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Gerolamo Rovetta
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X

Quel giorno, nel quale Maria volle partire, Firenze era gaia più del solito: godeva una bella giornata di primavera, quantunque si fosse ancora in febbraio. Ma quando la locomotiva uscì avvolta di fumo dall’alta tettoia, ove l’incessante frastuono di un mondo riboccante di vita dava l’ultimo addio ai viaggiatori; quando quel mostro di ferro, novello Mefistofele, gittate in alto il suo sibilo, e salutate

« . . . . le convalli

Popolate di case e d’oliveti»

salì sbuffando e poi scese dall’alto declivio dell’Appennino, allora, si passò con brusca rapidità dal giovane Oriente – tepido e profumato – al freddo e ai ghiacci della vecchia Siberia.

Quanto freddo e quanta neve!…

Quel lenzuolo uniforme e bianchissimo tormentava l’occhio e intirizziva lo spirito. Correndo in quel pelago morto e ghiacciato si soffriva l’ansia del naufrago. Non un cespuglio verde, non un filo d’erba che vi rompesse l’uniformità monotona e desolante. Di lontano le case perdute nei campi, serrate dalla miseria e dal freddo, colle muraglie, per il riflesso della neve fatte ancor più tetre, parevano senz’anima viva. Gli alberi aridi, brulli, senza una foglia, screpolati, quasi scheletri immani imprecanti in quel vasto deserto. Non vi era cielo lontano, nè profilo di montagne, nè allegria di borgate dai vecchi castelli o dai nuovi campanili. Una nebbia umida e fitta chiudeva l’orizzonte, la locomotiva sembrava correre precipitando nel vuoto.

Lalla, poverina, sopportava i disagi con sufficiente coraggio. Dopo aver pianto disperatamente abbandonando il suo babbo, alla prima stazione aveva cominciata a ridere, alla seconda a mangiare e alla terza, stanca, si era addormentata.

Chi brontolava, chi sarebbe ritornata indietro, magari a piedi, chi non sapeva giustificare il capriccio della duchessa, era miss Dill.

Miss Dill, avvolta nella pelliccia, cogli occhiali verdi per ripararsi dal riflesso della neve, secca, gialla, grigia, rincantucciata, sepolta sotto i plaids, succhiava mandarini e inghiottiva bile. Finì anche miss Dill, come Lalla, addormentandosi: e quando, più tardi, all’ora solita del pranzo, la risvegliò lo stomaco vuoto, allora sognava appunto d’essere lei la padrona, Maria l’istitutrice, e di sfogarsi strapazzandola senza pietà.

La bella fuggitiva, invece, non dormì un minuto del lunghissimo viaggio. Immobile, con la testa piegata e con l’occhio fisso alla finestrella del carrozzone, sembrava assorta. Ma l’oggetto ch’ella guardava con tanto amore doveva essere raccolto nella sua mente, perchè da troppo tempo più non curava di levar via col fazzoletto l’umidità densa che appannava i cristalli.

Un’immagine, cara al suo cuore, la seguiva sempre in quella sua fuga: ella correva via a precipizio e traballava per l’urto e le scosse rapide del convoglio, pure non riusciva a fuggire del tutto. Ma quantunque vinta, era calma e sorridente: la battaglia era finita. Dopo lunghi giorni, dopo notti d’insonnia e di lacrime, trovava finalmente un’ora di pace.

Piegata la fronte, rassegnata, non aveva fatto ciò che il dovere le aveva imposto? La passione, che serpeggiava irritante nelle sue vene, era riuscita a soffocarla; l’uomo ch’ella amava tanto da sacrificare tutto per lui, l’aveva veduta fredda e indifferente; fuggiva il pericolo, e nulla nascondeva al marito… non era una santa, infine, era una povera donna: che cosa avrebbe potuto fare di più?… Doveva forse squarciarsi il petto colle stesse sue mani, per istrapparne via il cuore? No, Dio ha imposto alla creatura di vivere, oramai la vita per lei era il suo amore. Come, perchè ostinarsi in una lotta ineguale della volontà contro il pensiero? Quell’affetto non le consigliò mai una colpa, non le lasciò il retaggio d’un solo rimorso. Maria usciva intatta dall’incendio come l’amianto, non soffriva l’umiliazione, l’abbattimento di quelli che sono caduti, ma nella sua coscienza grandeggiava l’orgoglio supremo della vittoria; dunque? Dunque perchè combattere ancora, combattere sempre, dilaniarsi, per quello che era impossibile, quando, sola oramai, lontana dal pericolo, sicura di sè, poteva abbandonarsi, riposare serena, nelle care fantasie della mente? Ah! quell’ora di pace troppo a caro prezzo l’aveva guadagnata, e vi si abbandonò in ispirito e corpo. Allora chiuse gli occhi, incrociò le mani sulle ginocchia e, quasi un mistico velo l’avesse separata dal mondo, si raccolse tutta in sè stessa.

I sensi erano vinti e, ritornati all’assalto, sarebbero stati vinti ancora e sempre. L’uomo che si era impadronito di lei, adesso non faceva che prestar le sembianze alla cara immagine del suo sogno; l’amore non era sangue e carne, era pensiero: poetica, virtuosa, casta Maria lo avea idealizzato.

Sarà triste molto la vita, senza ricambio di affetti, sempre lontana, sempre là, sola; ma vi troverà ancora gioie profonde, vere, insperate. Dimenticare non avrebbe potuto(), nè voluto allora, nè mai; però quel nuovo battesimo l’ebbe rassegnata e volonterosa.

Così solamente l’amore non era colpa, era virtù; non era debolezza, ma forza sublime, divinità segreta purissima: non più tormento e pericolo, ma consolazione e conforto.

XI

Santo Fiore è un villaggio del basso Padovano: una contrada lunga e larga, dalla quale si diramano dieci o dodici viuzze più o meno deserte.

Colline non se ne vedono affatto, e le montagne si perdono lontane, sull’orizzonte.

Santo Fiore era il feudo dei conti di questo nome, e oggi ancora in barba allo statuto del regno, l’autorità dell’antica dinastia in quel villaggio ha salde le radici. Invece di reggere il piccolo popolo col cappellone dei carabinieri, i conti di Santo Fiore adoperavano due altri spedienti: il pane e il lavoro.

Quando il conte Giovanni, padre di Maria, venne a morire(), suo fratello Eriprando lasciò Borghignano e fece la sua abituale dimora nel maniero, come egli lo chiamava ridendo, della pupilla, continuandovi da gran signore la filantropia che da secoli facea benedetta la nobile famiglia. Ma troppo presto per quei terrazzani Maria si fe’ sposa, il conte ritornò per sempre in città, e allora Santo Fiore rimase sotto la giurisdizione di un segretario, il quale, naturalmente, non poteva largheggiare in opere buone, come avevano usato i padroni.

Da tutto ciò si capisce con quanta contentezza vi fu accolta Maria al suo ritorno. Fu accolta con una vera festa di popolo: una di quelle feste spontanee, sincere, espansive, dove non sono i questurini travestiti che dànno l’intonazione agli evviva, dove il telegrafo non raddoppia le chiamate al balcone e dove, finalmente, l’ispettore di pubblica sicurezza non trema che il consigliere delegato venga a sapere, dai rimproveri del prefetto, che al signor ministro parve quell’entusiasmo inferiore al prescritto.

Maria era stata ricevuta alla stazione dal parroco, dal sindaco, che era suo fittaiolo, dai ricchi e dai poveri del paese; e mentre saliva sul carrozzone del nonno, tutti volevano salutarla, facevano meraviglie e moine a Lalla che sapeva darsi una certa arietta, e cercavano di stringere la mano a miss Dill, che non avevano mai veduta, e che rispondeva con smorfie, trovando, nel suo sentire d’inglese, quel baccano di pessimo gusto.

Il cocchiere dall’antica livrea non era l’impettito auriga superbo, arcigno, pretenzioso, che anticipa dalla cassetta le borie di chi sta in carrozza; ma invece era un vecchietto gaio, lindo, arzillo, il quale aveva servito alle nozze del conte Giovanni e veduta nascere Maria. Anche lui, rimasto sempre a Santo Fiore, contento come una pasqua dell’avvenimento insperato, faceva andare i cavalli con un trotto limitato, ammiccando alla buona i conoscenti, che vedeva alle finestre, come per dir loro: – È qui, è venuta, è tornata finalmente, la padroncina!… – Maria aveva avuto un bel crescere, maritarsi e far figliuoli; il buon uomo la chiamava ancora, come l’aveva chiamata sempre, – la padroncina. – E ciò per la consuetudine di tanti anni, ma più forse, per un delicato riguardo che quel cuore onesto conservava alla defunta contessa, la madre di Maria, che nella rozza devozione del servo, anche morta rimaneva sempre la buona padrona che governava dall’alto su quella casa.

Luigia e Lorenzo venivano dietro in un’altra vettura, tutti e due storpiando un toscano sui generis col castaldo, che li guardava sbalordito e in soggezione.

Sui muri erano stati affissi in carte rosse, verdi, gialle, come gli avvisi dei teatri, sonetti e madrigali, composti dal figlio del segretario comunale, un ragazzotto pieno di genio, che aveva studiato nel ginnasio della vicina città; e alla sera poi la musica dei dilettanti suonò sotto il portico della villa il Miserere del Trovatore, un coro del Nabucco e la Stella confidente.

Ma poi, dopo quel baccano d’un giorno, non ci furono altri divertimenti a Santo Fiore; nè gli abitanti del piccolo villaggio potevano offrire a Maria un elemento ai colloqui piacevoli e alle possibili famigliarità. Il sindaco, il medico, il pretore, lo speziale erano tutte brave persone, le loro donne svelte e chiacchierone, ma non possedevano certo le qualità volute dall’indole fine e dai gusti aristocratici della duchessa d’Eleda.

La muta del filugello, la caccia, la veste o il ganzo di una comare, le novene e le recite dei Due Sergenti prestavano l’argomento a tutti i loro pettegolezzi, dal primo all’ultimo giorno dell’anno.

Però la distanza che separava il villaggio dal Palazzo dei Signori, era enorme, quantunque la duchessa facesse del suo meglio per accorciarla. Solo don Gregorio, il vecchio parroco, il maestro d’una volta e il confessore di Maria, era tal uomo che alla bontà dell’animo accoppiando una coltura non comune, riusciva l’amico diletto, la compagnia cara e cercata dalla giovane solitaria.

Ma don Gregorio era molto innanzi cogli anni; i mille acciacchi della vecchiaia lo tenevano prigioniero rassegnato tra i quattro muri della sua cameretta, ed era miracolo se qualche volta, quando la giornata era tepida, poteva trascinarsi fino al Palazzo. Per questo appunto la curia gli aveva concesso un coadiutore in don Vincenzo, pretucolo grasso, bracato e piaggiatore, il quale menava la vita facendo della mensa un altare, e dell’altare una mensa. Costui divenne lo spavento di Maria, con quel tabacco e con quel sudiciume!… Invece miss Dill, quantunque da buona inglese la propriety l’avesse sempre in bocca, sentiva per lui una grande predilezione. Ma il prete aveva il merito di darle sempre ragione; poi la inchinava, quanto gli permetteva la pinguedine, con ogni sorta di salamelecchi: e non appena vedeva entrare in chiesa quella figura bizantina, le mandava subito lo scaccino con una sedia imbottita ed uno sgabello per posarvi su i piedi; due piedi al doppio del naturale.

Anche Lalla lo vedeva di buon occhio, chè don Vincenzo era un ammiratore entusiasta della sua devozione, dei suoi talenti, della sua grazia; per altro lo derideva anche sovente, e si divertiva dal giardiniere e dal castaldo, contraffacendone la voce nasale, il collo torto, le cupide occhiate agli intingoli e lo scoppiettar della lingua contro il dotto palato.

Un altro che frequentava il Palazzo era Sandrino Frascolini, il figlio del segretario comunale, il piccolo Dante di Santo Fiore, e predestinato già, col tempo, a recitar lui la parte di uno dei Due Sergenti; ma anche con Sandrino, dopo le solite parole, se Maria avesse voluto continuare a discorrere, avrebbe dovuto rifarsi da capo.

I forestieri poi che arrivavano non avevano a litigar per il posto: il conte Eriprando, ammalato di gotta, non si poteva muovere; amiche, Maria non ne aveva, amici ce n’era stato uno soltanto, e non c’era più. Dunque era sola, sempre sola.

In quanto a miss Dill… la rigida signora, invece di uno svago era un incubo. Nata da ricca famiglia di commercianti, alcuni rovesci finanziari l’avevano ridotta a dover cercarsi un posto per vivere; a dover servire: ma orgogliosa e bigotta, alla sventura non si era piegata con rassegnazione. Esigente, dura con gli inferiori, era cavillosa nel difendere le proprie prerogative e piena di sospetti, di diffidenze verso i padroni. Confondeva la dignità colla superbia, e segretamente invidiava la signora fino a volerle male. Riceveva da lei un regalo?… la duchessa non riusciva mai a darglielo in modo da non aggravare il peso della sua condizione. Un giorno, forse sopra pensiero, Maria non trattava l’istitutrice con tutti i riguardi? Miss Dill allora preparava uno scoppio, e lo preannunciava con musi lunghi che duravano per settimane di seguito, e un dolor di capo tanto fastidioso e tanto incomodo per tutta la casa, da spaventare colla sola minaccia. Se Maria in quei giorni avesse aperto il pianoforte, bisognava non aver cuore per tormentarla così; se Lalla faceva i gradini della scala a due a due, era come sua madre anche lei, senza cuore. Maria, per distrarla, le ordinava di uscire in carrozza? Voleva ucciderla. Non la faceva uscire? Le negava di prendere una boccata d’aria. La passera mattugiola pigolava sulle finestre? Lorenzo, Ambrogio, dovevano correre con lo schioppo a spaventarla; ma se il colpo partiva, miss Dill cadeva in convulsioni.

La duchessa, certe volte, si trovava a due dita di perdere la pazienza; ma poi, stimando che quella ferrea natura e inflessibile fosse necessaria coll’indole vivace della figliuola, ne sopportava i difetti e le bizzarrie.

Lalla, malgrado le cure assidue della mamma, cresceva con un certo temperamentino da mettere un po’ in apprensione. Maria era costretta a conservare sempre con lei una severità inalterabile, che impediva la tenerezza e la confidenza, mentre fra la signorina e la miss covava una guerra sorda, nascosta, ma altrettanto accanita. Uno dei maggiori difetti di Lalla era la simulazione; quella testolina capricciosa non era mai capace di dire la verità. Nei suoi trasporti infantili c’era sempre finzione od esagerazione. Esagerava il fervore delle pratiche religiose, la paura del castigo, le carezze che faceva alla mamma perchè le perdonasse i capriccetti e le scappatelle. E però, tutto ciò sommato, faceva sì che Maria fosse condannata alla più penosa solitudine: la solitudine nella famiglia.

A distrarla, o a consolarla, non contribuivano certo le visite, frequenti da principio, poi fatte più rare, di Prospero. In quelle occasioni tutti i preti del vicinato erano a pranzo al Palazzo. Miss Dill allora faceva la garbata con don Vincenzo, e Lalla, che ricominciava a sentir la smania di attirarsi l’attenzione del pubblico, aveva sempre pronto qualche digiuno, qualche fioretto alla Madonna, che la faceva ammirare, e quasi santificare in anticipazione, da tutti quei reverendi con la bocca unta.

Fosse per le forti attrattive del frutto proibito, o fosse anche perchè avesse finalmente aperto gli occhi su quel che era Haute-Cour, il fatto sta che il prurito della coniugale riconciliazione durava acuto, insopportabile, fra carne e pelle, al duca d’Eleda. Ma sua moglie, che lo accoglieva sempre colla più schietta cordialità, gli teneva chiusa tuttavia, e inesorabilmente, la sua cameretta; una camerettina elegante, profumata come il nido della capinera, dove, tra le spesse cortine, spuntava fuori un lettino breve, piccolo, tutto a pizzi e a ricami, un lettino candidissimo, da educanda; e il duca d’Eleda, che per quella cameretta avrebbe rinunziato con tutta l’anima a ben più vasti dominii, arrivato a Santo Fiore gaio e cerimonioso, ripartiva poi con un palmo di muso, borbottando il solito ritornello: – La maledetta non ha sangue; è una donna di ghi-ghi-ghiaccio!…

Allora, per vendicarsi o per distrarsi, ritornava più accalorato presso la Haute-Cour, lusingandosi che sua moglie notasse come a lui, spento il focolare domestico, riuscisse facile di riscaldarsi ugualmente.

Un’altra visita che Maria sopportava con rassegnazione era quella del marchese di Vharè. Costui, d’un marchesato un po’ dubbio, aveva i suoi possedimenti nelle vicinanze di Santo Fiore, e a Borghignano teneva casa: dissipatore vizioso, l’inverno, anzi quasi tutto l’anno, egli viveva a Monte Carlo, e solamente quando la roulette gli faceva le corna, rimpatriava per cercare un’ipoteca o per vendere, affettando un disprezzo olimpico per la provincia e i suoi abitanti.

Non toccava ancora i trent’anni, eppure contava già molti debiti e parecchie di quelle avventure che in provincia appunto si chiamano scandali, e alla capitale des bonnes fortunes. Quantunque per altro egli fosse il babau dei mariti e dei padri, i buoni e pacifici borghesi provavano un senso di meraviglia e sgranavano gli occhi dinanzi al bel marchese apocrifo, elegante, freddo, epigrammatico, che in una notte, sulla rossa o sulla nera, sapeva perdere, senza tirare un accidente, qualche decina di mille lire, fossero magari dei creditori. Si sarebbero ben guardati dallo scontargli una cambiale: ma si compiacevano di essere con lui in buoni legami d’amicizia, e i pochi fortunati cui era concesso dalla sorte di dargli del tu, quasi se ne gloriavano, e incontrandolo per istrada lo salutavano con un ciao, gridato da un marciapiede all’altro, ciao, che suscitava invidie.

Contuttociò la gente per bene, che non mancava nemmeno a Borghignano, lo stimava secondo il merito; e primo tra quelli il conte Della Valle; tanto che ormai tra di loro un po’ di ruggine c’era, e davvero fu un contrattempo che Giorgio lo incontrasse a Santo Fiore.

Ormai otto o nove mesi erano scorsi dall’improvvisa partenza di Maria, e Giorgio non l’aveva più riveduta e anche le notizie gli mancavano affatto; egli le aveva scritto, ma senza averne risposta. Sua zia, la Castiglione, aveva sempre l’incarico di salutarlo e di ringraziarlo da parte della duchessa d’Eleda.

Questo silenzio gli pareva troppo nuovo per non recare anche un po’ di meraviglia oltre al dispiacere. Maria alla fine era stata per lui come una sorella e gli era cara come una sorella. – Che cosa mai le ho fatto – pensava Giorgio – per essere trattato in tal modo? Sarò stato forse troppo vivace nel difendere Prospero; ma doveva capire che parlavo sempre a fine di bene. Basta, andrò a Santo Fiore, e Maria dovrà spiegarsi. – E allora, dovendo egli recarsi a Venezia, per un congresso del Comitato operaio, pensò di fermarsi a Santo Fiore.

Maria era nel salotto col marchese di Vharè, quando, prima ancora che Giorgio le fosse annunziato, udì la sua voce: balzò in piedi, corse quasi fino all’uscio; ma intanto che Lorenzo, precedendo il conte, ne diceva forte il nome con quella intonazione particolare di voce colla quale i servi affezionati annunziano una visita che sanno gradita o inaspettata per i loro padroni, ella ritrovò la forza di ricomporsi. Si mostrò gentile col nuovo arrivato; ma lo fu molto più del solito col marchese di Vharè, che non aveva notata la commozione della sua ospite, costringendolo a fermarsi pel pranzo; cosa che spiacque a Giorgio moltissimo.

Egli se ne stava ancora mezzo imbronciato, quando il rumore di due o tre usci sbatacchiati con violenza, gli fece indovinare la venuta di Lalla. Lalla, infatti, entrò poco dopo nel salotto, correndo, saltando com’era avvezza; ma appena vide il marchese di Vharè si fermò come interdetta, arrossì vergognandosi, ed ai rimproveri della mamma per quel precipizio, balbettò qualche scusa, mentre gli occhi lucidissimi e il mento tremante mostravano che le lacrime erano lì lì per spuntare. Il Vharè, per difenderla e per confortarla, la prese, chiudendola fra le ginocchia, e le chiese un bacio. Lalla abbassò allora la testolina forte sul petto, e fece un po’ di resistenza prima di cedere al marchese, che con due dita le rialzava lo scaltro visetto, per baciarla sulla bocca; ma, nonostante la resistenza fatta, quando le labbra del giovane toccarono le labbra della bambina, la piccola bocca non restò ferma sotto quel bacio, e lo ricambiò con un sussulto di tutto il corpicino. La crisalide era in via di trasformarsi in farfalla, e le alette, sebbene allora piccolissime, fremevano impazienti di sciogliere il volo.

– Guarda, Lalla – disse Maria dolente per il Della Valle che non si vedeva notato dalla bambina; – guarda chi è venuto a trovarci, il tuo buon amico Giorgio. Da brava, sii gentile, dagli un bacino…

Lalla rispose appena con un’alzata di spalle.

– Non mi riconosci più? – le domandò Giorgio un po’ seccato.

– Lalla, su via, obbedisci! – replicò Maria vivamente. Lalla abbassò la testina un’altra volta, allungò il musino, ma non si mosse.

– Quando vi dovete mostrare così ineducata – esclamò Maria in collera più di quanto avrebbe voluto esserlo – ritornate subito subito da miss Dill. – Lalla corrugò le ciglia con un atto comicamente feroce, e opponendosi con mal garbo a Giorgio, che voleva trattenerla, corse via dal salotto.

– Perchè tormentarla, povera piccina? – disse il Vharè alla duchessa.

– Piccina, non è poi tanto piccina. Va per gli otto anni, presto.

Il marchese sorrise… il perfido marchese che avea lasciate forti impressioni nel cervellino di Lalla.

In una delle sue gite a Santo Fiore, Prospero Anatolio aveva parlato lungamente colla duchessa, a proposito del Vharè. Lalla che da un’ora era occupata nel ritagliare le belle signore del figurino, era là interamente dimenticata dal babbo e dalla mamma, nascosta dietro a un tavolino coperto di fiori e di libri ammonticchiati, e, a poco a poco, la sua attenzione si sviò dalle belle signore e fu invece tutta assorta nei discorsi del duca Prospero Anatolio, dopo aver parlato dei debiti del marchese, raccontava le sue avventure amorose, e tra le altre, il tentato suicidio di un’attrice celebre, la Mirette Croix, gelosa della baronessa Poloniski, sua rivale fortunata.

Il racconto piacque tanto alla piccina, che essa da quel giorno scelse il marchese di Vharè per suo sposo, e fu il principe Incantevole di tutti i suoi castelli fabbricati in aria. Però, quando egli era in villa dalla duchessa, e passeggiava in giardino, Lalla prima lo spiava nascosta: poi, tutto ad un tratto, gli appariva dinanzi rossa e balbettante. Quel giorno, durante il pranzo, se Maria e Giorgio le avessero badato, avrebbero veduto il suo visino pallido, cogli occhi grandi, fissi, incantati nel bel parlatore. Ma invece quel giorno Maria avea ben altro nel cuore, e Giorgio era troppo irritato per poter badare a simili bambinate.

Giorgio non poteva lagnarsi di nulla: ma ciò non impediva ch’egli fosse malcontento di tutto, e che si trovasse a disagio. Accolto con festa, capiva tuttavia di essere diventato straniero in quella famiglia, e quando egli disse di voler partire la mattina dopo, non fu adoperata alcuna insistenza per trattenerlo di più. Anche l’intimità che vedeva concedere ad un uomo per lui disprezzabile, senza reputazione e senza carattere, com’era il marchese di Vharè, lo irritava, mentre cominciava a essere infastidito dalle durezze e dalle impertinenze di Lalla, che non gli avea perdonato d’esser egli la cagione, sebbene involontaria, del castigo ricevuto.

Dopo il pranzo, la serata fu tutta a beneficio del Vharè, che sorretto da un eccellente Bordeaux-Lafitte era riuscito a dimenticare le prossime scadenze e a fare dello spirito: mentre Giorgio annoiato, arrabbiato, aveva perdute tutte le buone intenzioni di spiegarsi con Maria e di riprendere l’intimità di una volta, così che quando, partito il marchese, egli si trovò solo colla duchessa, non iscambiò con lei altro che i soliti complimenti.

– Dunque volete proprio partire domattina?

– Sì, signora duchessa, col treno delle otto.

– Col treno delle otto? Così presto? Non potreste aspettare dopo colazione?

– Ne sono spiacentissimo… è assolutamente impossibile!

Di faccia all’impossibilità non si fecero altri tentativi, e Maria salutò la sera stessa il suo ospite.

– Per Dio, ho fatta una bella gita quest’oggi! – esclamò Giorgio, dando libero sfogo al dispetto, per tanto tempo trattenuto, dopo di essersi rinchiuso, solo, nella sua camera. – Metteva proprio il conto che sacrificassi una giornata di Venezia, per ottenere di questi bei risultati – e, così dicendo, buttò lontano una scarpa che si era levata. – Mah! Le donne?… chi capisce le donne, è bravo davvero! E Lalla?… com’è viziata quella sciocchina! – A questo punto la seconda scarpa raggiunse la prima. – Infine, se Prospero non ha ragione, non ha neanche torto; Maria è senza cuore. In tutto il giorno trattò me, che conosce da vent’anni, come fossi il primo venuto; mentre era tutta smorfie e garbatezze per quel barattiere, per quel marchese da burla, impertinente e sfacciato… Sacripante! ho rotto l’orologio! – Giorgio, dopo essersi spogliato dell’abito, s’era messo a caricare il suo remontoir; ma, accompagnando ogni giro con un movimento nervoso delle dita, terminò a questo punto d’ira crescente, col rompere la molla.

– Sapristi!… Prima che capiti un’altra volta a Santo Fiore, deve passare molto tempo! – borbottò, – No, no, lascio libero il campo al bel marchese!… Ma… ora che ci penso, non ci sarebbe pericolo ch’egli fosse più innanzi con la duchessa di quanto si crederebbe?… L’occasione fa l’uomo ladro; la solitudine, la donna facile!… Che! che! nemmen per idea!.. Maria non è altro che un pezzo di ghiaccio! – e così concludendo, il giovinotto, ormai svestito, si cacciò in letto, spense il lume, e ben presto si addormentò.

In tutta quella notte chi, passando dal Palazzo dei Santo Fiore, avesse alzato un po’ il capo, avrebbe veduto una finestra illuminata. Come mai? Non c’erano nè poeti nè ammalati là dentro, e faceva un tempo così tranquillo, con una brezzolina fresca d’ottobre, da conciliare il sonno anche alle stelle del firmamento.

Chi vegliava, dunque, in quella stanza, e perchè vegliava?…

Quella era la cameretta di Maria… Povera Maria!

La mattina dopo, prima delle otto, il conte Della Valle era già sceso nel cortile del palazzo e, pronto per partire, accendendo il sigaro dinanzi alla carrozza che doveva condurlo alla stazione:

– La signora duchessa dorme ancora, certamente? – domandò al servitore che gli teneva aperto lo sportello.

– No, signor conte. La signora duchessa è uscita a cavallo.

– Sola? – domandò meravigliato.

– Sola, con Lorenzo.

– Esce di frequente la mattina?

– Quasi sempre, ma molto più tardi.

– Uhm!… poteva almeno fermarsi per salutarmi, – pensò Giorgio tra sè; e montò in carrozza, accomiatandosi più annoiato che dolente da Santo Fiore.

Appena chiuso nel suo coupé, dove per fortuna si trovò solo, accese una spagnoletta, e, quando il convoglio partì, abbassò i cristalli, aspirò con voluttà l’aria fresca balsamica del mattino, ammirando le praterie verdissime, che passando dinanzi ai suoi occhi parevano descrivere dei semicerchi.

– Oh, bella! guarda la duchessa! – esclamò a un tratto levandosi e sventolando il fazzoletto fuori dal carrozzone.

– To’, to’, to’, il Vharè è con lei?… solo?… A quest’ora? ma dove diamine hanno lasciato Lorenzo? – e il giovane rimase meravigliato di quell’incidente persuadendosi a dispetto del suo ottimismo che l’intimità di Maria col marchese era, per lo meno, eccessiva.

Infatti, sopra un poggio, dietro un filare di platani. Maria e il Vharè, a cavallo, aspettavano il paesaggio del treno. Pareva che là a cavallo tutti e due, tutti e due soli, in quell’ora mattutina si fossero dati una posta; ma invece il loro incontro non era che l’opera innocente del caso.

Quel poggio che si chiamava appunto il Poggio dei platani, era adiacente ad una delle fattorie del marchese, dove questi si era recato assai di buon’ora con due periti per fare una stima.

– Ohè! la corsa! – esclamò un di loro, quando udì il rumore sordo, monotono che la precede.

– Sicuro; è l’omnibus di Venezia. – Così dicendo il Vharè puntò lo sguardo per vederlo passare; ma vide invece Maria, che a briglia sciolta saliva l’erta e penetrava, nascondendosi al di là del Poggio dei platani.

– La duchessa? Aspettate un momento, vado e torno, – e l’incorreggibile vagheggino, ch’era pure a cavallo, in due galoppate l’aveva raggiunta.

Maria non avrebbe potuto lasciar partire a quel modo il conte Della Valle senza prima concedere a sè stessa di rivederlo ancora, un’ultima volta. – Lo aspetterò là, al Poggio dei platani, – aveva detto tra sè, e con questo patto trovò un po’ di sollievo. Ma adesso, a mano a mano che quel punto nero s’ingrandiva avvicinandosi, un timore, ch’era un’angoscia, le strinse il cuore; e quando quel punto nero diventato un mostro gigantesco, velocemente attraversava la via, il suo timore si mutava in una preghiera appassionata, fervente. – Fate, mio Dio, fate ch’io possa rivederlo, rivederlo ancora per un’ultima volta; – e Iddio, commosso a tanta virtù e a tanto amore, esaudì la poveretta.

– Eccolo! è lui! addio, addio, Giorgio, addio!

– Duchessa, i miei complimenti! La sua apparizione mi fa pensare a Diana, e al bel tempo antico!

– Ah!… lei, marchese!… mi ha fatto paura!

Il Vharè lo credette e spiegò colla paura il tremito, il rossore, il seno palpitante di Maria. Lorenzo, i due periti, i contadini, rimanevano intanto nascosti dietro una siepe, nella prateria sottoposta: ecco in qual modo la duchessa d’Eleda e il marchese di Vharè apparvero a Giorgio soli, riuniti come a un ritrovo.

Il fatto però, nemmeno per caso, non si ripetè più, nè poteva ripetersi: il Vharè, terminati gli affari, ripartì subito per Monte Carlo, e per molto tempo non ritornò a Santo Fiore. Il conte Della Valle, invece, non si rivide mai più. E questo avvenne per due perchè: perchè glien’era passata la voglia col primo viaggio, e perchè poco dopo, a cagione delle lotte elettorali, si ruppe fra lui e il d’Eleda la buona amicizia.

Fu Prospero Anatolio che ne scrisse alla moglie, contentissimo in cuor suo che un tale incidente la allontanasse da Giorgio. Il marito era sempre sicuro, ma così si sentiva ancor più tranquillo.

Per altro, anche separato da tanti e insormontabili ostacoli, il cuore di Maria era sempre vicino al giovane amato. Il suo era l’affetto di amante e di madre, un affetto che doveva proteggerla nella vita come la preghiera di un angelo.

Tutte le sere Maria aveva un’ora di felicità quando, chiusa nella sua cameretta, leggeva e rileggeva tutti i giornali che parlavano del conte Della Valle, che ne lodavano l’ingegno e il carattere, e se di tutto ciò insuperbiva il sentimento della donna, vedendolo così assorto nel lavoro e nell’affetto del paese, sperava senza confessarlo a sè stessa, sperava la povera gelosa, che non un’altra donna, ma la patria, la patria sola, avrebbe riempito tutto il suo cuore… e allora, dopo tanti dolori e tanto ritegno, finalmente dava l’aire ai pensieri, che, liberi, volavano al suo ideale dorato.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
500 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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