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Читать книгу: «Mater dolorosa», страница 29

Gerolamo Rovetta
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XXXIV

Erano trascorsi due mesi dalla morte di Lalla, quando una sera a Santo Fiore tutte le campane del piccolo villaggio sonavano lentamente e lugubremente. Da vari giorni venivano innalzate al cielo pubbliche preci con un fervore sincero, che vinceva l’uniformità fredda e convenzionale delle pompe solenni, ma tutto inutilmente: – la duchessa Maria peggiorava, peggiorava sempre! Era giunta all’agonia. Dio voleva richiamare quella sua martire, e non ascoltava più altro, oramai, che una preghiera fioca e debole, che gli domandava la pace e che saliva fino a Lui non confusa dal frastuono del tempio, ma solitaria, da un letto di dolore.

Imbruniva appena: dai cancelli spalancati del palazzo entrò un gran carrozzone chiuso e nero, come un carro mortuario, e ne discese il conte Della Valle curvo, scarno, coi capelli quasi bianchi: in due mesi era invecchiato di dieci anni. Nella prima sala a terreno fu incontrato dal duca Prospero, anche lui dimesso e colla faccia sbattuta, che lo abbracciò singhiozzando.

– Tutt’e due!… Tutt’e due, in così poco tempo! È troppo!… È troppo!

Giorgio lo guardò colla faccia istupidita, senza dire una parola.

– Va… Va… se vuoi vederla, – -e il duca con una mano, indicava l’uscio che metteva alla scala. – Non ti riconoscerà nemmeno. Io non posso resistere; sono ammalato; questi colpi ammazzano un pover’uomo. – Così dicendo, sospirando e singhiozzando, si buttò sopra una poltrona, presso il camino.

Giorgio salì la scala lentamente. Il suo volto non esprimeva nessuna emozione; egli non sembrava nè commosso, nè addolorato; era soltanto attonito, sbalordito. Attraversò l’anticamera con un passo grave, pesante, senza nemmeno badare che era piena di donne inginocchiate, che recitavano preghiere. Erano le sorelle della Scuola Cristiana. Nel mezzo, non inginocchiate per terra come le altre, ma appoggiate a due seggiole, si scorgevano la Veronica e l’Ottavia, tutte e due vestite di nero, tutte e due col manuale di Filotea fra le mani, tutte e due colla medaglietta del Patronato puntata sul petto. La Veronica si guardava intorno dispettosa, interrompendo le orazioni con degli zitt… lunghi, rabbiosi che parevano sferzate, quando l’una o l’altra delle donne alzava un po’ troppo la voce; ma il rimbrotto veniva poi mitigato dall’Ottavia, che confortava la malcapitata, colpita da tanta collera, con un sorriso beato, da dopo pranzo. Miss Dill, stanca, era seduta in un angolo oscuro; don Vincenzo, in piedi, pregava a bassa voce, leggendo il breviario.

Quando Giorgio attraversò la stanza, tutte le donne gli tennero dietro cogli occhi, e quella sua figura, quel fantasma cupo del dolore, sembrò raddoppiasse il fervore delle loro preci.

Miss Dill, vedendolo, fece per alzarsi e muovergli incontro; ma poi si fermò, e con un cenno del capo chiamò don Vincenzo.

– Non credereste, – gli disse piano, – di parlarne anche al conte Giorgio?

– State tranquilla, miss Dill: ve l’ho già detto; chi ha fatto fare il testamento alla signora duchessa è stato il duca Prospero; e voi vi siete ricordata.

– Non vorrei si facesse come l’altra volta. Nemmeno una memoria!… E sì che la contessa avea molte obbligazioni con me.

– È inutile, vi ripeto. Ormai, quel ch’è fatto è fatto. E poi, il signor conte, dicono, è diventato mezzo matto.

Intanto il Della Valle aveva attraversato un lungo appartamento tutto buio, attratto dalla luce rossastra, che veniva dal fondo.

Quando fu giunto sulla soglia della camera di Maria, si fermò: allora il suo volto sembrò animarsi e il suo respiro diventò affannoso. La Nena singhiozzava vicina all’uscio; don Gregorio pregava ai piedi del letto.

Appena Giorgio apparve sull’uscio, don Gregorio si alzò, gli andò incontro, gli prese una mano, che strinse colle sue mani tremanti, e con un cenno, scrollando il capo, indicò Maria. Il povero vecchio pensò che era stato il Signore a parlare al conte Giorgio, a farlo arrivare in quel momento, e si ritirò in un angolo, benedicendo alla sapienza e alla bontà infinita.

La camera era mezzo al buio: soltanto una lucernetta, nascosta da un fitto cappuccio, gittava una luce sinistra sul letto e intorno alla morente.

Giorgio dal lugubre silenzio che lo aveva seguito a mano a mano che attraversava tutte quelle stanze fredde e deserte, avvolte nelle tenebre, non aveva ricevuta nessuna sensazione; ma quando si trovò dinanzi al letto di Maria, il suo cuore, da tanto tempo insensibile, tornò a commuoversi e a palpitare.

Maria, prima di vederlo, lo aveva sentito. Da alcuni minuti l’ammalata, col viso intento, battendo le palpebre, pareva cercasse qualche cosa in quella luce rossastra e ristretta, serrata nelle ombre cupe.

Chi cercava, chi aspettava era Giorgio: Maria, colla sensibilità dei morenti, aveva udito la carrozza entrare nel palazzo; aveva seguito i passi di Giorgio che si avvicinava, e il desiderio di vederlo ancora, l’ultima volta, le aveva ridato un nuovo alito, una forza nuova, un vivo desiderio di luce, un rimpianto, il primo e il supremo, alla vita che le fuggiva.

Maria lo fissò ostinatamente, colle pupille arse, ma nelle quali l’amore aveva raccolta tutta l’anima sua. Lo fissò con tanto affetto, che le trasfuse nel sangue un nuovo calore; la vita ritornò per un momento a riaccendersi e un’ondata di rossore imporporò quel povero volto distrutto…

Giorgio, che l’avea veduta tanto bella, non l’avrebbe più riconosciuta; ma parlavano l’occhio di lei e i battiti del suo cuore, e non poteva essere in dubbio. Si avvicinò, come preso da tremori convulsi, e un tanfo umido, greve, lo avvolse mentre il lume rischiarava l’agonizzante con riflessi così strani e foschi, da sentirne a tratti perfino paura.

Ed era lei. Maria, un giorno tanto bella!… Ma un improvviso, un prepotente pensiero superò ogni titubanza: Maria moriva per amor suo!… E a questo pensiero Giorgio sentiva anche dinanzi a quello spettacolo d’orrore delle intime seduzioni, e guardandola ancora, gli sembrò che tinte rosee incarnassero quelle guance scarne, affilate, e che vi risplendesse come un ultimo bagliore della sparita bellezza.

Allora si buttò sopra di lei, piegando le ginocchia e baciandole le mani con fervore disperata… Ma anche allora la povera donna ricordò di essere madre: avea capito, indovinato, letto sul volto di Giorgio ch’egli tutto sapeva; e vincendo e dimenticando l’orribile strazio della sua vita balbettò con voce fioca e rotta:

– Perdonate… a Lalla!

Giorgio fu vinto da quell’atto sublime, divinamente grande, e fissando la morente con uno sguardo d’affetto profondo e appassionato le rispose:

– Sì, Maria, perdonerò… per te! – e avvicinandosi ancora di più e sollevandole la testa colle mani, la baciò sulla bocca.

Maria lottava adesso per trattenere la vita e colla vita la voluttà di un primo bacio, ch’ella, nel suo delirio, confondeva coll’estasi del Paradiso; di un bacio, che viva l’avrebbe forse uccisa e che morente le innalzava l’anima a Dio, staccandola dalla terra con un fremito d’amore. In tal modo ella morì: coi brividi di quel bacio che le correva per ogni fibra mutando la suprema agonia in una gioia suprema; compensando coll’ebbrezza purissima di quell’ultima ora, tutta intera la sua vita di dolori. Morì col sorriso sulle labbra e la felicità nell’anima, la sua fede e il suo amore indivisi nel cuore. Morì, passò dalla vita, senza strazio, tranquilla, come una fanciulla che si addormenta stanca, posando la testa sul petto del suo fidanzato.

XXXV

Il duca d’Eleda al conte Pier Luigi da Castiglione:

– Senato del Regno —

«Carissimo Pier Luigi,

«Vi scrivo ancora sbalordito, ancora più di là che di qua, affranto, ammalato, per tante sventure che in quest’anno terribile mi spezzarono il cuore.

«Se mi vedeste, non mi riconoscereste più: certo, farei pietà anche a voi: non posso mangiare, non posso vedermi in mezzo alla gente, e solo, non faccio altro che piangere. Basta; il Signore ha voluto così; sia benedetta la sua santa volontà.

«Però, credetelo, caro Pier Luigi; noi abituati alle gioie pure e serene della famiglia, noi, che consideravamo come giorni d’esilio tutti i giorni che eravamo obbligati a starcene lontani, quando ci troviamo a dover sopravvivere ai nostri cari, proviamo uno sgomento, una desolazione che ci mette addosso le vertigini. Ed io sono solo, spaventosamente solo!… Giorgio si è lasciato vincere, dominare interamente dall’egoismo del suo proprio dolore, ed ha dimenticato questo povero padre, questo povero marito, che piange disperato, in una casa deserta e senza echi. Egli presentò le sue dimissioni da deputato, e chiuso in una villa, su quel di Bergamo, conduce una vita monastica e lo dicono preso dalla monomania religiosa.

«A rinunciare alla politica ha fatto bene; in lui non c’era la stoffa di un uomo di Stato. Era timido, debole, irresoluto; tanto debole da cadere sfinito, affranto, sotto il peso della sventura, senza sentirsi capace di rialzarsi mai più, nemmeno pensando di essere padre.

«Che cosa succederebbe, – ditelo voi, caro Pier Luigi, – che cosa succederebbe di quel povero bambino, se io facessi altrettanto? Se anch’io mi abbandonassi ad una disperazione inconsulta?… No! – no! – Finchè Dio mi vorrà quaggiù, relegato in mezzo ai triboli, quella povera creaturina, tutto ciò che mi resta della mia Lalla e della mia povera Maria, troverà in me la tenerezza di un padre.

«Nulla di meno, per quanto un padre possa essere sollecito e affettuoso, quella creaturina non sentirà il bisogno di un affetto più gentile, di un bacio più dolce, di una mano più delicata che la accarezzi? Non avrà bisogno, insomma, di tutte quelle cure, che soltanto il cuore amoroso della donna prevede e comprende? Questo mi domando, giorno e notte, perchè giorno e notte non ho altro pensiero.

«Miss Dill?… Miss Dill non è una donna: è una strega! E fatta apposta per spaventarli, per farli piangere i bambini, e non per consolarli. È stata la mia povera moglie ad ostinarsi, a volerla prender per Lalla: fin d’allora, io non la potevo soffrire; ma la mia Maria la voleva e… Come si fa?… – Sentite, caro conte, nella sventura ho un solo conforto; ma è un grande conforto; quello di essermi sempre sacrificato alla volontà, fin anco ai capricci, parlando come se da viva ne avesse avuti, di quella poveretta. E poi, adesso, miss Dill (ingrata come tutto il mondo) sicura della pensione che la mia povera moglie le ha lasciato, per intercessione mia, si è fatta stizzosa, bisbetica, prepotente.

«Per ora, si sa bene, il mio Prosperino non ha bisogno di nessuno; la nutrice pensa a tutto e basta a tutto; ma fra qualche anno, anzi, fra qualche mese?… Devo condurlo con me, al Senato?… E a casa, a chi potrei affidarlo con animo tranquillo? A nessuno.

«Tutto ciò ben calcolato, e rinunziando per mio figlio ad altri e più gelosi sentimenti del mio cuore, e ripensando a quanto voi mi avete già scritto, cioè ch’Ella sarebbe disposta a sacrificare la sua gioventù con un povero vecchio, nel quale troverebbe però un padre e un servitore umile, rispettoso e devoto, vi domando la mano della contessina Giulia di Rocca Vianarda. Ma… siamo intesi: per un anno, almeno, non se ne deve discorrere: il mio cuore, prima di esserle offerto, bisogna che si ritempri nello stesso dolore che lo ha colpito, poi… Poi darò al mio piccino una sorella maggiore.

«Fra qualche giorno verrò a Firenze per baciare la mano alla contessina Giulia e per sentire da lei stessa s’ella acconsente di unirsi a me nel consolare e nel proteggere quell’angioletto che non ha più la mamma, e che il babbo ha dimenticato.

«La contessina era molto cara a quelle poverette, ed è perciò la sola donna che può entrare nella mia casa senza offendere la loro memoria.

«Vi saluto e vi stringo la mano.

«Tutto vostro»

«Prospero D’Eleda».

«P. S. – Non per voi, ma per la contessina Giulia, vi mando l’ultimo numero dell’Omnibus, nel quale troverete un articolo biografico che parla diffusamente della mia vita politica. Sono piccolezze alle quali non ho mai tenuto, essendo sempre stato un nemico acerrimo della réclame; la quale, del resto, non è mai stata tanto sfacciata e impudente come lo è al giorno d’oggi. L’articolo qui unito, è per altro un’eccezione: è sincero. Lo ha scritto il cavalier Frascolini, il direttore dell’Omnibus; un bravo ragazzo intelligente e abbastanza galantuomo.

«Qui si lavora attorno alla famosa legge elettorale. Molto probabilmente il mio voto sarà favorevole al progetto. Caro mio, che cosa volete fare?… Se vogliamo essere ostinati a tirar indietro per la coda il così detto progresso, la democrazia, più forte di noi, ci trascinerà per forza, e faremo la figura dei vinti: è meglio risolversi a tempo e saltare lesti alla testa… per tentare, se è ancora possibile, di mettervi un freno, o almeno per guidarne i movimenti.

«Roma, 15 dicembre, 1881»

FINE

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
500 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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