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Читать книгу: «Novelle e riviste drammatiche», страница 8

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Spesso quando Ambra esciva dal bagno, io, chiamato da essa, accorrevo. La trovavo seduta sulla sponda della vasca, avviluppata in una tunica scarlatta di finissima lana. Nella camera vaporavano ancora i caldi fumi dell'acqua. Il sole del meriggio filtrava attraverso le tende di seta gialla e illuminava un pezzo di sapone opalino che appena estratto dal lavacro scivolava da sé, lentamente, sui gradini di marmo del bagno, come una cosa viva. Io, senza dir parola, poiché già sapevo a quale ufficio ero chiamato, cercavo sotto allo specchio una lima d'argento e una piccola cesoia e un pezzo di pomice e una fiala d'olio odorifero; poi m'inginocchiavo davanti la bella andalusa e pigliavo nelle mie mani i suoi piedini nudi e in un soffice lino li asciugavo ben bene, con quella cura con la quale un intagliatore d'avorio terge i suoi ninnoli preziosi. Indi collocavo sul mio naso un paio d'occhiali da presbite che serbavo esclusivamente per l'opera a cui stavo per accingermi, acciocché la mia vista, meravigliosamente acuta per discernere da lungi, ma sulle minute vicinanze un po' fiacca, non avesse a tradirmi. Essa allora rideva d'un ridere represso da bimba e mi sporgeva il suo piede più asciutto, sul quale io incominciavo il mio lavoro di cesello e d'intaglio, che nessun testimonio profano turbava. Ho ancora impresse nella memoria una ad una le unghiette di quei piedi incantevoli. Nell'ovale di ciascuna d'esse io ravvisavo una certa vaga espressione di volto; la più leggiadra era quella del quarto dito del piede sinistro; i pollici robusti brillavano come un fulgido quarzo; su' due mignoli apparivano due unghiettine, vaghe cornee dilicate così che era un intenerimento a vederle, benché avessero un poco la curva di due artiglieri nascenti. Io limavo, levigavo, tornivo, arrotondavo quelle opale, quelle madreperle con tocco leggiero e devoto. Ambra di nessun altro si fidava fuorché di me in quella operazione paziente, e ciò venne da un giorno che mi vide, per mio sollazzo, scolpire sull'avorio alla maniera dei nostri diligenti artefici. Io di questa fiducia sua me ne stavo orgoglioso. Il mio fido Gin m'accompagnava quasi sempre. Mentre io lavoravo essa accarezzava il cagnetto chinese che io le avevo donato e che teneva assai caro, accoccolato nei tiepidi lini del bel grembo. Sotto la sua tunica scarlatta Ambra non aveva altre vesti, e a volte, mentre le mie mani erravano da un all'altro dei sottili ordegni coi quali abbellivo i piedi dell'andalusa, il mio sguardo si smarriva un po' più alto degli alabastrini malleoli, nella rosea penombra delle carni colorate dalla intonazione calda delle pieghe vagamente succinte.

Il mio cuore batteva allora violento, gaio come un applauso interno, e lo era, perché io trionfavo segretamente di coloro che credevano beffarmi.

Quando, compiuto il lavoro, mi sollevavo da terra e mi rimettevo sui calcagni (io che pur sapevo resistere per molti minuti penzolante col capo in giù dall'alto d'un trapezio, senza temer vertigini), sentivo in quel momento alla tempia ed al petto un subbuglio di sangue così impetuoso che mi faceva traballare.

Un giorno che m'ero appena quetato da questo turbinio delle arterie e m'avviavo alla porta della camera per escire (Gin mi seguiva passo passo), incontrai Ramàr sulla soglia, che entrava. Io evitai, non so perché, di fissarlo nel volto. Ad un tratto il mio bull-dog ruggendo gli si avventò al petto come una fiera; un mio comando bastò a salvare Ramàr, che con un bel sorriso sulle labbra corse a tranquillare Ambra sgomenta. Io percossi il cane, che mi guardò con uno sguardo di disapprovazione sommessa, e li lasciammo soli. Mentre m'allontanavo udii Ramàr mormorare ad Ambra quel proverbio spagnuolo che dice: tal padrone tal cane, e ciò mi dispiacque e biasimai nel mio interno l'amico d'aver mormorato alla sua bella una malignità a mio riguardo che sentivo di non meritare. Gin mugolava ai miei piedi dimenando la testa come un muto che cerca ansiosamente la parola. Il bull-dog prima d'allora non s'era mai mostrato ostile allo zingaro e tanta repentina ira non poteva spiegarsi senza una causa. L'istinto meraviglioso del cane aveva visto qualche indubbio segno di malevolenza verso di me nello sguardo dello zingaro. Promisi a me stesso di studiare l'occhio di Ramàr e di trar vantaggio dall'avvertimento della povera bestia, poiché il filosofo dice: – Se ascoltate attentamente le parole d'un uomo e se scrutate le pupille de' suoi occhi, come mai potrebb'egli celarsi a voi?

Da quel giorno Ramàr non poté più penetrar nella camera d'Ambra senza rischio per via della guardia del cane e de' suoi latrati che attiravano gente con grande ira dello zingaro e soddisfazione di William Wood.

Avvenne poco tempo dopo ch'io, nell'escir dalla mia camera più tardi del consueto e nell'avviarmi col bull-dog ai trapezi per le esercitazioni del mattino, m'imbattei in un gruppo di dieci o dodici compagni, fra i quali scorsi Ramàr. Ridevano tutti sguaiatamente; ma quando mi videro da lungi, si ricomposero e parvero proseguire una animatissima conversazione in cui ripetevasi spesso la parola "scommessa". Come fui loro d'accosto, Ramàr con piglio allegrissimo mi disse:

– Señora Yao, capiti appuntino. C'è qui Flibbertigibbet (e accennò il clown inglese) che non istima abbastanza il tuo cane.

– Salta lungo, ma non salta alto, – aggiunse strillando il clown.

– Flibbertigibbet scommette che a tre metri d'altezza Gin non coglierebbe un pezzo di lardo, – soggiunse Ramàr.

– Distinguo. Non ho detto un pezzo di lardo, – replicò il clown; – ho detto un pezzo di pane.

Questo "distinguo" sottile fece ridere la comitiva, e lo zingaro ripigliò:

– Vada pel pezzo di pane! Io scommetto un dollaro che Gin a tre metri d'altezza lo coglie, se è Yao stesso che glielo porge.

– Non ne dubito, – dissi io.

– All right! Dollaro per dollaro, acconsento alla scommessa. Dov'è il pane? – gridò il clown.

– L'ho qui io, – rispose Ramàr, estraendo una mollica informe dalla sua tasca. Io presi il pane, salii su d'un tavolato. Flibbertigibbet in quattro salti corse a provvedersi d'un metro, misurò lo spazio stabilito dalla terra alla mia mano. Tutti mi stavano d'attorno con certe faccie stranamente immobilizzate in un bizzarro sorriso. Io gridai: – Gin, hop! – e il buon dog spiccò un salto e colse il pane mirabilmente bene e lo ingoiò tutto lieto come per ricompensa a se stesso della fatica fatta.

All'indomani mattina, quand'io mi destai, trovai il mio povero Gin morto; una gomma verdastra gli esciva dalle nari. Allora mi sovvenne di non aver visto Flibbertigibbet pagare il prezzo della scommessa a Ramàr, e mi ricordai dello sghignazzo infernale che scoppiò nella comitiva quando Gin inghiottò il pezzo di pane. Infamia! m'avevano avvelenato il mio dog, e Ramàr aveva posto nelle mie stesse mani il veleno. Quando riconobbi ciò, lo sdegno mio fu così violento che in sulle prime soffocò il dolore. Poi piansi amaramente. L'alba spuntava appena; tutti dormivano. Raccolsi il cadavere del mio povero Gin e scesi nell'arena. Là, sotto al mio trapezio, scavai una fossa e seppellii la povera bestia; poscia rassettai diligentemente la sabbia dorata sulla sepoltura e ripensai le parole di Confucio: "Se un uomo ti offende gravemente una volta, non mostrare risentimento; ricordati l'offesa, ma non correre ancora alla vendetta". Mi prostrai sulla fossa del cane e presi in mano la mia lunga treccia e feci un groppo alla sua estremità; poi dissi a me stesso: – Ramàr mi ha offeso una volta. – E rientrai nella mia cella.

E mi diedi ad assaporare irosamente l'amarezza dei miei pensieri. Dissi a me stesso che in terra non mi restava più nessun affetto. Senza madre (un presentimento incessante mi susurrava nel cuore che dovevo esser orfano), senza amici, senza amore, straniero, deriso, avevo collocato in quel povero bull-dog tutta la tenerezza di cui mi sentivo capace. Egli divideva le mie fatiche e i miei rancori; non ero uno straniero per quella povera bestia; quando quell'onesto cane mi guardava dilatando le labbra del suo grugno sagace e mostrando gli acutissimi denti come una persona che ride, non mi guardava coll'occhio sospettoso di Ramàr, non rideva col riso beffardo dei clowns. Povero Gin, era morto! me l'avevano ucciso! Mentre il mio dolore muto m'abbruciava l'interno petto come un fuoco rinchiuso, udii graffiare sul basso dell'uscio; lo apersi e mi trovai fra i piedi il cagnoletto chinese prediletto dell'andalusa. Lo sollevai da terra pigliandolo per la pelle del collo, afferrai un coltello e lo scannai. Lo scuoiai poscia, e purgate ch'ebbi le sue interiora, accesi un fornello e posi a cuocere l'animaluccio pingue in una certa mia pentola, con un po' di mele e di cipolle, commestibili questi che tenevo sempre ne' miei ripostigli.

In un paio d'ore il manicaretto fu all'ordine; lo trinciai accuratamente e mi accinsi a mangiarlo. Intanto udivo dal di fuori Ambra che correva di qua e di là e chiamava ad alta voce: —Niño! Niño!– ch'era il nome da essa imposto alla bestiuola. Io rosicchiavo gli ossicini di Niño coi miei denti robusti, quando si aperse l'uscio ed entrarono Ambra, Ramàr e Flibbertigibbet.

Ramàr mi chiese: – Ov'è Niño?

Io, compiendo tranquillamente il gesto voluto dalle mie parole, risposi: – È qui, e se posso offrirvene una costola…

Ambra svenne. Ramàr la soccorse indirizzandomi parole di furore. Io replicai, continuando a rosicchiare i garetti di Niño, che il cagnuolo era mio e che potevo farne il mio pro' quando volevo. Non feci la minima allusione all'avvelenamento di Gin. Ramàr trasportò Ambra nella camera attigua.

Flibbertigibbet, che si smascellava dalle risa, corse a raccontare a tutta la compagnia il caso di Niño che gli pareva stranissimo. M'avvidi troppo tardi che avevo commesso un errore. La vita di scherno nella quale m'illividivo da tanto tempo s'aggravò dopo quel fatto. I miei colleghi mi chiamarono d'allora in poi il mangia-cani, soprannome che in China non sarebbe parso per nulla vergognoso, ma che pareva ridicolosissimo a quella gente plebea.

La storiella varcò le mura del circo, passò nelle gazzette e macchiò la mia rinomanza.

Quando entravo nel circo, ai dì delle rappresentazioni, le damine galanti, nascondevano per celia i loro catellini avanesi, fingendo di temere che li dovessi divorare belli e crudi, e ridevano.

Ho avuto sempre cura d'analizzare i moventi delle risoluzioni repentine della mia vita, le quali furono per buona sorte poche. Così, perché tu mi assolva un poco dal mio errore, voglio aiutarti a scoprire le cause che mi spinsero all'uccisione del cagnuolo dilettissimo ad Ambra. Le cause minori furono l'istinto di rabbia contro l'amante dell'andalusa che m'aveva attossicato il povero bull-dog; l'antipatia invincibile che nutrivo contro quell'obeso Niño; un brutale bisogno di distruggere una creatura viva per vendicare il mio Gin e me stesso. Ma il movente maggiore di quel fatto di sangue, di miele e di cipolle, mi venne da un lungamente maturato bisogno di ghiottoneria, di cui era forse inconscio io stesso nel momento della catastrofe. Il Niño d'Ambra era l'ideale delle mie merende e delle mie cene. La vendetta fu il pretesto della gola. E quella fu la terza e, fino ad oggi, ultima volta che la mia innata ghiottoneria m'aveva tratto ai cattivi passi.

Un'altra volta questo malo istinto mi valse quella tale staffilata che mi diede il gin-mù quando nella stiva del vascello andai alla cerca delle cose dolci promessemi dalla madre. E quando dieci anni dopo succhiai il dolcissimo sangue della voluttuosa vena dell'andalusa, fu la seconda volta. Ma tu sorridi, savio Meng-pen, col sorriso di chi nota un errore nella dimostrazione di un teorema, e i tuoi occhi mesti non concordano coll'espressione della tua bocca. Ma lasciami proseguire il racconto.

Una sera, dopo gli spettacoli, stanco di servire da bersaglio alle beffe dei clowns e alle risate del pubblico (Flibbertigibbet aveva attaccato quella sera un pezzo di lardo all'estremità della mia coda, senza che me ne fossi avvisto, per modo che tutti i cani e tutti i gatti del circo mi stavano alle calcagna con grande tripudio della plebe), irritato, eppur con passo paziente, mi diressi verso la camera del direttore. Trovai William Wood intento a numerare dollari e banconote.

– Che c'è di nuovo? – mi disse come appena mi vide.

Io risposi con voce umile, ma franca: – Domando la mia licenza, voglio partirmene dal circo.

Uno scroscio di risa riempì così fattamente le fauci di William Wood che queste parole smozzicate s'udirono appena:

– E perché, miss Yao?

– Parto perché sono un ginnasta e non un buffone, sclamai risolutamente.

– Sta bene, sta bene, sta bene – ripeté cantarellando l'americano; m'accorgo che hai bisogno di leggere certa scrittura.

E mi porse una vecchia carta, un contratto. Discesi cogli occhi alla firma e lessi un nome a me ignoto: Tom Tompson. Poi nel mezzo di una linea scorsi il mio nome, "Yao", e nella stessa linea queste due parole: "tremila dollari", e più sotto, alla distanza di tre righe: "venduto, colle vesti che indossa e con una preziosa edizione di Confucio, a William Wood direttore del Circo di Lima". Altro non lessi. Mi appoggiai ad una parete e rividi in un baleno della memoria l'orrendo stivaggio del vascello del pastore d'uomini. Tom Tompson, il gin-mù, aveva ingannato mia madre. William Wood sorrideva. Ero uno schiavo!

.....

RIVISTE DRAMMATICHE

I

Marianna, dramma in tre atti di __Paolo Ferrari__. La famille Benoîton, commedia in cinque atti di __Victorien Sardou__. Piccolino, commedia in tre atti di __Victorien Sardou__. Le lion amoureux, commedia in cinque atti di __Ponsard__.

Volendo comparare le condizioni del teatro francese alle condizioni del teatro italiano, il parium comparatio di Cicerone non sarebbe veramente da citarsi, giacché le disparità del paragone non potrebbero essere maggiori, essendovi da un lato tutte le fortune, dall'altro lato tutte le sciagure.

Parigi, centro di civiltà, punto focale di tutti gli avvenimenti dell'epoca, vertice del progresso, pare quasi da se stesso un immenso palco scenico, sovra il quale s'aggiri continuamente un portentoso dramma. Ivi la società con tutte le sue corruzioni, con tutti i suoi splendori, colle virtù eroiche, coi vizi brutali, colle manie ridicole, colle passioni tremende. In ogni parte di Parigi, ove il drammaturgo s'imbatta, egli trova argomento d'arte.

Nel faubourg Saint-Antoine, Dumas père trova il dramma romantico; nel faubourg Saint-Germain, Augier trova la gran commedia di carattere; nel quartier Breda, Dumas fils trova il dramma realista; nel quartier Latin, Labiche trova il vaudeville; alla Bourse Ponsard trova la commedia sociale.

Questa immensa città è pei drammaturghi ciò che certi meravigliosi paesi sono per i pittori; il vero v'è così estetico e compiuto che par quasi arte. Infatti, ammesso che il vero dei pittori sia la natura, ne viene che il vero dei commediografi è la società; in questo senso Parigi è la Fiandra degli autori drammatici.

Tutti i greci nascono commedianti, diceva Giovenale; si può soggiungere: "tutti i fiamminghi nascono pittori, e tutti i parigini nascono commediografi".

Basta gettare uno sguardo sulla tumultuosa città per trovar ciò naturale. A Parigi ciò che noi chiamiamo il "caso", l'"avvenimento", appare tutti i giorni davanti agli occhi d'ognuno. L'Oceano produce ogni giorno il Maëlstrom, Parigi produce ogni giorno la "catastrofe".

Se si dovesse dar casa al caso, o reggia, o tempio, egli sarebbe certo

Parigi.

Ivi l'oscura presenza di questo ente sbuca fuori ad ogni ora, ad ogni svolto di cantonata, ad ogni crocicchio di vie, urta nel gomito di chi va per le contrade, sorride in viso di chi passeggia ne' parchi, bussa alla porta di chi si è rinchiuso in camera, ferma le ruote di chi corre in carrozza.

Questa quotidiana dimesticità col caso educa il parigino alla vita molto più fortemente che ogni altro; la sua fibra s'affina a forza di toccare all'impreveduto; egli passa franco ed ammaestrato attraverso il gran turbine sociale.

Da ciò deriva la maggiore abbondanza e originalità di caratteri a Parigi che altrove, da ciò deriva la continua presenza in quella città di ciò che in commedia si chiama l'intrigo.

Lo scrittor da teatro vive per conseguenza a Parigi sempre circondato dagli elementi dell'arte sua.

Finalmente Parigi offre alla commedia tutto il suo discorso completo, naturale, facile, brillante: il suo idioma da cinque secoli unificato. Prima ancora che si tingesse d'inchiostro la penna di Rabelais, il poeta francese aveva un mirabile vocabolario davanti che gli si sfogliava per via ad ogni parola di semplice passeggiatore. Prima che in Italia si avesse la coscienza e la conoscenza d'una possibile lingua nazionale, prima che l'Alighieri trovasse la sua grande utopia del volgare cortigiano o cardinale, un grand'uomo, il Diderot de' suoi tempi, Brunetto Latini scriveva sapienti cose in francese e diceva di questa lingua: la parliure française est plus délitable et plus commune à toutes gens; egli trovò fin da quel tempo che la ondulante parlatura francese, così blanda e indefinita, era più vicina all'idea impalpabile che la inesorata precisione latina e la troppo sonora loquela dei popoli d'Italia.

Da ciò ne viene che il commediografo francese ha davanti a sé tutte le manifestazioni del suo vero, cioè soggetto, intrigo e dialogo.

In Italia nulla di tutto ciò: il vero dei commediografi nostrali non esiste che in minime proporzioni. La società, poca e sparpagliata e confusa, non porge loro soggetti, la vita abitudinaria e tranquilla non insegna l'intrigo, l'assenza totale d'un idioma comune annichilisce il dialogo.

Gli autori drammatici d'Italia possono paragonarsi alla malaugurata classe dei pittori di maniera: lavorano sull'arte degli altri; da ciò la convenzione, l'affettazione, la mediocrità inevitabile.

Ma l'ideale è provvido ed astuto: quando trova impedimento da un lato, vola dall'altro.

Se all'autore drammatico italiano è interdetto il gran teatro moderno, gli rimangono però ancora tre altre ramificazioni dell'arte: la commedia psicologica, la commedia storica, la commedia in dialetto. La tesi che egli non trova nella sua società, gliela darà l'anima sua; l'intrigo che non gli è suggerito dai fatti che lo attorniano, lo troverà nella storia; il dialogo che gli è negato dalla lingua convenzionale, lo troverà nel dialetto materno.

Allora questo scrittore potrà chiamarsi Goldoni.

Paolo Ferrari sentì fin dai suoi primi esperimenti nell'arte i fatti che abbiamo tentato di esporre e mostrò di capirli profondamente.

Sentì la possibilità d'una commedia storica italiana e scrisse il Goldoni, il Parini, il Dante; sentì la possibilità d'una commedia psicologica e scrisse la Prosa e scrisse La donna e lo scettico; riconobbe la superiorità drammatica del dialetto sulla lingua e scrisse le sue Scene popolari in dialetto modenese, e quando fu costretto ad abbandonare il dialetto parlato per la lingua non parlata, palliò quasi sempre l'infermità del dialogo italiano colla maschera brillante del verso.

Bastano questi soli dati, anche transigendo dai meriti eminenti dei citati lavori, per riconoscere nel Ferrari un vasto intelletto di pensatore, di scrittore e d'artista.

L'ultimo lavoro di Paolo Ferrari deroga molto da questi dritti principii.

Nella Marianna, che udimmo al teatro di Santa Radegonda colla compagnia di Adelaide Ristori, l'autore abbandona quella maniera tutta italiana che rese belli e fortunati quasi tutti gli altri suoi lavori, per avvicinarsi alla maniera francese; e se questa diserzione trovò pur sempre fedele l'applauso nel pubblico, non lo può trovar certo nella critica.

Consideriamo dunque l'ingegno dell'autore in questo dramma sotto l'aspetto d'una malaugurata eccezione.

Paolo Ferrari nella Marianna volle dire anch'esso la sua parola realista, volle bazzicare anch'esso nel quartier Breda dell'arte drammatica, volle dire anch'esso la sua parola sull'amore illegittimo, sulla colpa.

Un giornalista celebre, privo di tutte le attitudini per diventar commediografo, inesperiente della scena e del pubblico, volle scrivere un anno fa a Parigi un dramma che divenne famoso per lo scandalo letterario che suscitò; questo dramma è l'idea generante della Marianna.

Come l'origine ci sembra fiacca, falsa, inetta, così ci sembra tale la derivazione. Alcuni critici paragonando insieme i due drammi esaltarono quello di Girardin e condannarono quello di Ferrari; noi, tranne qualche rara eccezione di particolari sì nell'uno che nell'altro, li condanniamo tutti e due.

Nella Marianna pare quasi che l'autore si sia sforzato di rendere antiestetico il suo tema.

I due campioni dell'amore illegittimo sono una donna sulla quarantina e un deputato, singolare coppia d'innamorati! l'autore credette forse con ciò di salvare alquanto quella moralità del suo dramma che gli è pur così ostinatamente da tutti contestata.

L'autore s'accorse che don Paez e Juana sono immorali, che la Bovary e Léon sono immorali, che Portia e Dalti sono immorali, che Paolo e Francesca sono immorali, che tutte queste coppie giovani, deliranti, soavi, poetiche peccano terribilmente d'immoralità. Allora egli segnò qualche ruga sul volto della sua eroina e mise la medaglia di deputato sul petto del suo eroe, gettò gli anni e la prosa sulla sua coppia e la credette salva. Noi la crediamo invece assai più compromessa.

Ma non perdiamoci qui a discutere sui casi di coscienza di un'azione drammatica; la moralità non si discute, si sente.

Discutiamo piuttosto le qualità artistiche del lavoro.

Il critico fa al dramma o alla commedia che esamina tre domande principali: se ad una almeno di queste tre domande principali il lavoro esaminato non risponde affermativamente, il dramma o la commedia sono perduti davanti agli occhi del critico.

La prima di queste domande è: ci son caratteri?

Il dramma di Ferrari risponde: No. Il dramma di Ferrari possiede delle caricature e dei personaggi, ma non ha caratteri. Marianna è un personaggio, Enrico è un personaggio, il giovane serio è una caricatura, il vecchio freddurista è una caricatura; nessuno di questi può essere innalzato alla qualità di tipo.

Ma a questa mancanza il teatro moderno ci ha pur troppo abituati. La colpa la gettiamo dunque mezza sull'autore e mezza sull'andazzo dei tempi.

Non abbiamo quasi più caratteri sul vero: andiamo ogni dì smarrendo i tipi nella nostra società; per conseguenza li smarriamo sulla scena.

Il progresso che tende a tutto livellare, è il grande operatore di questa distruzione; la libertà in questo senso è nemica dell'arte. Le stesse commedie francesi soffrono un po' di questa mancanza: i tipi si scontrano già raramente in Dumas fils, raramente in Augier, più raramente in Sardou, e se vogliamo rinvenirne qualcuno, bisogna che ricorriamo alla commedia che vien dalla storia, al racconto dei tempi passati, al Lion amoureux di Ponsard, su cui parleremo più tardi con sommo refrigerio della nostra critica.

Il definire cosa costituisca il tipo è pressocché così arduo come il definire cosa costituisca una fisionomia. La fisionomia si compone di certe linee particolari e di certi colori; il tipo si compone di certe parole e di certi fatti individuali. Alle volte una parola basta per creare un tipo, come una curva basta per creare una fisionomia. L'angolo acuto è la dominante della fisionomia dantesca; il: Gain, be my lord è la dominante del tipo di Fauconbridge; questi sono i misteri della natura e i segreti dell'arte. Nessuna di queste dominanti nei personaggi della Marianna. Là dove l'autore ha creduto di segnare un carattere, ha segnata una caricatura. Non già che le caricature debbano essere sempre bandite dalla scena. Il Filocleone d'Aristofane e il giudice Shallow di Shakespeare sono due caricature, ma quanta arte in queste creazioni grottesche!

Il sublime tragico inglese si compiaceva in ispecial modo in queste allegrie della scena, e i suoi fredduristi (ci si perdoni sempre la parola) erano più fredduristi ancora del personaggio di Paolo Ferrari.

Quando Shakespeare giuoca colle parole, lo fa così potentemente come quando sgomenta colle idee. Launce dei Due gentiluomini di Verona è il gran maestro di questo mistake the word; Costard delle Pene d'amor perdute è un altro maestro.

Siamo profondamente convinti della difficoltà somma del trovar tipi da scena a' giorni nostri; ciò non toglie però che ci crediamo in dovere di tener nota di questa mancanza.

Il teatro d'oggi muta troppo i nomi e troppo poco i personaggi; se facesse l'opposto farebbe meglio; o almeno dovrebbe imitare la modesta parsimonia dei nostri avi, i quali, quando non trovavano altro, s'accontentavano nelle loro mirabili commedie del solito Arlecchino, del solito Clown, del solito Xanthias, e tiravano innanzi così.

Noi ad ogni commedia nuova mutiamo il nome alla prima donna o al primo attore; la donna ora si chiama Maria, ora Elisa, ora Amalia, l'uomo ora si chiama Ernesto, ora Michele, ora Giulio; potremmo addirittura una volta per sempre, finché dura questa carestia d'invenzione, chiamar la donna Rosaura e l'uomo Florindo, ché la monotonia non sarebbe maggiore per questo.

Seconda domanda: ci sono posizioni?

Il dramma di Ferrari risponde: No.

Cioè, ci sono delle velleità di posizioni, come ci sono delle velleità di caratteri.

Le grandi scoperte artistiche dei grandi uomini hanno ciò di uggioso: prolificano, fanno figliuoli e ne fanno tanti e così somiglianti fra loro che ispirano a chi li vede il tedio della fisionomia paterna.

La scena della rappresentazione nell'Amleto è una di queste scoperte. A voler numerare i figliuoli di quella scena, crediamo che passerebbero certo il numero di quelli di Priamo. Due di questi figliuoli sono la scena del racconto nell'atto secondo della Donna e lo scettico e la scena delle visite nel second'atto della Marianna.

Nella Marianna non c'è che la convenzione della posizione.

E infatti, come potrebbero esservi grandi posizioni in un dramma dove c'è assenza di caratteri e d'intrigo? Ciò che nel gergo teatrale e critico si usa chiamar "posizione", non può esser prodotto che o dall'attrito di tipi, o dall'intreccio di avvenimenti con altri avvenimenti.

Nulla di ciò nella Marianna; la tela semplicissima non isvolge che gli avvenimenti elementari e naturalmente dettati dal soggetto.

Terza domanda: c'è dialogo?

Il dramma di Paolo Ferrari ci risponde: No.

Ci son delle colonne d'appendice trasformate in dialogo, ci sono delle immagini allambiccate, delle freddure inverosimili, c'è un dialogo tutto artificiale come, per dare un saggio, questo dell'atto secondo:

=Baronessa= (piano a Marianna): Nobile cuore, quanto vi amo.

=Marianna= (piano alla Baronessa): Spirito perverso, quanto vi detesto, (Ad alta voce stringendo la mano alla Baronessa con affettata amabilità) Buon giorno, Baronessa.

=Baronessa= (idem): Buongiorno, Contessa.

Questo a noi non pare dialogo vero, né bello, né serio. Ma la Ristori trovò in questo punto un certo modo di mutar fisionomia e voce, un passaggio così rapido dalla rabbia all'ossequio simulato, che il pubblico applaudì.

Il Ferrari non dovrebbe a danno dell'arte commettere di codesti effetti, né la signora Ristori incoraggiarli.

La commedia fu eseguita pessimamente.

La Ristori ogni anno ne riappare più decaduta; se una volta essa si meritò tutte le ammirazioni della critica, oggi si merita tutte le disapprovazioni. Udendola recitare, ci venne pensato continuamente a quella ironia di Le Sage: toujours hors de la nature, elle fait même des éclats sur des conjonctions, e infatti ci ricordiamo come essa marcasse violentemente la innocente particella "ci" in una frase di questo genere, appunto nella Marianna, atto secondo, scena prima: Adesso che abbiam parlato delle persone che non ci piacciono, parliamo delle persone che ci piacciono.

Neanche una particella può essere garantita contro la furibonda mania dell'effetto.

La signora Ristori avrebbe dovuto assistere a una certa lezione di declamazione fatta dall'illustre Samson nel Conservatorio di Parigi, alla quale ebbimo la fortuna di assistere noi. Il grande artista davanti al suo devoto uditorio, ragionando intorno alla semplicità degli accenti e dei gesti che si deve usar sulla scena, terminava col dire questa bella verità: la vraie déclamation est de ne pas déclamer.

Siamo aizzati dalla affollata materia della nostra rivista a progredir nell'analisi delle altre commedie, e ne spiace di abbandonare così seccamente l'argomento della Marianna.

Il laconismo, mirabile virtù spartana, trascina spesso ad involontaria ruvidità. Abbiamo detto intorno a questo dramma apertissimo l'animo nostro come se fossimo stati nemici dell'egregio autore. Se ne avessimo avuto l'agio, ci saremmo dati pensiero di palliare la forma della nostra critica, avremmo potuto accennare ad alcune eccezioni, ad alcune bellezze sparse qua e là nelle scene, avremmo notate certe verità psicologiche che pur nel dramma ci sono ci saremmo ricordati che alla lettura (forse perché leggendo l'effetto letterario offusca il drammatico) questa maltrattata Marianna non ci parve così imperfetta; ma la fretta ci fece essere più sinceri forse del bisogno e più veri del vero. Ne piace fare questa dichiarazione, soggiungendo però che per quanto particolareggiata, sminuzzata ed ampliata, mutando un po' d'apparenza, la nostra critica non avrebbe mutato di fondo.

Tutti gli anni, fra l'inverno cittadino e l'estate campagnuolo, ne giunge d'oltremonte un'eco di vita parigina.

Il primo che sta volta ci portò quest'eco fu, due settimane fa, Victorien Sardou.

Victorien Sardou possiede la potenza di farsi famigliare il pubblico suo; sono già sei anni che i parigini e Sardou vivono in dimestica amicizia. L'autore piglia in giuoco le debolezze del pubblico, il pubblico celia a sua volta sul nome dell'autore e lo chiama Victorieux Sardou.

Vittorioso infatti lo è. Avvicinarsi alla belva capricciosa e feroce, fissarla in faccia, domarla, affascinarla, schiaffeggiarla ed accarezzarla, trastullarsi colle sue zampe e cacciar la testa nelle sue fauci senza esser morso, tutti questi atti possono esser chiamati vittorie.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
27 июня 2017
Объем:
190 стр. 1 иллюстрация
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Правообладатель:
Public Domain

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