spuntarono nell’orbita di Adele. Ella piegossi dolcemente verso di lui, gli cinse il collo delle sue braccia, e reclinò mollemente il capo sul capo di Alberto.

XLIII

I due sposi andarono a nascondere la loro felicità a Belmonte – quella di lui però era un po’ chiusa, esistante, ombrosa, e avea sempre una tinta di melanconia; quella di Adele era franca ed espansiva.

Alberto non avea piú rivisto quei luoghi da oltre vent’anni, e ciascun ricordo, ciascuna novella impressione che passava su quell’anima esulcerata, malgrado il grande imperio ch’egli aveva su se stesso, lo faceva trasalire; Adele se ne avvedeva, e si sentiva piú strettamente, piú intimamente legata a lui appunto per tutto quel bene ch’essa facevagli. Erano sempre insieme, in carrozza, a cavallo, o a passeggiare pei dintorni. Alberti, quell’uomo tormentato dalla febbre del movimento, perseguitato dalla noia dappertutto, aveva passato delle lunghe ore deliziose, guardando accanto a lei la pioggia che sgocciolava sui vetri, o la fiamma che crepitava nel camino. Ogni piccola cosa avea una fisonomia nuova, serena, festosa. Le occupazioni piú comuni avevano un’attrattiva delicata. Egli era andato con lei a rintracciare a passo a passo i luoghi che racchiudevano i ricordi della loro prima giovinezza: quel banco dove avevano provato il primo imbarazzo stando seduti accanto, quella ringhiera appoggiati alla quale avevano litigato e avevano fatto pace per la prima volta, quell’albero dal quale egli aveva còlto i primi fiori per lei e dicevano: “Ti rammenti?”. A volte questi ti rammenti racchiudevano un dolce rimprovero che adesso lo penetrava sino all’intimo e gli era caro. Li cercava anzi quasi a far risaltare colle ombre il raggio festoso che splendeva su di loro adesso. Ridevano e si abbracciavano. Se qualche cosa avea cambiato aspetto, se un albero era caduto, se il banco era Zoppicante, se il giardiniere avea disposto altrimenti l’aiuola, erano delle vere perdite, e dicevano: – Era piú bello allora, n’è vero?

Con una nobile franchezza, e come se il fallo non valesse il pentimento, Alberto aveva mostrato all’Adele quel viale dove avea parlato l’ultima volta con Velleda, e le avea messo la mano nella mano e gli occhi negli occhi. Adele avea chinato il capo cercando di riderne, impallidendo, arrossendo, e non gli avea detto quante volte si fosse fermata piangendo in quel medesimo viale.

«Come tutto ciò è lontano!» diceva Alberto.

Ella, dopo lunghe esitazioni, gli avea fatto vedere tutti i ricordi che avea conservato di lui religiosamente: il bottone del guanto che gli avea rimesso la sera ch’erano andati a villa Armandi, il fiore disseccato ch’ei avea lasciato cadersi dall’occhiello, la corteccia d’albero ch’egli avea staccato col temperino, il foglio spiegazzato su cui s’erano divertiti a schizzare degli sgorbi e delle caricature, seduti al medesimo tavolino, sotto la medesima lucerna, mentre la pioggia scrosciava allegramente sui vetri. Egli, che avea buttato dalla finestra al vento di cento città, o sulla cenere di cento caminetti, le lettere d’eterno amore di donne che aveano messo in giuoco la loro vita e quella di lui per un capriccio, non arrivava a comprendere del tutto la tenacità di quel sentimento che rendeva preziosi quegli oggetti insignificanti. – Tra di loro due che s’amavano tanto, ch’erano cosí intimamente legati, c’era sempre un abisso che egli non osava confessare a sé stesso, e che ella non voleva vedere, e per non vederlo chiudeva gli occhi. L’ottica delle loro idee era immensamente diversa: il cuore della donna, giovane, fresco, ricco, era lieto d’amare, s’attaccava alla felicità, ci credeva senza esitazioni, ci si abbandonava con fiducia. Alberto non possedeva piú né cotesta fede, né cotesto entusiasmo, né cotesta serenità; la vita che avea menato avea alterato profondamente il suo modo di vedere e di giudicare; avea osservato e studiato le passioni in sé e negli altri, ma non le avea mai combattute, e, disgraziatamente per lui, non le avea visto combattere. Il sentimento del giusto e del dovere restava quindi per lui una formula astratta, poco meno di un’illusione.

In tali disposizioni d’animo, e alla sua età, l’amore era perciò una debolezza – e l’amore istesso rendeva il suo scetticismo un’infermità piuttosto che una corazza. Sentiva rigermogliare dentro di sé quei sentimenti sui quali avea messo i piedi, ma che nondimeno avevano turbata la serenità epicurea dei suoi piaceri, ora che li trovava freschi e rigogliosi nella donna a cui sentiva il bisogno di identificarsi. Però al vedere cotesti sentimenti cosí diversi in sé e in lei nello sviluppo e negli effetti, in sentirli agitarsi penosamente nel suo animo, piuttosto che rinvigorirsi, ne provava un grande sconforto, un dubbio piú amaro. La fede d’Adele – quella che per lui era la cecità – rivelavasi cosí salda ed intera, che trovavasi costretto ad ammirarla, ad invidiarla quasi, senza poterla dividere. Istintivamente sentivasi inferiore a lei di tutta quella triste scienza del mondo e del male, che aveva acquistato.

Fosse pudore, timidezza, o alterigia, c’era sempre in lui qualcosa di chiuso, anche nei momenti in cui abbandonava il capo sui ginocchi di lei come un fanciullo. Adesso, al contrario, possedeva l’ingenua curiosità di chi non ha nulla da nascondere, e gli faceva delle domande cui egli rispondeva evasivamente, sorridendole come ad una bambina, o abbuiandosi alquanto.

Quella serenità un po’ nebbiosa, quella specie di mistero che intravedevasi in fondo ai sentimenti piú espansivi di lui era un’altra attrattiva per l’innocenza di Adele – pericolosa attrattiva. Ella indovinava nell’uomo amato delle ferite che era lieta di sanare, delle ritrose debolezze che lusingavano gli istinti materni e protettori della donna; l’altera riserbatezza con cui il marito celavale agli occhi di lei, davagli un carattere di dignità e di forza, un che di superiore a mo’ di Lucifero. Cento curiose domande, che le erano venute sulle labbra, erano spirate dinanzi al sorriso calmo, velato e impenetrabile di quell’uomo.

«Che cosa vuoi saperne tu, bambina mia?» le diceva egli.

Ed ella che avea la pretesa di non essere piú una bambina, gli faceva il broncio proprio da bimba.

Anche Alberto aveva le sue curiosità – curiosità malsane curiosità avide, interessate, vitali, adesso che Adele era tutta per lui: sentiva il bisogno di apprendere come si sviluppassero le passioni in mezzo a tanto candore, qual forma assumessero, e quanta importanza ci avessero.

«E tu» le aveva domandato sorridendo a fior di labbra «non hai amato altri?»

Ella, che gli teneva ancora il broncio, rispose col dispettuccio dei sedici anni.

«Sí, ho amato Gemmati.»

«Proprio?» domandò Alberto ridendo.

Erano appoggiati a quella tale balaustrata, un dolce e tiepido giorno di novembre. Le foglie ingiallite si correvano dietro pei viali, il torrente rigonfio s’era fatto brontolone, e le nuvolette facevano capolino sulle cime degli Appennini, proprio come allora. Ella gli cinse il collo col braccio, e rispose:

«No, gli ho voluto bene soltanto.»

«Cosa vuol dire voler bene soltanto?»

«Vuol dire stare a discorrere volentieri con quel tale di ciò che piú ci preme o ci addolora, e trovare un gran sollievo nel sentirsi stringere la mano quando si ha il cuor grosso.»

«La sa, signora mia, che cotesto io lo chiamo amore bell’e buono?»

«Davvero?… o come va dunque che pensassi in quel momento ad un altro… ch’era anche un gran cattivaccio?…». Ei se la strinse al seno, forte forte. – Adele si era fatta dolcemente melanconica.

«Quante volte siamo stati qui, come adesso! Che brutti giorni!… Cos’hai?»

«Nulla.»

«Se sapessi che nobile cuore! e com’è degno della tua amicizia Gemmati! Quando gli dissi che t’amavo sempre… e che a sposarci bisognava non pensarci piú, non esitò, non fece un’osservazione, non disse una parola; chinò il capo, e allorché partí avea le lagrime agli occhi senza che se ne avvedesse. Io pure che avevo tanto sofferto, e che sentivo come egli dovesse soffrire, avevo gli occhi umidi… Ma che hai, ti dico?… Hai torto, vedi!»

«Lo so. Ma non me ne parlare mai piú, Adele!»

Ella chinò il capo, si fece rossa, e poi sorridendogli fra maliziosa e giuliva:

«Preferiresti che facessi come te?»

«Come faccio io?»

«Ma… Io non ho nulla a nasconderti… Invece se tu mi narrassi la metà di quello che non mi vuoi dire!…»

«Non è la stessa cosa, Adele mia» disse Alberto secco secco.

XLIV

Alberti sarebbe volentieri rimasto a Belmonte tutto l’inverno, ed anche tutto l’anno, Quella vita calma e serena, circoscritta in un orizzonte limitato, confacevasi alla stanchezza dell’animo suo, e al bisogno che provava di rinascere in quell’amore cosí nuovo, senza che altre immagini del passato potessero venire a turbare il suo pensiero ed a mettere in pericolo quell’intimità che gli faceva tanto bene. Ma Adele temeva di stancare l’ombrosa e mobilissima fantasia del marito mostrandosi a lui sempre dentro la stessa cornice, e sotto il medesimo aspetto. – Nel piú puro amor di donna, e forse anche in quello dell’uomo, c’è sempre un po’ di civetteria. – La moglie voleva legare a sé piú strettamente, indissolubilmente il marito, giovandosi di tutti i vantaggi che il mondo dà ad una bella donna, facendoglisi vedere piú ricercata, se non piú bella. Alla donna sorrideva forse il pensiero di mettere ai piedi dell’uomo amato la sua eleganza di gran signora, ed anche, perché no? i suoi trionfi di mondana. Alberti, temendo di mostrarsi egoista non fece alcuna osservazione, e ad inverno già inoltrato tornarono a Firenze.

La marchesa Alberti era leggiadra, la sua felicità irradiava come un’aureola seduttrice su di lei. Ella prese con perfetta disinvoltura il primo posto nei saloni fiorentini. Alberti era stato un uomo elegante, adesso era un marito perfetto. Accompagnava qualche volta la moglie nelle prime visite, tanto da non dar nell’occhio, e dal canto suo ricominciò a fare press’a poco la vita che facevano tutti i suoi amici. Si faceva vedere un momento nei saloni che frequentava la moglie, o andava a trovarla nel suo palco per presentarle qualche amico. Sua moglie era sempre assediata da una folla di cortigiani – egli avrebbe trovato assai strano che fosse stato altrimenti, poiché cosí facevano tutti, cosí aveva fatto egli stesso – ma intanto ne soffriva segretamente, e doveva fare sforzi penosi per dissimulare le unghie d’acciaio che gli laceravano il cuore e gli facevano balenare in viso la collera, o sulle labbra il sarcasmo. Piuttosto che tradirsi si sarebbe ucciso; ma senza essere precisamente geloso, senza aver perduto una briciola della illimitata fiducia che riponeva nella moglie, provava un gran dispetto vedendola corteggiata. Sapeva che corteggiare vuol dire insidiare, eppure sarebbe stato quasi ridicolo che sua moglie non lo fosse, ed egli era costretto a stringer la mano a quei suoi buoni amici che cercavano di rubargli il suo tesoro, e soffriva tutte le punizioni di quella logica mondana in nome della quale aveva fatto soffrire egli pure. Ne soffriva piú degli altri perché era piú orgoglioso e piú corrotto, piú diffidente e piú innamorato.

Marito e moglie non erano piú sempre insieme come a Belmonte. Avevano adesso cento occupazioni diverse che li allontanavano inesorabilmente per delle ore parecchie, e subivano senza avvedersene la tirannia della società in cui vivevano. Adele, che amava sempre a cuore aperto, era felicissima di deporre ai piedi di quel sarcastico ed altero signor marito le corone che riportava la sua vanità di donna, e vedendolo sorridere non sospettava nemmeno quanto egli soffrisse senza che un sol muscolo della sua fisonomia si contraesse; lo vedeva sempre gentile ed amoroso; lo vedeva disinvolto e di buon umore fra i suoi amici; lo vedeva elegante, corteggiato ed invidiato; non scorgeva una nube sulla sua fronte, e lo credeva felice.

Essi s’incontravano sovente all’ora della colazione, e quasi sempre a pranzo. Dinanzi ai domestici si trattavano col calma ed affettuosa dimestichezza; l’etichetta coniugale non costava loro il menomo sacrificio, perché entrambi erano perfettamente ben educati. A volte stavano a discorrere prendendo il caffè sino all’ora che la moglie andava ad abbigliarsi per la sera ed il marito andava a fumare il suo sigaro al Circolo. Egli l’accompagnava sino alla soglia delle sue stanze, e si lasciavano con una stretta di mano. Spesso la sera accadeva ad Alberto di aspettare. Adele seduto accanto al fuoco col capo fra le mani. Lo specchio del camino non diceva a lei quali nubi fossero passate su quella fronte. Udendo il fruscio della sua veste e vedendola entrare bella e radiosa, facevasi trovare sorridente egli pure, si alzava e andava a toccare le mani e le labbra che ella gli porgeva. Allora sedevano accanto al fuoco narrandosi i casi insignificanti del dí, e le storielle piccanti o ridicole della sera. Alcune volte il marito gettava uno sguardo distratto o imbarazzato sulle sue belle spalle nude che arrossivano, ed ella chinava gli occhi senza vedere che anche lui li teneva fitti sul tappeto – e non sereni come i suoi.

«Come sei bella!» le diceva talvolta Alberto con una certa risolutezza.

Ella sorrideva.

«Quanti te l’avranno detto stasera!»

Ella faceva una graziosa spallata.

«Vorrei essere giovane e bello come te!…» soggiungeva Alberto con un sorriso dl cui stentava a dissimulare la tristezza.

«Perché?» domandava Adele un po’ inquieta.

Egli tardava a rispondere.

«Vuoi che ritorniamo a Belmonte?»

«Sei felice almeno, Adele mia?»

«Tanto!» e lo abbracciava per dirgli che lo era per lui. «E tu?»

«Io… sí! sí!»

Alcune volte Alberti era piú triste del solito, però senza motivo. Saettava alla sfuggita sulla moglie, quasi inavvedutamente, uno sguardo scrutatore; impallidiva o arrossiva senza vederlo se per caso Adele sembrava piú melanconica, o piú allegra, o piú pensosa del consueto. Non osava rivolgerle la piú lontana domanda; indispettivasi contro sé stesso, e le chiedeva tacitamente perdono di non so quali sospetti baciandola con effusione. Pensava spesso a Belmonte con melanconica dolcezza, e si rimproverava il suo egoismo. Il suo triste passato gli si rizzava dinanzi come il fantasma della pena del taglione.

XLV

La contessa Armandi era ritornata a Firenze sin dal principio dell’inverno, e per consiglio dei medici, per obbligo di condizione, per svago, per far piacere alla figliuola, avea dovuto ricominciar a veder gente, e a farsi vedere. Cosí non tardò molto ad incontrare Alberti. La contessa era sempre una donna di spirito, e non avea pensato a rimettere al pari dei denti, gli artigli che le erano cascati. Ella abbracciò Adele come la sua migliore amica, vide Alberti come se si fossero lasciati il giorno innanzi – e gli disse anche:

«Ci vuole un bel coraggio per dirle che son proprio l’Armandi di vent’anni fa, non è vero? Gli amici che invecchiano lontano non dovrebbero rivedersi giammai. Anche lei è cambiato, sa?»

«E tu hai amato quella donna.» gli disse Adele fra motteggevole ed imbronciata, allorché furono a casa, ritti dinanzi allo specchio del camino – ei ci si era guardato a lungo per la prima volta. Ci aveva pensato anche lui, ed era un po’ lunatico quella sera; Adele aveva tentato dissipar la tenne nube. Egli sorrise dolcemente, ancora pensoso e le disse:

«Chissà se fra qualche anno non penserai la stessa cosa di me?»

«Cattivo! oh, cattivo!» esclamò con impeto la moglie buttandoglisi al collo. Quelle due parole dell’Armandi avevano però gettato un gran turbamento nel cuore di Alberto. Tutte le follíe del passato gli sfilavano dinanzi, ironiche, motteggiatrici, assurde, ridicole; prendevano la fisonomia di quella amante, già appassita, e coi capelli grigi; ei fu costretto a domandarsi quali sarebbero stati adesso i suoi sentimenti se l’Armandi, invece di lasciarlo come un guanto rotto in un viale del Valentino, avesse sempre continuato ad amarlo; se la gratitudine, il dovere, l’onore, lo legassero ancora a quella donna! Tutto quello che aveva sentito per lei se ne sarebbe dunque andato con gli anni e colla bellezza, poiché non sarebbe rimasto altro legame che il dovere, o peggio l’abitudine. Allora avea gettato gli occhi sullo specchio, e il suo pensiero era corso di lancio ad Adele. Anch’egli era cambiato, molto cambiato! Quel dubbio, quella timidità quell’inquietudine che agitavasi confusamente in lui da un pezzo, l’Armandi l’avea formulato nettamente colle sue parole e coi suoi capelli grigi; si sentiva piú cambiato dentro di sé che all’esteriore; la stanchezza fisica influiva sulla prostrazione morale; tutti i suoi sentimenti avevano alcun che di fiacco, d’incerto, di sfiduciato, all’infuori di quel solo che qualche volta era un tormento – e Adele era ancora piena di giovinezza e di beltà! – Il suo fatale spirito d’analisti lo spingeva a tristi deduzioni; sembravagli che il nuovo sentimento il quale riempiva tutto il suo cuore fosse un effetto di quella medesima stanchezza fisica e morale, fosse quel bisogno di ritemprarsi che c’è nell’umana natura. Il suo amore era dunque l’egoismo del cuore, che invecchiando s’attacca a qualche cosa! Ma Adele che era giovane e ricca d’affetto?… tutto quello che aveva attratto o suscitato gli ardori della giovinezza di lui non doveva attrarre o suscitare adesso quelli di lei, sedurla, farle comprendere a qual uomo avesse ella legato la sua giovinezza? Avrebbe rinunziato a lei piuttosto che sapersela legata da un sentimento qualsiasi che non fosse stato puro amore. Il suo affetto per la moglie diveniva piú intenso, meno espansivo, assai piú timido e ombroso.

Adele si avvedeva qualche volta di ciò che passava pel capo del marito come una nube tempestosa. Indovinava il turbamento che sconvolgeva di tratto in tratto quell’anima, e non sapeva a che attribuirlo. Anch’essa divenne inquieta, timorosa e alquanto schiva alle volte. Temeva che gli spiriti irrequieti del marito si risvegliassero, e che egli stesso, combattendosi per debito d’onest’uomo, non potesse fare a meno di rimpiangere segretamente la libertà perduta, e la vita avventurosa di una volta. Anch’ella perciò era divenuta un po’ melanconica, e qualche volta anche dispettosa. Avrebbe voluto mettere la sordina alle memorie che turbavano la mente del marito, come poteva mettergli le mani sugli occhi se voleva, per impedirgli di vedere le belle donne delle quali era gelosa – e poi per una tal superbietta di donna, ed anche per ambizioncella di moglie, avrebbe voluto scaricare su qualcuno, un caro qualcuno di là da venire, la responsabilità di quella missione. «Se avessimo un bimbo!» gli diceva sottovoce, e celandogli in seno il viso infuocato.

Ei chinava il capo e stava zitto; una volta rispose con quel sorriso tutto suo:

«Hai voluto tentare il cielo, lo vedi, Adele mia!»

In quel tempo Gemmati era ritornato a Firenze da un lungo viaggio scientifico, e Adele avea dato scherzando al marito quella notizia raccolta nelle conversazioni dove si facevano le lodi del giovane scienziato.

«Bisogna scappar via da Firenze adesso?» domandò ridendo.

«Bisogna invitarlo a pranzo domani, e farmi perdonare i torti che ho verso di lui.»

Gemmati avea perdonato quei torti, noti oppur no, con una di quelle strette di mano che armonizzavano col suo viso aperto e leale. Avea riveduto Adele senza finta semplicità, senza riserbatezza affettata. Dopo la prima stretta di mano, tutti tre sentirono che non avevano piú nulla a nascondersi, nulla a rimproverarsi, e respirarono liberamente.

«Sai che sono stato geloso di te!» gli disse Alberto allorché furono soli un momento.

«Non sarebbe stata la prima volta» rispose Gemmati ridendo. «Ti rammenti della figliuola del barbiere a Prato? e adesso, alla fine dei conti, mi tocca d’esser geloso io di te! Sei felice?» aggiunse vedendo rientrare la marchesa.

«Sí» rispose Alberto con una certa vivacità.

Gemmati avea mille cose da raccontare dei suoi viaggi, e il suo dire era pieno di brio e d’interesse. La sera trascorse come un lampo, in una dolce e tranquilla intimità, e fece venire nel discorso il ricordo delle piú belle sere di Belmonte. Gemmati s’era fatto un bell’uomo, dai lineamenti energici e virili; sembrava avesse acquistato in una vita attiva ed operosa tutto quello che Alberti aveva sciupato nella sua molle e tempestosa. Il marchese l’avea forse contemplato con cotesto sentimento, mentre Gemmati discorreva con sua moglie, e quando se ne fu andato, Adele disse:

«È sempre giovane, n’è vero, Alberto?»

La salute della marchesa Alberti era sempre delicata, in estate i medici le prescrivevano di fuggire Firenze. Ella soleva andare a Montecatini, a Viareggio, o a Livorno.

Quell’anno fu scelto Livorno.

«Vieni anche tu?» aveva domandato Alberto a Gemmati.

«Non posso. Ho speso tutto il mio poco avere nei viaggi, e adesso bisogna che metta giudizio. Comincio a farmi una discreta clientela. Sai come siamo noi altri medici, specialmente in principio di carriera? Non potrei lasciar Firenze per una settimana, senza mandare a monte quel che ho fatto sinora.»

Livorno quell’anno era una stazione alla moda. Gli alberghi e le ville rigurgitavano di forestieri. Giammai l’Ardenza e i Cavalleggeri erano stati piú affollati di equipaggi eleganti. Il giorno stesso che la marchesa Alberti prendeva stanza nell’appartamento fissato preventivamente per telegrafo all’albergo della Gran Brettagna, giungeva da Berna nell’albergo istesso una di quelle coppie di zingari del gran mondo che scorazzavano per tutte le stazioni d’Europa segnate dalla moda – il principe e la principessa Metelliani.

La principessa era abituata ad arrivar da per tutto come una regina, ed a stendere senza contrasto il suo ventaglio come uno scettro. Ella fu dunque ferita nel piú vivo dell’amor proprio incontrando a Livorno una rivale preferita, incensata, corteggiata piú di lei, e che per giunta non sembrava curarsi del suo trionfo, o godevaselo disinvoltamente, come cosa dovutale naturalmente – e chi poi? quella medesima donnina che ella aveva sempre eclissato col solo riflesso dei suoi biondi capelli! – quella figurina pallida, magra, tutta occhi, la quale non aveva cotesti occhi che per suo marito, e che tutti quegli imbecilli dell’Ardenza e dei Cavalleggieri adoravano da lontano come tanti Don Chisciotti. – Quel cencio stesso di marito glielo aveva lasciato lei, quando non avea saputo piú che farsene. Se non si fosse trattato che di lui, ella avrebbe continuato ad essere la migliore amica di Adele, e del resto – a parte il principe, che nell’esistenza di Velleda non avea giammai contato altro che come principe – l’antico suo amante era davvero divenuto un cencio d’uomo. Ma adesso gliene voleva anche perché quel tal marito cencio o no, che essa le aveva regalato, il quale l’avea tanto amata, lei, la bella Manfredini! che anch’essa avea forse amato – forse – si fosse consolato proprio con quella Adele! si fosse consolato talmente da non caderle ai piedi la prima volta che l’avea riveduta da Pancaldi! – lei, la superba beltà che portava una corona di principessa! Se Adele le avesse rubato quella corona, non le avrebbe fatto maggior dispetto. L’indispettiva anche l’indifferenza serena di quella rivale innamorata soltanto del marito – fierezza, noncuranza, civetteria che fossero, irritavano, ferivano, umiliavano il suo orgoglio, la sua vanità, la sua civetteria. Se ci avesse pensato, avrebbe voluto colpire quella rivale nel solo lato che mostrava vulnerabile, in quel tal cencio di marito che ella – la vinta d’oggi – le avea buttato fra i piedi come una limosina.

Del resto coteste due rivali appartenevano alla medesima società, erano state amiche, sapevano vivere abbastanza per non dar spettacolo dei loro intimi sentimenti ai curiosi, agli invidiosi, alla folla, e per stringersi la mano, sin dalla prima volta, col piú grazioso sorriso. Velleda e Alberto s’incontrarono, si salutarono, si rivolsero la parola al modo stesso, colla medesima disinvoltura. Ella disse che avevano finito come avevano incominciato – e realmente non era malcontenta che avessero finito a quel modo.

Le due amiche e rivali dimoravano nello stesso albergo, al medesimo piano, uscio contro uscio, si vedevano sovente, s’incontravano tutti i giorni alla medesima passeggiata e agli stessi ritrovi. Una sera che da Pancaldi s’era organizzata in parecchi una gran cena, alla quale Adele aveva brillato piú del solito, e la principessa era stata piú del solito uggita, mentre l’allegra comitiva usciva in massa a fare una passeggiata al chiaro di luna, Velleda, senza saper come, s’era trovata l’ultima e vicina ad Alberti. Essa gli rivolse un’occhiata singolare, e quindi gli disse mettendoglisi risolutamente al lato:

«Alla fin fine… davvero… perché non mi dareste il braccio?»

E avevano incominciato a discorrere di questo o di quello; poi nel separarsi gli avea detto con quel medesimo tono:

«Vedete che noi si sta meglio in questo modo… che in quell’altro.»

E da quel giorno s’era messa a far la corte ad Alberto.

Alberto se n’era avvisto, e ne provava una segreta soddisfazione, un po’ per istinto di vecchio leone che vuol provare ancora le zanne, ma principalmente per uno strano sentimento che riferivasi a sua moglie. Era geloso senza osare di confessarlo all’Adele e a sé stesso, e provava una singolare civetteria mascolina a far intravvedere alla moglie, e a provar a sé medesimo, che egli era sempre preferito a tutti quei ganimedi che gli davano uggia. Non gli dispiaceva anche che sua moglie temesse un pochino per lui, giacché egli temeva per lei, e voleva metterle ai piedi anche lui qualcosa, una di quelle preferenze che lusingano tanto l’amor proprio di una donna.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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