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Читать книгу: «La Calandria», страница 2

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SCENA II

POLINICO precettore, LIDIO padrone, FESSENIO servo.

POLINICO. Per certo, non mi saria mai caduto ne l'animo, Lidio, che tu a questo venissi; che, drieto andando a vani innamoramenti, sprezzatore de ogni virtú sei diventato. Ma di tutto do causa a quella bona creatura di Fessenio.

FESSENIO. Per lo corpo…

LIDIO. Non dir cosí, Polinico.

POLINICO. Eh! Lidio, tutto so meglio che tu e che quel ribaldo del tuo servo.

FESSENIO. A dispetto di… che io li…

POLINICO. L'omo prudente pensa sempre quello li pò venire in contrario.

FESSENIO. Eccoci su per le pedagogarie.

POLINICO. Come questo vostro amore fia piú noto, oltre che in gran pericolo starai, tu sarai da tutti tenuto una bestia.

FESSENIO. Pedagogo poltrone!

POLINICO. Perché, chi non dileggia e non odia li vani e li leggeri? Come diventato sei tu che, forestiero, ti sei posto ad amare. E chi? Una delle piú nobil donne di questa cittá. Fuggi, dico, e' pericoli di questo amore.

LIDIO. Polinico, io son giovane; e la giovinezza è tutta sottoposta ad Amore. Le gravi cose si convengano a' piú maturi. Io non posso volere se non quello che Amor vuole: e mi sforza ad amare questa nobil donna piú che me stesso. Il che, quando mai si risapessi, credo che io ne sarò da molti piú reputato; per ciò che come in una donna è grandissimo senno il guardarsi da l'amore di maggior omo che ella non è, cosí è gran valore nelli omini di amare donne di piú alto lignaggio che essi non sono.

FESSENIO. Oh bella risposta!

POLINICO. Questi son termini insegnatili da quel tristo di Fessenio per metterlo sú.

FESSENIO. Tristo se' tu.

POLINICO. Mi maravigliavo che tu non volassi a turbar l'opere bone.

FESSENIO. Adonque io non turberò le tua.

POLINICO. Nulla è peggio che vedere la vita de' savi dependere dal parlare de' matti.

FESSENIO. Piú saviamente l'ho consigliato io sempre che tu fatto non hai.

POLINICO. Non puole essere superiore di consigli chi è inferiore di costumi. Non te ho prima cognosciuto, Fessenio, perché non t'arei tanto laudato a Lidio.

FESSENIO. Avevo forse bisogno di tuo favore io, ah?

POLINICO. Conosco ora essere ben vero che, in laudare altrui, spesso resta l'omo ingannato; in biasmarlo, non mai.

FESSENIO. Tu stesso mostri la vanitá tua poi che laudavi chi non conoscevi. So io bene che, in parlare di te, non mi sono ingannato mai.

POLINICO. Donque hai tu detto mal di me?

FESSENIO. Tu stesso il di'.

POLINICO. Pazienzia! Non intendo quistionar teco, ché saria uno gridare co' tuoni.

FESSENIO. El fai perché non hai ragion meco.

POLINICO. El fo per non usare altro che parole.

FESSENIO. E che potresti tu mai farmi in cent'anni?

POLINICO. El vederesti. E cosí, cosí…

FESSENIO. Non stuzzicar, quando fumma el naso de l'orso.

POLINICO. Deh! deh! Orsú! Non voglio con un servo…

LIDIO. Orsú! Fessenio, non piú.

FESSENIO. Non minacciare: ché, benché io sia vil servo, anco la mosca ha la sua collora; e non è sí picciol pelo che non abbi l'ombra sua, intendi?

LIDIO. Taci, Fessenio.

POLINICO. Lassami seguire con Lidio, se ti piace.

FESSENIO. E dá del buon per la pace.

POLINICO. Ascolta, Lidio. Sappi che Dio ci ha fatto due orecchi per udire assai.

FESSENIO. Ed una sol bocca per parlar poco.

POLINICO. Non parlo teco. Ogni mal fresco agevolmente si leva; ma poi, invecchiato, non mai. Levati, dico, da questo tuo amore.

LIDIO. Perché?

POLINICO. Non ve arai mai se non tormenti.

LIDIO. Perché?

POLINICO. Oimè! Non sai tu che i compagni d'amore sono ira, odii, inimicizie, discordie, ruine, povertá, suspezione, inquietudine, morbi perniziosi nelli animi de' mortali? Fuggi amor; fuggi.

LIDIO. Oimè! Polinico, non posso.

POLINICO. Perché?

FESSENIO. Per mal che Dio ti dia.

LIDIO. Alla potenzia sua ogni cosa è suggetta. E non è maggior dolcezza che acquistare quel che si desidera in amore, senza il quale non è cosa alcuna perfetta né virtuosa né gentile.

FESSENIO. Non si può dir meglio.

POLINICO. Non è maggior vizio in un servo che l'adulazione. E tu lui ascolti? Lidio mio, attendi a me.

FESSENIO. Sí che gli è delicata robba!

POLINICO. Amore è simile al foco che, postovi sopra zolfo o altra trista cosa, amorba l'omo.

LIDIO. E, postovi incenso, aloe ed ambra, fa pure odore da resuscitare morti.

FESSENIO. Ah! ah! Col laccio che fece resta preso Polinico.

POLINICO. Ritorna, Lidio, alle cose laudabili.

FESSENIO. Laudabile è accomodarsi al tempo.

POLINICO. Laudabile è quel che è buono ed onesto. Te annunzio ci capiterai male.

FESSENIO. El profeta ha parlato.

POLINICO. Ricordoti che l'animo virtuoso non si muove per cupiditá.

FESSENIO. Né si leva per paura.

POLINICO. Tu pur male fai. E sai che gli è grande arroganzia sprezzare i consigli de' savi.

FESSENIO. Mentre che savio te intituli, matto ti battezzi perché tu pur sai che non è maggior pazzia che tentare quello che non può ottenersi.

POLINICO. Egli è meglio perdere dicendo il vero che vincere con le bugie.

FESSENIO. El vero dico io come tu. Ma non son giá un messer tutto-biasma come sei tu; che, per quattro cuius che tu hai, sí savio esser ti pare che credi che ogni altro, da te in fuora, sia una bestia. E non sei però Salamone; né consideri che una cosa al vecchio, una al giovane, una ne' pericoli e una nel riposo si conviene. Tu, che vecchio sei, la vita tieni che a lui ricordi. Lidio, che giovane è, lassa che le cose faccia da giovane. E tu al tempo ed a quel che piace a Lidio te accomoda.

POLINICO. Egli è ben vero che un padrone quanti ha piú servi tanti piú ha inimici. Costui ti conduce alle forche. E, quando mai altro mal non te ne avvenga, ne arai sempre tu rimordimento ne l'animo perché e' non è supplizio piú grave che la conscienzia delli errori commessi. E però lassa costei, Lidio.

LIDIO. Tanto lassar posso io costei quanto il corpo l'ombra.

POLINICO. Anzi, meglio faresti tu ad odiarla che a lassarla.

FESSENIO. Oh! oh! oh! Non puole il vitello e vuol che porti el bue!

POLINICO. Ella lasserá ben presto te, come da altri fia ricercata; ché le femine sono mutabili.

LIDIO. Oh! oh! oh! Non sono tutte d'una fatta.

POLINICO. Non son giá d'una apparienzia; ma sono ben tutte d'una natura.

LIDIO. Gran fallacia pigli.

POLINICO. O Lidio, leva el lume, che i volti veder non si possino, non è una differenzia al mondo da l'una all'altra. E sappi che a donna non si può credere, etiam poi che è morta.

FESSENIO. Costui fa meglio che or or non li ricordava.

POLINICO. Che?

FESSENIO. Te accommodi benissimo al tempo.

POLINICO. Anzi, dico bene il vero a Lidio.

FESSENIO. Piú sú sta mona luna!

POLINICO. In fine, che vuo' tu inferire?

FESSENIO. Voglio inferire che tu ti accommodi al viver d'oggi.

POLINICO. In che modo?

FESSENIO. Allo essere inimico delle donne, come è quasi ognuno in questa corte. E però ne dici male. E iniquamente fai.

LIDIO. Dice il vero Fessenio, perché laudar non si può quel che tu hai detto di loro: per ciò che sono quanto refrigerio e quanto bene ha il mondo e sanza le quali noi siamo disutili, inetti, duri e simili alle bestie.

FESSENIO. Che bisogna dir tanto? Non sappiam noi che le donne sono sí degne che oggi non è alcuno che non le vadi imitando e che volentieri, con l'animo e col corpo, femina non diventi?

POLINICO. Altra risposta non voglio darvi.

FESSENIO. Altro in contrario dir non sai.

POLINICO. Ricordo a te, Lidio, che gli è sempre da tôr via l'occasione del male e di nuovo ti conforto che tu voglia, per tuo bene, levarti da questi vani innamoramenti.

LIDIO. Polinico, e' non è cosa al mondo che manco riceva il consiglio o la operazione in contrario che lo amore; la cui natura è tale che piú tosto per se stesso consumar si può che per gli altrui ricordi tôrsi via. E però, se pensi levarmi dallo amore di costei, tu cerchi abracciar l'ombra e pigliare il vento con le reti.

POLINICO. E questo ben mi pesa: perché, dove esser solevi piú trattabile che cera, or piú ruvido mi pari che la piú alta rovere che si trovi. E sai tu come ell'è? Io ne lasserò il pensiero a te. E sappi che tu ci capiterai male.

LIDIO. Io nol credo. E se pur ciò fia, non m'hai tu nelle tue lezioni mostro che è gran laude morire in amore e che bel fin fa chi bene amando more?

POLINICO. Orsú! Fa' pure a tuo modo e di questa bestia qui. Presto presto potresti cognoscere con tuo danno li effetti d'amore.

FESSENIO. Fermati, o Polinico. Sai tu che effetti fa amore?

POLINICO. Che? bestia!

FESSENIO. Quelli del tartufo, che a' giovani fa rizzar la ventura e a' vecchi tirar coregge.

LIDIO. Ah! ah! ah!

POLINICO. Eh! Lidio, tu te ne ridi e sprezzi le parole mie? Piú non te ne parlo; e di te a te lasso il pensiero; e me ne vo.

FESSENIO. Col mal anno. Hai tu visto come e' finge il buono? Come se noi non cognoscessimo questo ipocrito poltrone! che ci ha tutti turbati in modo che io né narrare né tu ascoltar potremo certa bella cosa di Calandro.

LIDIO. Di', di'; ché con questa dolcezza leverem l'amaritudine che ci ha lassata Polinico.

SCENA III

LIDIO, FESSENIO servo.

LIDIO. Or parla.

FESSENIO. Calandro, marito di Fulvia tua amorosa e padrone mio posticcio, che castrone è e tu becco fai, mentre che tu, li dí passati, da donna vestito, Santilla chiamatoti, andato da Fulvia e tornato sei, credendo che tu donna sia, si è forte di te invaghito e pregatomi che io faccia sí che egli ottenga questa sua amorosa: la qual sei tu. Io ho finto averci fatta grande opera; gli ho data speranza di condurla, ancor oggi, alle voglie sue.

LIDIO. Questa è ben cosa da ridere. Ah! ah! ah! Ed or mi ricordo che, l'altro dí, tornando io da Fulvia in abito di donna, mi venne drieto un pezzo; ma non pensai che fusse per innamoramento. Si vuol mandarla innanzi.

FESSENIO. Ti servirò bene: lassa fare a me. Gli mostrerò di novo aver fatti miraculi per lui; e sta' sicuro, Lidio, che egli piú crederrá a me che io non dirò a lui. Gli do spesso ad intendere le piú scempie cose del mondo per ciò che gli è il piú sufficiente lavaceci che tu vedessi mai. Potrei mille sua castronarie raccontarti; ma, acciò che io non vada ogni particularitá narrandoti, egli ha in sé sí profonde sciocchezze che, se una sola di quelle fusse in Salamone, in Aristotele o in Seneca, averebben forza di guastare ogni lor senno, ogni lor sapienzia. E quello che sommamente mi fa ridere delli fatti suoi è che gli pare essere sí bello e sí piacevole che e' s'avisa che quante lo vedeno subito se innamorino di lui, come se altro piú bel fante di lui non si trovasse in questa terra. In fine, come il vulgo usa dire, se mangiasse fieno, sarebbe un bue; perché poco meglio è che Martino da Amelia o Giovan Manente. Onde facil ci fia, in questo suo amorazzo, condurlo a quel che noi piú vorremo.

LIDIO. Ah! ah! ah! Io sono per morir delle risa. Ma dimmi: credendo esso che io sia femina, e maschio essendo, quando esso fia da me, come anderá la cosa?

FESSENIO. Lassa pur questa cura a me, ché tutto ben si condurrá. Ma oh! oh! oh! Vedilo lá. Va' via, ché teco non mi veda.

SCENA IV

CALANDRO, FESSENIO servo.

CALANDRO. Fessenio!

FESSENIO. Chi mi chiama? Oh padrone!

CALANDRO. Or be', dimmi: che è di Santilla mia?

FESSENIO. Di' tu quel che è di Santilla?

CALANDRO. Sí.

FESSENIO. Non lo so bene. Pur io credo che di Santilla sia quella veste, la camicia che l'ha indosso, el grembiule, i guanti e le pianelle ancora.

CALANDRO. Che pianelle? che guanti? Imbriaco! Ti domandai, non di quello che è suo, ma come la stava.

FESSENIO. Ah! ah! ah! Come la stava vuoi saper tu?

CALANDRO. Messer sí.

FESSENIO. Quando poco fa la vidi, ella stava … aspetta! a sedere con la mano al volto; e, parlando io di te, intenta ascoltandomi, teneva gli occhi e la bocca aperta, con un poco di quella sua linguetta fuora, cosí.

CALANDRO. Tu m'hai risposto tanto a proposito quanto voglio. Ma lassiamo ire. Donque l'ascolta volentieri, eh?

FESSENIO. Come «ascolta»? Io l'ho giá acconcia in modo che fra poche ore tu arai lo attento tuo. Vuoi altro?

CALANDRO. Fessenio mio, buon per te.

FESSENIO. Cosí spero.

CALANDRO. Certo. Fessenio, aiutami; ch'io sto male.

FESSENIO. Oimè, padrone! Hai la febbre? Mostra.

CALANDRO. No. Oh! oh! Che febbre? Bufalo! Dico che Santilla m'ha concio male.

FESSENIO. T'ha battuto?

CALANDRO. Oh! oh! oh! Tu se' grosso! Dico ch'ella m'ha inamorato forte.

FESSENIO. Be', presto sarai da lei.

CALANDRO. Andiamo dunque da lei.

FESSENIO. Ci sono ancora di mali passi.

CALANDRO. Non ci perder tempo.

FESSENIO. Non dormirò.

CALANDRO. Fallo.

FESSENIO. El vedrai: ché or ora sarò qui con la risposta. Addio. Guarda lo gentile innamorato! Bel caso! Ah! ah! ah! D'un medesimo amante son morti la moglie e il marito. Oh! oh! oh! Vedi Samia serva di Fulvia che esce di casa. Alterata parmi; trama c'è. Ed essa sa il tutto. Da lei saperrò quel che in casa si fa.

SCENA V

FESSENIO servo, SAMIA serva.

FESSENIO. Samia! o Samia! Aspetta, Samia.

SAMIA. Oh! oh! Fessenio!

FESSENIO. Che si fa in casa?

SAMIA. A fé, non bene per la padrona.

FESSENIO. Che c'è?

SAMIA. La sta fresca.

FESSENIO. Che ha?

SAMIA. Non mel far dire.

FESSENIO. Che?

SAMIA. Troppa…

FESSENIO. Troppa che?

SAMIA. … rabbia di…

FESSENIO. Rabbia di che?

SAMIA. … trastullarsi con Lidio suo. Ha' lo inteso mò?

FESSENIO. Oh! Questo sapevo io come tu.

SAMIA. Tu non sai giá un'altra cosa.

FESSENIO. Che?

SAMIA. Che la mi manda a uno che fará fare a Lidio ciò che la vuole.

FESSENIO. In che modo?

SAMIA. Per via di canti.

FESSENIO. Di canti?

SAMIA. Messer sí.

FESSENIO. E chi sará questo musico?

SAMIA. Che vuoi tu fare di musico? Dico che vo a uno che lo fará amare, se crepasse.

FESSENIO. Chi è costui?

SAMIA. Ruffo negromante, che fa ciò che vuole.

FESSENIO. Come cosí?

SAMIA. Ha uno spirito favellario.

FESSENIO. Familiare, vuoi dir tu.

SAMIA. Non so ben dir queste parole. Basta che ben saprò dirgli che venga a madonna. Fatti con Dio. Vedi, olá! non ne parlare.

FESSENIO. Non dubitare. Addio.

SCENA VI

SAMIA serva, RUFFO negromante.

SAMIA. Egli è ancor sí buon'ora che Ruffo non sará ancor tornato a desinare. Meglio è guardare se in piazza fusse. Ed oh! oh! oh! ventura! Vedilo che va in lá. O Ruffo! o Ruffo! Non odi, Ruffo?

RUFFO. Io pur mi volto né vedo chi mi chiama.

SAMIA. Aspetta!

RUFFO. Chi è costei?

SAMIA. M'hai fatta tutta sudare.

RUFFO. Be', che vuoi?

SAMIA. La padrona mia ti prega che or ora tu vadi da lei.

RUFFO. Chi è la padrona tua?

SAMIA. Fulvia.

RUFFO. Donna di Calandro?

SAMIA. Quella, sí.

RUFFO. Che vuol da me?

SAMIA. Ella tel dirá.

RUFFO. Non sta lá su la piazza?

SAMIA. Ci son due passi. Andianne.

RUFFO. Vattene innanzi ed io drieto a te ne vengo. Sarebbe mai costei nel numero dell'altre scempie a credere che io sia negromante e abbia quello spirito che molte sciocche dicano? Non posso errare ad intendere quel che la vuole. Ed in casa sua me n'entro prima che qui arrivi colui che in qua viene.

SCENA VII

FESSENIO servo, CALANDRO.

FESSENIO. Or vedo ben che ancor li dèi hanno, come li mortali, del buffone. Ecco, Amore, che suole inviscare solo i cori gentili, s'è in Calandro pecora posto, che da lui non si parte; che ben mostra Cupido aver poca faccenda poi che entra in sí egregio babuasso. Ma il fa perché costui sia tra gli amanti come l'asino tra le scimie. E forse che non l'ha messo in bone mane? Ma la piuma è cascata nella pania.

CALANDRO. O Fessenio! Fessenio!

FESSENIO. Chi mi chiama? Oh padrone!

CALANDRO. Hai tu vista Santilla?

FESSENIO. Ho.

CALANDRO. Che te ne pare?

FESSENIO. Tu hai gusto. In fine, io credo che 'l fatto suo sia la piú sollazzevol cosa che si trovi in Maremma. Fa' ogni cosa per ottenerla.

CALANDRO. Io l'arò, se io dovessi andar nudo e scalzo.

FESSENIO. Imparate, amanti, questi bei detti.

CALANDRO. Se io l'ho mai, tutta me la mangerò.

FESSENIO. Mangiare? Ah! ah! Calandro, pietá di lei. Le fiere l'altre fiere mangiano; non gli omini le donne. Egli è ben vero che la donna si beve, non si mangia.

CALANDRO. Come! si beve?

FESSENIO. Si beve, sí.

CALANDRO. O in che modo?

FESSENIO. Nol sai?

CALANDRO. Non certo.

FESSENIO. Oh! Gran peccato che un tanto omo non sappi bere le donne!

CALANDRO. Deh! insegnami.

FESSENIO. Dirotti. Quando la baci, non la succi tu?

CALANDRO. Sí.

FESSENIO. E quando si beve, non si succia?

CALANDRO. Sí.

FESSENIO. Be'! Allora che, basciando, succi una donna, tu te la bevi.

CALANDRO. Parmi che sia cosí. Madesine! Ma pure io non mi ho mai beuto

Fulvia mia; e pure baciata l'ho mille volte.

FESSENIO. Oh! oh! oh! Tu non l'hai bevuta perché ancora essa ha baciato te e tanto di te ha succiato quanto tu di lei: per il che tu beuto lei non hai né ella te.

CALANDRO. Or vedo ben, Fessenio, che tu sei piú dotto che Orlando, perché per certo cosí è; ché io non baciai mai lei che ella non baciassi me.

FESSENIO. Oh! vedi tu se io il vero te dico?

CALANDRO. Ma dimmi: una spagnuola, che sempre mi baciava le mani, perché se le voleva ella bere?

FESSENIO. Bel secreto! Le spagnuole bacian le mani, non per amore che le ti portino né per bersi le mani, no; ma per succiarsi li anelli che si portano in dito.

CALANDRO. O Fessenio, Fessenio, tu sai piú secreti delle donne…

FESSENIO. Massime quelli della tua.

CALANDRO. … che un architetto.

FESSENIO. To' lá! Architetto, ah?

CALANDRO. Due anelli mi bevve quella spagnuola. Or io fo ben voto a Dio che io m'arò ben l'occhio di non esser beuto.

FESSENIO. E tu savio.

CALANDRO. Nissuna mi bacerá giá mai che lei non baci.

FESSENIO. Calandro, abbivi avvertenza; perché, se una ti bevesse il naso, una gota o un occhio, tu resteresti il piú brutto omo del mondo.

CALANDRO. Ci arò ben cura. Ma fa' pur che io abbi in braccio Santilla mia.

FESSENIO. Lassa fare a me. Voglio ire ad ultimare in un tratto la cosa.

CALANDRO. Cosí fa'. Ma presto.

FESSENIO. Non ho se none andar lá; da qua ad un poco, tornerò a te con la conclusione.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
31 июля 2017
Объем:
90 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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