(Buio e silenzio. – Di tanto in tanto, il vento fischia sinistramente.)
(resta un poco raggomitolata sulla pedana. Le viene un'idea. Cerca fra gli stracci che la coprono. Ne cava qualche fiammifero. Ne accende uno. Guarda attorno. Scorge sul comptoir il mozzicone di stearica. Camminando con circospezione va ad accenderlo. Poi si arrampica sul comptoir. Stende un braccio. Prende un pasticcino.)
(appare nel vano della porticina del retrobottega. Più col fiato che con la voce, chiama:) Paolina!
(sussultando) Chi è?
Sono io: il cieco.
(distinguendolo appena tra le ombre) Quello che suona il pianoforte?
Sì. Che facevi? Che fai?
Non parlare, oh!, che ci sentono.
(percorrendo il cammino che conosce, sino alla pedana, aguzza l'udito con curiosità.)
(leggera e guardinga, discende dal comptoir.)
Che fai?
(contemplando il pasticcino) Non si saranno ancora addormentati. Taci.
C'è il vento che urla e fa anche brontolare le invetriate. Se parliamo ben sottovoce, coi rumori che ci sono nell'aria, non ci possono udire. Io però, poco fa, ho udito.
Non dormivi?
Dormivo… per obbedienza; ma le orecchie vegliavano.
(contempla ancora il pasticcino.)
All'alba, tornerà quell'uomo e dovrai parlare.
Non parlerò.
Ti stritolerà, ti strapperà le carni di dosso.
Se parlassi, sarebbe forse peggio, perchè Ignazio Tucci me la farebbe pagare.
Già!
Intanto, per questa notte sono al caldo come te.
Eh!
(addenta il pasticcino.)
E le altre notti, vai alla locanda?
(prima di parlare, inghiotte il boccone.) Alla locanda non mi ricevono. (Addenta ancora.)
Perchè?
Perchè sono minorenne. Hanno paura.
Che mangi?
Pane.
Chi te l'ha dato?
Ho comprato un soldo di pane.
No. Tu mangi una cosa buona. Un pasticcino. Lo hai rubato al mio padrone?
(supplicando) Non glielo dire, non glielo dire!
Non glielo dico.
(piena di sdegno pettegolo) Io ti ho tolto dalla miseria, spudoratissima baldracca!
Non vedo l'ora di lasciare questo buco che puzza di muffa!
Vattene! Vattene!
E senza di me, puoi chiudere bottega!
Vattene!
Vecchio imbecillito!
Donna fetidissima!
(tutta smarrita) Madonna mia! Come facciamo? Adesso discenderà la signora!
(a voce bassissima) Non temere. Non se ne va mai. Fanno quasi ogni notte così. (Un silenzio.) Ecco: è finito. (Un silenzio.) Vieni qua. Accòstati più vicino.
(con incosciente disdegno) Che vuoi?
Niente voglio. Che ho da volere? Discorriamo un poco. (Siede sulla pedana.)
(accostandosi) Qua sono.
Dimmi una cosa. Tu, come sei?
(senza capire) Come sono!?
Dico: come sei? Sei bella, o sei brutta?
Non so.
Non sai? Non ci avrai mai pensato, questo sì. Ma pensaci ora. Guardati nello specchio. Come ti pare di essere?
(attraverso le ombre si guarda un po' nello specchio, di sbieco.) Brutta.
(col viso irradiato) Ah? (Riflette.) Ma… (esita) la mamma tua, Maria Fiore, non era brutta come te.
Che domande! Lei non poteva essere brutta. E che te ne importa di sapere come sono io? Tu non mi vedi.
Appunto per questo.
E ti dispiace quello che hai saputo?
No, no, anzi! (Pausa.) Di': ti ha fatto molto male quell'uomo quando ti ha battuta?
Sì, sento come se mi avesse rotte le ossa.
Anch'io, qualche volta, l'ho provato.
E chi è che ti batte?
Il padrone.
E il padrone non è papà tuo?
No.
(siede sulla pedana accanto a lui.)
Egli dice che la sua prima moglie mi prese all'ospizio dei trovatelli, perchè aveva fatto un voto. Tu già, non sai che cos'è l'ospizio dei trovatelli… E non è necessario di saperlo. Io, intanto, non credo a quello che dice il padrone. Io credo, invece, che la sua prima moglie era la mamma mia, prima che egli la conoscesse. Essa aveva una religione diversa dalla nostra. Come poteva fare questo voto? Dunque, il padrone, quando io era bambino, mi nudriva bene, mi faceva studiare, perchè egli sperava che io poi, diventando istruito, lo arricchissi. Ma, a dodici anni, io perdetti la vista, e allora egli maledisse il denaro che aveva speso e cominciò a trattarmi peggio di un cane rognoso. Per fortuna, mi era piaciuta la musica. Avevo imparato a pestare il pianoforte, chè un pianoforte, nel suo caffè, ci è sempre stato. E così, anche cieco, io gli sono stato utile. Per me, il padrone risparmia più di cinque lire al giorno. E questa è la ragione per cui mi tengono qui a forza, come uno schiavo, come una macchinetta. Mi capisci tu? (Pausa.) No, non mi capisci.
(un po' intontita) Almeno, tu mangi.
Meglio non mangiare che vivere come vivo io.
Perchè perdesti la vista?
Eh, la perdetti! Ci sono tanti malanni! Dicono che certe volte il figlio ha i malanni del padre. E dicono pure che il figlio può scontare i peccati del padre. Chi sa poi chi era mio padre!.. (Pausa.) Tu lo sai chi era il tuo?
Mamma mia mi diceva che era un signore: un signore nobile.
(con un accento di serenità semplice ed ascetico) La verità è soltanto sotto gli occhi di Dio. (Pensa. Si gratta in capo. Esita. Indi, in uno stato di latente concitazione, si decide) Paolina, mi è venuto un pensiero.
Che pensiero?
Ti faccio una proposta. Vuoi venire con me?
Dove?
Dove! Il più lontano che sia possibile. In un altro quartiere della città… Magari in un'altra città addirittura… Lontano dai miei padroni, lontano da Ignazio Tucci, lontano da quell'uomo che t'ha battuta, lontano, insomma, da tutti quelli che ci stanno addosso come il lupo sulle pecore. Io ho fatto cento progetti; ma, solo, non ho potuto, e non potrei. E da quando ho udito che quell'uomo sarebbe tornato all'alba, io ho cominciato a pensare che potremmo fuggire tu ed io insieme. In due sarebbe tutt'altro! (Animandosi molto) Senti, senti, Paolina… In due, noi ci aiuteremmo scambievolmente. Tu mi condurresti per mano finchè io non avessi imparato a camminare col bastone come fanno i ciechi che non sono schiavi di nessuno, e mi assisteresti sempre un poco, ed io assisterei te ed anche t'insegnerei qualche cosa. T'insegnerei… t'insegnerei, per esempio, a cantare. Insieme, vedi, andremmo in giro per guadagnarci il pane, e, se proprio avessimo la mala sorte, insieme chiederemmo l'elemosina. Non ti pare un bel progetto questo? (Pausa.) Che rispondi?
(stordita, senza rendersi conto di niente) E mi vorresti poi bene, tu?
Io ti vorrei bene, perchè tu saresti per me… quello che per gli altri è la vista degli occhi.
E tu per me che saresti?
(con una strana dolcezza nella voce) Il destino è cieco come sono io. E dunque io sarei il tuo destino. Non mi capisci?
No.
E che rispondi?
(semplicemente) Sì, andiamo. (Si alza.)
(con gioia) Davvero?
Ma sùbito, perchè più tardi potremmo essere afferrati!
(alzandosi anche lui) Sì, sì, sùbito! Hai ragione. Coraggio! Sùbito!
E come si esce? La porta è chiusa con la chiave.
(misteriosamente) Io ho una chiave nascosta. Il padrone ne aveva due: una per lui, un'altra per la signora. Riuscii a rubarne una. La speranza di potermene servire l'ho avuta sempre. Il momento è giunto… Sia ringraziato il Signore! (Fruga sotto il panciotto, ne cava una chiave.) Piglia.
(Prende la chiave.)
Aspetta. (Resta intento a origliare. Pausa.) Essi dormono.
E se non dormono?
Dormono. Attraverso il soffitto odo bene il respiro affannoso del loro sonno. Apri piano piano.
(ficca la chiave nella serratura.)
Sai fare?
Sì. (Apre un po' l'uscio.) Come piove! (Guarda il cielo.)
(Il vento tace. Si ode il rumor cupo della pioggia e il gorgoglìo della lava sul lastricato. Lampeggia un poco.)
E il vento ha rotto il fanale dirimpetto.
Sotto la scansia, dove hai preso il pasticcino, deve esserci il mio cappello.
Va bene. (Trova il cappello, e va a darglielo.)
(Una ventata smorza la candela. Il buio fitto invade la bottega. La strada è nera. In questo momento, nessun lampo.)
Ohè! La candela si è smorzata. Io non vedo più niente.
(con un certo orgoglio) Fino alla strada, ti conduco io. (Le piglia la mano e la conduce lentissimamente. Arrivano alla porta.)
(Adesso, al chiarore d'un lampo succede lo scroscio d'un tuono. L'acqua cade a torrenti.)
Il boudoir intimo del duca di Vallenza. Un'impronta di raffinatezza aristocratica nella eleganza e nel comfort. Una dormeuse, delle sedie a sdraio, delle poltrone. Verso il lato sinistro della stanza, un grande specchio da toilette. Verso il lato destro, uno scrittoio civettuolo, ma ben solido. Alla parete di fondo, un'ampia porta a due battenti. Alla parete destra, un'altra porta. Alla parete opposta, un flnestrone, molto visibile. Ninnoli, fiori, cimelii dappertutto.
(È l'ora del tramonto. La porta in fondo è spalancata. Si vede un fumoir e, dopo il fumoir, una sala da pranzo. La tavola è imbandita per molti commensali. Qualche cameriere vi si aggira intorno, apparecchiando.)
(Il duca è seduto dinanzi allo specchio con sulle spalle quella specie di accappatoio di lino bianco che i parrucchieri fanno adoperare per la toilette. Egli è pallido, sofferente, di una sofferenza indeterminabile, piena di malinconia dissimulata. Ha i calzoni e il panciotto dell'abito nero, colletto all'ultima moda, cravatta bianca, e indossa una giacca da camera, molto semplice e di buon gusto. Il parrucchiere, atteggiato a devozione untuosa, lo pettina assai accuratamente. Il cameriere Beppe – capelli grigi, brevi fedine, in frac, ma non in livrea: figura di cameriere esperto e correttissimo – resta in fondo alla scena, diritto, a ricevere ordini.)
(dopo un lungo silenzio, pettinando) Eppure, Eccellenza, poco fa mi sono sbagliato. Adesso ricordo bene. La tintura che adoperava il conte Argenti, buon'anima sua, non era francese, era americana. Tintura… (pronunziando la parola come è scritta) Milley.
Si pronunzia Millé, non Millei.
Eccellenza, io poi non conosco la lingua… americana. Era una tintura ottima. E si disse che la tintura lo aveva fatto impazzire. Ma tutte storie inventate per scansare la concorrenza. Il primo flacon lo portò lui stesso, il signor conte, da Nuova York, quando si decise a tingersi i capelli.
Lui si tingeva anche prima.
E da quanto tempo, Eccellenza?
Che so? Quello lì era nato tinto.
(ride) Ah, ah, ah!.. E morì tinto! Egli fece chiamare il suo parrucchiere tre ore prima di morire.
(pigramente) Fece bene. Provvide a parer bello anche sul cataletto.
(ride) Ah, ah, ah! (Pausa.) (Indi, serio) E Vostra Eccellenza non penserebbe a…
A che? A morire?
Vostra Eccellenza deve campare mill'anni! (Abbassando un po' la voce) Volevo dire che… per questi pochi capelli bianchi si potrebbe…
Pochi?
Pochissimi.
Va là che sono parecchi.
Io avrei da proporre a Vostra Eccellenza…
Lascia andare. Non sono i capelli bianchi che mi dànno noia. Altro che capelli bianchi!
Vostra Eccellenza vuole scherzare. La malattia di questi giorni è stata una cosa da nulla. Oggi Vostra Eccellenza sta benissimo. Ha una cera di giovinotto!..
Sì sì. (Cava di tasca un portasigarette e ne piglia una.) Beppe, un po' di fuoco.
(prende un cerino da un portafiammiferi e rispettosamente glielo porge acceso.)
(zelantissimo, mette fuori contemporaneamente la sua scatoletta di cerini e ne accende uno.)
(si serve del cerino portatogli da Beppe, e caccia il fumo dal naso.)
(dopo aver dato un ultimo colpo di spazzola ai capelli del duca, gli toglie di dosso l'accappatoio.) Servito, signor Duca.
Beppe, il frac.
(prende l'accappatoio ed esce a sinistra.)
(in livrea stringata, entra dalla porta a destra.) Eccellenza, c'è l'avvocato Bartoletti.
Venga, venga. Fallo entrare qui.
(quasi timidamente) E c'è anche il sarto.
A quest'ora viene il sarto?
Aspetta da un pezzo, Eccellenza.
Perchè non me l'hai detto?
Ecco… io l'ho annunziato, ma…
(turbandosi un po') È vero, sì… Non me ne ricordavo… Entri anche il sarto.
(esce.)
Ha comandi da darmi il signor Duca?
No.
Servo, Eccellenza. (Striscia una riverenza, e via dalla destra.)
(rientra col frac.)
Metti lassù, e va di là.
(pone il frac sopra una sedia e sta per andare.)
Ehi, Beppe! Verrà la signora Blanchardt. L'aspetto qui, e non c'è bisogno di annunziarla. Gli altri, nel salottino Pompadour. E chiudi quella porta.
(s'inchina ed esce dal fondo, chiudendo.)
(introduce prima l'avvocato Bartoletti, poi il sarto, e va via.)
(porta sul braccio della roba avvolta in un panno scuro.)
(un uomo sui sessantacinque anni, dall'aspetto severo e dignitoso) Sono ai suoi ordini, Duca.
Grazie, caro Bartoletti.
Ho ricevuto stamane la sua lettera con quel foglio… e i documenti espositivi che ella ha creduto utile mandarmi, e naturalmente l'ho servita senza por tempo in mezzo. Tuttavia…
Un momentino, se non vi dispiace.
Prego. (Riordina e leggiucchia qua e là alcune carte che ha in mano.)
(al sarto:) Cosa c'è?
Il paletot, Eccellenza.
Quale paletot?
Lo provammo una sola volta, Eccellenza, prima della sua malattia.
(turbandosi di nuovo) Ah… già!
L'ho terminato.
Potevate consegnarlo al mio cameriere.
Se il signor Duca permette, io vorrei rivederglielo un po' addosso.
Come vi piace. (Sbottona la giacca per togliersela.)
Tenga questa giacca, Eccellenza. Possiamo provare benissimo.
(parla con Bartoletti, mentre il sarto gl'infila il paletot e mentre dinanzi allo specchio glielo aggiusta sul corpo e glielo guarda da tutti i lati) Dunque, avvocato, io non devo abusare del vostro tempo. Diciamo subito quello che è necessario. Io vi ho incomodato perchè il Codice non lo conosco che ad orecchio e (con un lieve sorriso) temevo che la forma della mia prosa non fosse abbastanza esplicita e non escludesse con certezza gli equivoci e le contestazioni.
Io ho letto mal volentieri, ma attentamente… (guardando, il sarto, esita.)
Parlate pure.
(continuando)… le sue… disposizioni testamentarie.
Perchè poi mal volentieri?
Prima di tutto perchè quella dei testamenti non è la lettura che io preferisco, specie se ne sono autori persone per le quali nutro una devota amicizia…
Che idee!
E anche perchè, francamente, quella decisione mi è parsa una… come ho da dire?
Le va, Eccellenza, questa larghezza di petto? C'è dello chic, ma forse è un po' troppa.
(dandogli retta per ostentazione) No, no, non è troppa. Piuttosto, quelle spalle… non so…
Ma ecco: il signor Duca, oggi, si curva un tantino. Non è la sua abitudine. Se ha la pazienza di stare diritto…
(subito si drizza.)
Lo vede? Non c'è più niente.
Difatti, mi curvavo un poco. Ora, va perfettamente.
Eppure, dico la verità, non è di mia piena sodisfazione. E (togliendogli il paletot) se il signor Duca mi concede ancora qualche minuto, gliene vorrei mostrare un altro che ho imbastito.
Ho ordinato anche questo?
No, ma avendo ricevuto in questi giorni dalla Casa Scholt di Londra un overcoat per campione, io mi son detto: voglio tagliarne uno identico per il signor Duca. Che se poi non le piacesse…
(stanco di stare in piedi e distratto) Vediamo. (Siede.)
Vuole che torni domani?
No. Perchè? (Si alza.) (A Bartoletti:) Dunque, dicevamo, vi è parsa proprio una stravaganza la mia decisione? Cioè, voi stavate per chiamarla… una follia.
Non lo nego. Del resto, c'è sempre tempo di distruggere una carta.
(sottolineando tristemente) Sempre, no.
(infilandogli l'overcoat imbastito, col bavero provvisorio di fodera) È un modello di una eleganza straordinaria. Guardi come veste!
(a Bartoletti:) E dite, avvocato, avete fatto delle modificazioni o era tutto in regola?
(fa dei segni col talco sul dorso, presso il bavero.)
Ho soltanto scritte qui (mostrando un foglietto) due clausole da aggiungere in ultimo, per maggiore chiarezza.
(stendendo la mano verso Bartoletti, che è alle sue spalle) Volete compiacervi?
(gli porge il foglietto.)
(lo prende e legge.)
E ripongo sullo scrittoio i documenti riguardanti la tenuta di Sant'Angelo, che ho consultati. (Esegue.)
Voglio che la spalla faccia questo. (Pizzica l'abito sulla spalla come per esperimentare la correzione.) Il resto, non lo tocco. Sarà molto inglese. Ha nulla da osservare il signor Duca?
No.
(comincia a levargli di dosso l'overcoat. Tira la manica sinistra. E poi, avendo il Duca nella mano dell'altro braccio il foglietto che legge, il Sarto aspetta.)
(se ne accorge, passa il foglietto alla mano sinistra, e, continuando a leggere, commenta:) Così è chiarissimo.
(tirando l'altra manica) Per dopo domani sarà pronto. Valgo a servirla, signor Duca?
Addio.
I miei rispetti… (Portando via l'abito imbastito, esce a destra.)
(a Bartoletti, sorridendo:) Me l'avete sempre storpiato il nome di Livia Blanchardt.
Non l'ho fatto apposta. Vuol dire… che questo nome non era molto simpatico alla mia penna.
La vostra penna ha avuto torto, perchè Livia Blanchardt è una donna deliziosa.
Evidentemente.
Dunque, non mi resta a fare altro che copiare queste due clausole…
E firmare.
Niente notai?
Per il testamento olografo non ce n'è bisogno. Il testatore può conservare egli stesso il suo testamento. E sarà bene fare così. Avendolo sott'occhio, le sarà più facile di distruggerlo. Le auguro… di averne l'ispirazione.
(freddamente) Intanto… io copio e firmo. (L'aria si è man mano rabbuiata. Egli volta la chiavetta della luce elettrica e due o tre lampadine risplendono. Siede presso la piccola scrivania e si accinge a scrivere.)
Pare che abbia fretta la signora Livia Blanchardt.
Ho fretta io, mio caro avvocato. (Scrive.)
(lo contempla, scrollando il capo.)