(dalla destra) Eccellenza, sono venuti la signora Lola Bernardi e il signor Guidolfi.
(di dentro) Ma che cos'è quest'etichetta? Che novità stupide! Io posso entrare da per tutto. (Sulla soglia, voltandosi indietro) Tu no, tu non puoi.
(Il servo esce.)
(di dentro) Scusa, tu entri da per tutto perchè sei in casa del duca di Vallenza; ed io entro da per tutto perchè sono in casa di Livia Blanchardt. (Entrando e scorgendo Livia) Eccola lì, difatti. Ne avevo sentito l'odore.
Siete due blagueurs!
(va a stringere la mano a Livia.)
(è una donnina molto graziosa, dal viso capricciosetto, un po' avariato e un po' imbellettato. Ha una toilette ricca e gaia. Il suo décolleté rivela che la sua primavera tramonta.) (Corre verso il Duca.) Duchino mio, come stai? Da quanto tempo non ci vediamo! È un secolo! Hai fatto bene, sai, a invitarmi. Meriti un bacino e te lo do.
(a Livia:) Ed io lo do a te. (Sta per darglielo.)
(scansandosi) No.
Oh, oh! Che aria da duchessa!
(al Duca:) Ma come sei sciupato, duchino! Hai una faccia pallidissima, sai! Dunque non era un canard. Me lo avevano detto, sai, che eri stato tanto male.
Ho una malattia inguaribile, mia cara Lolotte.
Dio mio, quale?
Invecchio. (E siede come stanco.)
Che mi dici!! Invecchi?.. Livia, tu senti?.. E non lo smentisci?.. All'epoca mia, sai, io avrei potuto attestare della sua gioventù.
Aveva dodici anni di meno.
Ma tu sei pazzo! Io non l'ho mica conosciuto dodici anni fa. Dodici anni fa io portavo ancora le vesti corte, sai!
Sfido io: facevi la ballerina!
Avevo tredici anni ed ero una ragazzina onesta, capisci!
Onesta sei anche adesso, almeno con me. Non mi costi niente.
Dovresti vergognartene.
Io sono superiore a certi pregiudizi. E poi, visto che le donne si affaticano a diventare uomini, è giusto che gli uomini ne profittino per fare delle economie.
(è in disparte, biecamente assorta.)
Duchino, tu non la pensavi così. Sei ancora un galantuomo, tu, con le donne.
È lui che guasta la piazza!
(al Duca:) Se ti ripescassi, duchino?
(celiando) Tenta.
Per me, accomodatevi pure. Ma bisogna fare i conti con Livia Blanchardt.
Che ne dici, Livia?
Niente.
(al Duca:) È di cattivo umore?
(che sinora è stato con le spalle volte a Livia, torce il collo per vederla) Forse. (Nota l'atteggiamento pensoso e sinistro di lei.)
No, tutt'altro! Ascolto volentieri.
Sei proprio mutata, sai. Una volta eri più matta di me. Già, intendo. Oramai, è diverso. Anzi, a proposito, (al Duca e a Livia:) è poi vero che vi sposate? Dopo tutto, sarebbe una cosa di spirito.
Specialmente per lui!
A che ora si pranza?
Alle sette. Prendi un vermouth?
No, grazie.
E tu, Lolotte?
Nemmeno io. Prima di pranzo preferisco di fumare, per non avere appetito a tavola. Se mangio, ingrasso; e allora, come si fa?
Lassù ci sono delle sigarette.
No, no. Ne offro io a te. (Cava fuori un portasigarette e lo porge al Duca.) Sono deliziose.
(ne prende una.)
Gliele ha regalate a Nizza, Mister Colbin, ex Presidente degli Stati Uniti.
Quando è che gli Stati Uniti hanno avuto per Presidente un Colbin?
Mai; ma non importa. Nei viaggi che fa senza di me, Lolotte ha sempre l'occasione di respingere la corte di un re spodestato o di un ex presidente di repubblica. Lei me lo racconta e io mi guardo bene dal contraddirla. In fondo, ciò sodisfa il mio amor proprio.
Sei molto banale, sai.
Vieni qua, Lolotte. Di' a me: come è andata questa faccenda dell'ex Presidente degli Stati Uniti? (Le circonda la vita col braccio, e la fa sedere sul bracciolo della poltrona.)
Mister Colbin era un ex Presidente che mi faceva una corte spietata. Questa è la pura verità. Aveva una moglie splendida, sai. E quando io gli facevo osservare che sua moglie era un ostacolo, egli mi rispondeva di no, e diceva che, essendo io e lei di due generi diversi, l'uno non escludeva l'altro.
Ecco gli Stati Uniti!
(al Duca:) Ma io ritirai i ponti…
(rifacendola)… sai!
Lasciala parlare. (A Lolotte:) Perchè ritirasti i ponti?
Perchè di questa vitaccia ne ho abbastanza. A lungo andare, ci si stanca. Non è così, Livia?
È proprio così.
(torcendo il collo, nota di nuovo il contegno di Livia e un chiodo gli si mette nel cervello.)
Lolotte vuole maritarsi.
(con festevolezza) E avere dei bambini!
Una bella idea!
Perchè no? Io sarei una madre eccellente.
Non ne dubito. Ma, a trovarlo un marito!
Ti garantisco che lo trovo. Ho la mia dote, sai. E me la son fatta da me.
Questo è innegabile.
(a Guidolfi:) Io poi dico: sposala tu, giacchè il matrimonio sembra anche a te una cosa spiritosa.
Ah! Lui sì che vorrebbe.
Ebbene?
Sono io che non voglio. Sposarlo addirittura, sarebbe troppo!
Mi piacerebbe di sapere chi è che vuoi per marito.
Un uomo per bene.
Ma gli uomini per bene non sposano più neanche le fanciulle!
La mia amica Zizì d'Arnau non sposò forse un conte vero?
Che c'entra! Quello lì era un imbecille.
Ma un imbecille per bene, sai.
Il marito imbecille non fa a' casi tuoi. E la ragione è semplice. Tu hai questa particolarità: se l'uomo che ti sta accanto non si accorge delle infedeltà che gli commetti, tu sei profondamente infelice. Con me sei felicissima. Ma perchè? Perchè io me ne accorgo.
(alzandosi) Non sempre, sai!
(ride ostentatamente) Parola d'onore, siete più divertenti del solito.
(va alla finestra.)
Il che non impedisce alla duchessa… Livia di essere lugubre come non l'ho vista mai.
Non tormentarla. (Con finta credulità) In fondo, è preoccupata per la mia salute.
Preoccupata per la tua salute? Che gentile pensiero!
(in un falso tono di gaiezza) Vengono in comitiva tutti gli altri. Una vera carovana! Io vado, Paolo.
Sì, fate gli onori di casa intanto che io metto il frac (Si leva.) Vi raggiungo subito. E… compiacetevi, Livia, di ordinare che il pranzo sia servito alle sette precise. Guidolfi ha fame. (La segue con lo sguardo.)
(senza affrettarsi, esce dalla destra.)
(andando allegramente alla finestra) Vediamo chi altro hai invitato, duchino. (Guardando attraverso le invetriate, con uno scatto di entusiasmo) C'è anche Riccardo Dalgas! (In fretta, abbracciando il Duca) Duchino, tu sei un angelo! (Esce correndo dalla destra.)
(a Guidolfi:) E tu non vai? (È agitatissimo, impaziente, angosciosamente cogitabondo.)
(osservando dalla finestra gl'invitati che giungono, risponde al Duca.) Preferisco di arrivare dopo l'incontro di Dalgas e Lolotte. Che vuoi! Dalgas è il più timido dei miei rivali, ed io ho per lui una speciale considerazione.
(senza averlo ascoltato, ansimando) Fammi un favore, Guidolfi. Prega Livia di venire qui immediatamente.
Che hai?
Nulla, nulla. Non è altro che una curiosità… una semplice curiosità.
(esce.)
(Nelle stanze attigue, un po' di cicaleccio.)
(Come per difendersi dall'indiscrezione, chiude l'uscio di fondo con la chiave. Cerca di concretare il suo pensiero. Cerca di riflettere, e conclude fermamente:) Voglio sapere quello che nasconde nel suo silenzio!
Vi sentite male, Paolo?
(padroneggiandosi, scrutandola acutamente) Sì, appunto, mi era parso di non sentirmi bene!
Volete un medico?
No, grazie. Sto già meglio. E, in verità, non per questo vi ho fatto chiamare.
Avete da dirmi qualche cosa?
Precisamente!
Parlate, dunque! Ma presto, perchè di là ci aspettano, e…
Livia, io esigo che voi, guardandomi in faccia, rispondiate alla domanda che vi ho rivolta pocanzi!
(in tono dissimulatore) A quale domanda?
Quando qui, qui, dieci minuti fa, io vi ho parlato della tentazione di risparmiare a me stesso il martirio di un'agonia tremenda, mi avete voi esortato sinceramente a non affrettare la mia fine?
Sospettate in me un'impazienza infame!
Ebbene, disgraziatamente la sospetto! Siete voi che dovete liberarmi da questo incubo!
(furibonda) Non c'è nessun mezzo. Dalla vostra accusa brutale, io non debbo difendermi.
(incalzando) E potreste giurare in questo momento che voi mi augurate di vivere?!
(con uno scatto di fierezza crudele) Non è il mio augurio che può guarire il vostro spirito più malato del vostro corpo. Forse guarirete o crederete di guarire riprendendo quello che voi avete voluto darmi! Fatelo. Io non vi impedisco di cercare ancora vostra figlia. Ma non aspetterò che l'abbiate trovata. Me ne vado adesso! (Prendendo il suo mantello con gesto risoluto e violento) Addio!
(stranamente concitato, afferrandola per un braccio) Ah, no! Non mi lasciare! Io della tua malvagità raffinata non dubito più… Ne ho il convincimento, e ne gioisco! Tu hai avuto or ora l'audacia di giuocare tutto per tutto! Ed hai vinto. No, non cercherò più, non cercherò più mia figlia! Io scorgo in te lo strumento perfezionato della fatalità di cui sono stato il giocattolo e mi riprometto un piacere nuovo ed enorme: quello che inconsciamente ho invocato ed ho aspettato, quello che sarà l'ultimo gradino della mia abiezione: stringerti fra le braccia sentendomi dilaniare dal rimorso! (Traendola a sè e avvinghiandosi a lei in uno spasimo di ebbrezza morbosa) E quanto più ti comprendo, quanto più ti disprezzo, quanto più mi fai soffrire, quanto più mi fai paura, tanto più ti desidero e ti chiedo aiuto! Sii perfida! Sii mostruosa! Mi piaci così, e ti merito così! (Stringendola forte) Non mi lasciare!..
Sei mio, di', sei mio?!
Come un dannato!!
(Giungono delle voci graziosamente allegre e scherzose, appena distinguibili, attraverso l'uscio di fondo.)
È finito, sì o no, quest'idillio?
Ma si può vedere finalmente a occhio nudo questo Duca felice?
Duchino, io muoio d'invidia, sai!
Ed io muoio di fame!
(a Livia, staccandosi da lei:) Va!
(esce a destra.)
(Dopo un istante, si ode lieve, velata, come un'esclamazione corale) Oooh!
(lontanissima) A tavola, a tavola!
(barcollando, si toglie la giacca, prende il frac, va innanzi allo specchio. Appena infilato l'abito, porta la mano al cuore.) O Dio… Che cos'è questo?!.. Io soffoco… soffoco… (Gli manca il respiro. Gli manca la voce.) (Si sorregge a una sedia. Fa uno sforzo per gridare.) Aiuto… (La parola gli si spegne nella gola stretta.) (Ha come un lampo di chiaroveggenza. Balbetta:) Il testamento!.. A lei, no… no… no… (Cerca di trascinarsi fino alla scrivania. Ma, come le sue braccia si stendono e le sue mani si aggrappano al cassetto, egli è vinto dalla paralisi e cade pesantemente – morto.)
(Un po' di vocìo festoso giunge di nuovo a traverso l'uscio.)
L'abitazione di Nunzio e Paolina: una stamberga. È un pianterreno che potrebbe servire da stalla. Non una finestra, non uno spiraglio. L'aria entra soltanto dalla grande porta che si apre nel mezzo della parete in fondo. Il livello del pavimento è inferiore a quello della strada, sicchè dalla strada si accede scendendo un gradino. I muri sono screpolati e grommati di muffa. Il soffitto basso mostra le travi scoperte. Accosto alla parete destra, un letto per due persone, con le scranne di ferro senza spalliera. Verso il lato sinistro della stamberga, una tavolaccia, due o tre seggiole, una panchetta. A sinistra della porta, un cassettone con su una statuina di Madonna, dinanzi alla quale arde una bella lampada di ottone. Dalla stessa parte, nell'angolo, un focolaretto, con pochi utensili da cucina, in creta. L'altro angolo, a destra, è tutto nascosto da una gran cortina fatta di pannolini di diversi colori, qua e là rattoppati, la quale pende da una cordicella stesa in alto, di traverso, tra i due muri. Alla parete sinistra sono conficcati dei chiodi in modo che vi si possa appendere qualche cosa. La porta è tutta aperta. Si scorgono le finestre e i balconcini d'un vicoletto angusto e bieco, illuminato dalla poca luce che penetra tra i muri altissimi delle vecchie casupule accavalcate le une alle altre. Si vede, molto di rado, passare per il vicoletto qualche femminuccia del volgo affaccendata, qualche popolano, qualche figura indefinibile.
(Paolina veste un abito succinto, povero, scuro: scarpacce grosse e sporche: capelli ravviati con semplicità. È seduta sopra il letto, con le gambe penzoloni. – Nunzio le sta accanto, in piedi, col violino sotto il braccio, l'archetto in una mano, occupato ad insegnarle la canzone del «Passero sperduto».)
Le parole, prima di tutto. Le ricordi bene?
Sì. (Ripete monotonamente le parole della canzone senza intenderne abbastanza il significato e pur dando ad esse, involontariamente, una vaga tinta di mestizia.)
Un passero sperduto e abbandonato
su d'una casa bianca si posò.
Lì c'era un bambinello appena nato
che urlava tanto!.. E il passero tremò.
E, vinto dal timore, il poverino
fuggì da quella casa e dal bambino.
Andò a posarsi in mezzo a una foresta
tutta frescura e tutt'erba odorosa.
Lì vide un uomo, e poi… vide una vesta,
e il passero comprese qualche cosa.
Gli disse l'uom: Questa foresta è mia.
Il passero gettò due penne, e via!
(fa il gesto analogo.)
Più tardi si posò su di una chiesa
piena di fiori e piena di lacchè,
Un principe sposava una marchesa…
Piangevan tutti e due – chi sa perchè!
Il passero pensò: «Oh, che allegria!»…
(terminando insieme la strofa.)
E andò a cercare un'altra compagnia.
(non ricorda più, e tace.)
(dandole lo spunto.)
Allora si fermò…
Allora si fermò quand'ebbe scorta
una capanna sopra una montagna.
C'era lì dentro una vecchietta morta.
Ei mormorò: «Questa è la mia compagna.»
Entrò, si mise accanto alla dormente,
e vi rimase in pace, finalmente!
(facendo l'eco) «Finalmente.» Benissimo! Adesso vediamo se ricordi la musica.
La musica unita con le parole?
S'intende.
Ma falla tu pure col violino.
La faccio pure io. (Si mette in posizione per suonare.)
(discende dal letto, e, in un atteggiamento di riflessione, gli occhi rivolti in su, le mani unite sulla schiena, canta con la sua vocetta un po' tremula ma intonata e toccante, quasi macchinalmente, la prima strofa della canzone.)
(l'accompagna, all'unisono, col violino, portando la battuta col piede.)
(È un canto semplice e gentile: è una musica piana che semplicemente racconta.)
(cantando:)
Un passero sperduto e abbandonato
su d'una casa bianca si posò.
Lì c'era un bambinello appena nato
che urlava tanto!.. e il passero tremò.
E, vinto dal timore, il poverino
fuggì da quella casa e dal bambino3.
Lo vedi che va bene?
E come fa il ritornello?
Non c'è ritornello. Invece, a ogni strofetta, c'è la risposta del violino, che è dolce assai: dolce come se fosse una voce di consolazione per il povero passero vagabondo. Senti se ti piace. (Suona. La sua inesperienza non impedisce che le note della breve e lenta melodia si effondano teneramente soavi.)4
[Закрыть]
(quando si è perduta l'ultima nota, resta assorta, tacendo, quasi udisse ancora, nell'aria, la melodia.)
(animandosi) Come ti pare?
È bella.
(posando sul letto l'archetto ed il violino) E quando ti accompagnerai tu stessa con la chitarra, e quando io suonerò meglio di così, sentirai che effetto! (Con giocondità) La gente ce ne dovrà dare dei soldi!
Ma è difficile accompagnarsi con la chitarra.
A poco a poco, imparerai. Anche per me è ancora difficile suonare il violino. Ma per questo dobbiamo studiare. (Gaiamente) I maestri non mancano, perchè il maestro tuo sono io, e il maestro mio è l'orecchio. (Ridendo un po') E dànno lezione gratis tutt'e due.
La chitarra, intanto, ce l'ha mastro Giuseppe.
Ce l'ha per accomodarla. Era già così vecchia quando la comperammo!
Sì, ma dico: se l'è presa sin da stamattina. Aveva promesso di riportarcela in giornata.
Non avrà avuto ancora il tempo di venire. Andrò io da lui. Meglio che non venga.
Perchè?
No, per niente. Dammi, dammi il cappello e il bastone. Ci vado sùbito, anzi.
E solo vuoi andarci?
Che novità! Cammino rasentando il muro a destra, e piano piano ci arrivo. Oramai, sono pratico. E, d'altronde, è bene che mi abitui a camminar solo. (Come un'ombra gli passa sul volto.) Non si sa mai…
(va a prendere il bastone, che è in un angolo, e il cappello, che è appeso al muro.)
(attraversa la strada. Indugia un po' dinanzi alla porta e guarda dentro, tossendo lievemente.)
(le fa un gesto sgarbato, come per dirle: «vattene, non mi seccare».)
(si allontana.)
Chi è che tossiva presso la porta?
Non ho visto. (Gli si avvicina e posa sulla tavola il cappello e il bastone.)
Pensavo: quanti progressi abbiamo fatti da che fuggimmo insieme! Sette anni fa, io non potevo dare un passo nella strada senza che qualcuno mi conducesse. E tu! Che cosa eri allora? Eri cieca anche tu. Più cieca di me. E come eravamo perseguitati, maltrattati, battuti!
(ha un brivido per tutto il corpo.)
Che ne sarà stato di coloro che ci maltrattavano tanto? (Si stringe nelle spalle.)
(presa da un timor panico) Ci voglio venire anch'io da mastro Giuseppe.
No, Paolina, no… Quel vecchio è diventato non so come… E nella sua bottega, poi, si riuniscono sempre dei giovinastri impertinenti, che, quando mi vedono con te, mi punzecchiano, si divertono; e questo mi dà fastidio.
La sera andiamo per i caffè e per le osterie. Non è lo stesso?
Non è lo stesso. Se si burlano di me nei caffè e nelle osterie, non me lo fanno capire, perchè, in certo modo, ci devono rispettare. Eppure, da un certo tempo in qua, accade qualche cosa che non mi fa piacere.
Che accade?
Non so… ma, quando tu vai attorno col piattino per raccogliere i soldi dagli avventori, io mi mortifico… E in quel momento vorrei poter suonare cento chitarre e cento violini insieme per farmene rintronare il suono nelle orecchie.
(abbassa gli occhi, e sente come se le si piegassero le ginocchia.)
Sì, Paolina… quella notte, sette anni fa, prima che noi ci decidessimo a fuggire, tu mi dicesti una bugia.
(sinceramente) Che bugia ti dissi?
Io ti domandai: «Come sei tu, Paolina? Come sei?» E tu mi rispondesti: «Io sono brutta.» (Breve pausa.) Non era vero. (La cerca con le mani.)
(gli si avvicina per farsi trovare.)
(le tocca la fronte, gli occhi, i capelli, le guance, le labbra. Indi, con dolcezza:) Non era vero. Io me ne sono accorto da un pezzo. E se pure non me ne fossi accorto io stesso? La sera, appunto come ti dicevo, quando vai attorno, io capisco, capisco tutto, e afferro ora un mormorìo, ora un complimento, ora una celia… E poi, già, è inutile: io lo sento nell'aria, ecco, lo sento nell'aria!..
(con le lacrime agli occhi e il pianto nella gola) Che colpa ne ho io se non sono tanto brutta come credevo di essere?
Che colpa? Non si tratta di colpa. Anzi. E se potessi togliermi dagli occhi questa cortina nera almeno per un momento, almeno per vederti una volta sola, io sarei felice di trovarti diversa da come mi avevi detto e te ne ringrazierei anche, perchè di quel solo momento io riempirei tutto il ricordo degli anni in cui non sei stata che mia!
E dunque?
Ma io ho parlato d'un miracolo che non posso fare; e, se tu sei bella, Paolina… questo bene non sarà mai per me. (Pausa.) (Egli prende di su la tavola il cappello ed il bastone.)
(interdetta, confusa, vorrebbe protestare e non ne ha il coraggio, nè la chiaroveggenza. Con gli occhi bassi, gli sguardi erranti, le mani aggrappate tra loro, si torce le dita cercando qualche parola e qualche idea.)
(continuando) Purtroppo, se tu sei bella, un giorno o l'altro, te ne andrai. Te ne andrai per la tua via. Io sono il tuo destino… e io stesso te l'avrò preparata. Ma non la conosco. Non la vedo. Te ne andrai, e sarà giusto. Tanto, adesso, sono in condizioni di poter tirare avanti la vita da me. Questo, te l'assicuro. Ma – giacchè siamo a tale discorso – io ti chiedo un favore. Quando starai per andartene, non me lo dire. No, perchè, naturalmente, anche non volendo, io riuscirei a trattenerti, e ti farei forse del male, o crederei di fartene, e ne avrei uno scrupolo di coscienza sino alla morte. No, non me lo dire, Paolina. Soltanto, affinchè io non ti aspetti tante ore, tante ore, inutilmente, con una vana speranza nel cuore, sai in che modo devi avvertirmi?.. Come il vento smorzò la candela – ti ricordi? – nella notte in cui fuggimmo insieme, così tu, prima d'andartene, smorzerai quella lampada dinanzi alla Madonna… Sempre che tu non sei in casa, io ho l'abitudine di accostarmi molte volte a lei, e sento sulla faccia il calore della lampada accesa. Ebbene, quando non sentirò più quel calore, io penserò: «Se n'è andata!» (Le lacrime gli rigano il volto. Si mette il cappello e, facendo precedere ai piedi la punta del bastone, lentamente esce.)