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Читать книгу: «Novelle e riviste drammatiche», страница 10

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Il padre della commedia originaria vuol trar vantaggio per la sua vanagloria dall'ingegno e dai trionfi del figlio. Héloïse Paranquet vuol far di peggio. Il carattere e le azioni di Héloïse Paranquet sono così sozze che escono dai temperati limiti della commedia. Perché il lettore arrivi a comprendere questa Héloïse, per nulla somigliante a quella di Abelardo, siamo costretti a rimandarlo fino al diciottesimo canto dell'Inferno, là dove Venedico Caccianemico è frustato dalla scuriada dei demonii di Dante. Héloïse Paranquet vuol far della figlia sua ciò che il dannato di Malebolge fece della sua sorella, della bella Ghisola. Giuda che vende il suo Dio, Leclerc che vende la sua patria, non fanno mercato più obbrobrioso e più inumano di quello che ha in animo di fare l'eroina di questa lugubre commedia.

Noi danniamo certi orrori morali, che non devono essere toccati dall'arte, non già perché sono orrori, ma perché sono orrori antiestetici.

Quando la crudeltà o la viltà del carattere non è, per così dire, idealizzata da qualche lato artistico o pittoresco, quello non è carattere degno della scena. Il poeta, che per fatalità s'imbatte in uno di questi tipi, non può fermarvisi davanti più d'un istante. L'Alighieri non ispende più di nove versi intorno a Taida, ché già il decimo dice:

E quinci sien le nostre viste sazie.

Tutta una commedia sostenuta da un'eroina così disonesta conduce naturalmente al ribrezzo, e questo ribrezzo del pubblico non ha in se stesso nulla di estetico.

Se il valore artistico di questa commedia si potesse discutere, se non fosse un valore usurpato, se prima del tribunale del critico non ci fosse una specie di tribunale di giustizia, il quale mette in dubbio, non il valore letterario di tale commedia, ma la proprietà, potremmo asserire che il più grave errore, sul quale questo lavoro si fonda, è appunto l'odioso carattere della sua protagonista. Ma qui non istà la questione; la questione, ripetiamo, è correzionale, non è artistica.

Come Dumas, Durantin fece il prologo dei quindici anni prima, il prologo così detto della colpa, il romanzo fatale che precede l'azione drammatica: Dumas mostra al pubblico il figlio in culla, e Durantin fa vedere la figlia in fasce.

Come Dumas, Durantin pone la lotta legale, il codice, per nodo, per centro, per cardine dell'azione. Il figlio di Dumas va dalla madre al padre come una palla gettata dalle racchette del codice civile; la figlia di Durantin è nell'identico caso. L'avvocato di Dumas fa l'avvocato di tutte e due le cause, colle leggi alla mano da una parte, col cuore dall'altra, e l'avvocato di Durantin è lo stesso avvocato; la buona causa vince tanto nell'una quanto nell'altra commedia. Il danno dello scioglimento cade di qua sul padre malvagio, di là sulla malvagia madre. Ora si potrà facilmente comprendere come il signor Durantin, dopo cinquant'anni d'obblio, abbia potuto arrivare ad un giorno di trionfo. Nella Héloïse Paranquet ci sono pressoché tutte le buone posizioni drammatiche del Fils naturel.

Il signor Durantin fu un abile raffazzanatore di cose non sue; fortunato lui se il pubblico non s'avvisò del plagio. Il mezzo secolo di disdetta letteraria, del quale oggi il signor Durantin par quasi che si vanti baldanzosamente, ci è così disvelato per il suo giorno di gloriola. Non ne facciamo nessuna meraviglia; così pure non ci meraviglieremmo punto se un qualunque messere ci dicesse:

"Ho vissuto povero fino al giorno che ho riempiuta la mia borsa col denaro altrui". Ciò non toglie che profetizziamo al signor A. Durantin un altro mezzo secolo di vita sana e riposata e di tranquillissimo obblio.

Non sappiamo se l'Henriette Maréchal, dramma in tre atti dei fratelli Goncourt, valga molto più dell'Héloïse Paranquet. Il soggetto di questo dramma è la tragica storia d'un amore fatale. Un giovinetto di diciasette anni (dico diciasette) ama perdutamente una donna già madre d'una fanciulla, e n'è riamato; la fanciulla ama alla sua volta con affetto innocente ma intenso il giovinetto. La catastrofe finale è orrenda. Una notte il marito s'avvede della tresca, e furibondo, fra le tenebre, si arma d'una pistola e va per uccidere la moglie; la figliuola, che seguiva la terribile scena, mette il suo petto sotto l'arma del padre e si sacrifica e muore. Questo scioglimento orribile fa la vece di quella moralità che evidentemente manca in tutto il resto del lavoro; l'atterrimento di questo finale è così forte che finisce per parlare alla coscienza ed all'animo. Quella povera innocente che si immola per la colpa materna è tale spaventosa punizione della madre e copre di così cupo terrore le seduzioni del peccato, che arriva a produrre in chi osserva una specie di bieca edificazione. La moralità è di due sorta: può essere premio di virtù o castigo di vizio; l'inferno è morale come il paradiso, anzi per certe coscienze fosche e volgari è più morale l'inferno. Se lo sanno gli astuti predicatori delle campagne quando nei loro predicozzi si danno a descrivere con soprannaturali colori di spavento l'abitazione di Satana.

La morale dell'Henriette Maréchal è la morale della Diane de Lys, delle Deux Soeurs, del Mariage d'Olympe, una morale che inventò Dumas fils alcuni anni or sono.

Ed ecco che troviamo ancora una volta questo nome sotto la nostra penna; potevamo a dirittura inscriverlo a capo del nostro sommario e farne l'unico argomento della presente rivista. Il cader così spesso di questo nome sotto l'osservazione del critico non è caso, né capriccio, ma necessità. Questo nome è lo stemma della commedia moderna; essa nacque sedici anni fa con tale nome in fronte per volontà del secolo e per gloria dell'arte.

Chi volesse sapere come andasse questa nascita meravigliosa, stia qui ad udire.

Viveva nell'anno di grazia 1844 un uomo bizzarro; esso aveva un profilo di razza diverso dalla nostra, portava nell'animo il pensiero d'un secolo diverso. La sua testa era da mulatto e la mente da medio evo. Pareva quasi un rampollo degli antichi romanzatori un discendente di Roberto di Jersey, di Arnaldo Daniello, di Bernardo Ventadour. Egli era uno di quegli esseri fantastici e visionari perennemente assorti in una chimera, dimentichi della realtà della vita, pieni soltanto dei tumulti delle storie lontane e delle invenzioni del loro cervello.

Questo Re di Navarra dei boulevards, questo troviero moderno, questo vivo nepote dei sepolti ludiones aveva un figlio ch'egli gittò, non appena ebbe varcati i vent'anni, nella fragorosa vertigine della vita parigina. Mentre il padre volava col pensiero fra la nebbia dell'ideale, il figlio camminava sul macadam di Parigi attratto e sedotto da tutte le forme della realtà. Mentre il padre dormiva e sognava, il figliuolo vegliava e viveva. Vivere è la prima scuola e la prima sapienza d'uno scrittor di commedie.

Questo figliuolo in balia di se stesso e delle sue tentazioni visse tanto che diventò Dumas fils.

Suo padre dice sovente: Mon meillieur ouvrage c'est M. Dumas fils, e la frase è più profonda di quello che non appaia. In un certo senso Alessandro Dumas fils è un elaborato artistico di Alexandre Dumas père; basta penetrare un poco nei rapporti intimi e famigliari di questi due originalissimi ingegni per convincersi di ciò. Parecchi fisiologi sostengono, colla dimostrazione degli esempi alla mano, che nelle famiglie le generazioni si alternano reagendo l'una sull'altra con passioni o virtù opposte fra loro, per modo che a padre prodigo succede figlio avaro, a padre avaro figlio prodigo, e così in tutto. Dumas padre, convinto della verità di questo fatto naturale, aiutò la reazione educando il figlio ad una vita opposta all'indole paterna. Egli idealista volle un figlio realista, egli improvvisatore volle un figlio pensatore, egli poeta volle un figlio filosofo, e lo ebbe. Così il romanzo generò la commedia. E per produrre un'arte così vera, così efficace com'è quella di Dumas fils, ci voleva una siffatta educazione. La commedia di Dumas fils divenne, per questi fatti specialmente, la commedia sociale dei tempi odierni.

III

__Teatro Re__. —Nos bons villageois. commedia in cinque atti per __Victorien Sardou__.

La sera del 3 ottobre passato, fra le sette e mezzo e le otto, una folla frettolosa di parigini attraversava il boulevard e s'accalcava alla porta del Théâtre du Gymnase, sfilava nell'atrio, invadeva la platea, gli scanni, le loggie; poi con cupida impazienza aspettava l'alzarsi della tela. Tutte quelle teste stipate tramandavano nell'aria calda della sala una vasta pulsazione diffusa; il palpito della curiosità, che non è fra i meno violenti, animava tutti quei polsi e tutte quelle tempie. L'aperto angolo facciale del popolo parigino dominava fieramente in quella folla; c'erano qua e là dei profili arguti, e delle fronti poderose, brillava in tutte le pupille la gaia fiamma dell'intelligenza; quei signori e quelle signore formavano la parte più eletta del pubblico più eletto di Parigi. Fisionomie ben note di persone illustri spiccavano in mezzo alle altre, specialmente fra le primissime file degli scanni così detti fauteuils d'orchestre. Lì grandeggiava l'olimpica testa canuta di Jules Janin, dal solenne sorriso pagano, e vicino stavagli il magro Legouvé, sempre serio e accigliato, e non lontano l'inerte volto di Prévost-Paradol, opaco e muto come una maschera; molti altri ancora. Il pubblico osservava que' suoi archimandriti con sommessa avidità, e gli archimandriti si lasciavano agevolmente osservare.

La tela non s'alzava. L'aspettazione diventava inquieta; un mormorio incominciò a un angolo della sala; un bastone picchiò per terra il tradizionale ritmo della canzone: oh les lampions! un altro bastone lo seguì, tutti i bastoni della platea s'unirono in massa. La tela non s'alzava. Chi non aveva bastone picchiava co' piedi; il ritmo si faceva sempre più sonoro, più fragoroso; nessuno smarriva la battuta per quanto l'impazienza fosse al colmo, ed era stranissima quella turbolenza che irrompeva a tempo in crome e biscrome, come se un direttore d'orchestra la dirigesse.

Finalmente la tela s'alzò. Una esclamazione di diletto esci da tutte le bocche. La scena che s'apriva agli occhi del pubblico era deliziosa e deliziosamente dipinta:

Le matin. – À gauche, un lavoir de village, couvert d'un petit toit; baquet, battoirs, etc. L'eau du lavoir, qui est censée venir de la coulisse de gauche, se déverse du lavoir dans un ruisseau qui décrit le tour de la scène, au milieu des joncs, des roseaux et des hautes herbes, en longeant, au fond, la terrasse d'un parc plus élevée que le sol de la scène. Au dessus du ruisseau, à droite, un petit pont de planches. La scène est entièrement ombragée par les grandes arbres du parc qui font de ce lieu un endroit très retiré et très-frais.

Questa è più che una scena; è un paesaggio, è uno stupendo motivo di quadretto fiammingo. Ruisdael non avrebbe certo letta questa graziosa descrizioncella di Sardou senza tradurla in colori; c'è il pennello di Hachenbach in quelle linee; in quel "endroit très-retiré et très-frais" c'è tutta l'arte del paese. E le macchiette? ci sono anche quelle e si chiamano Maguelon, Yveline, Perrette. Elles sont agenouillées au lavoir et savonnent leur linge tout en jasant. Le attrici non hanno ancora aperto bocca e il pubblico applaude già; cosa sarà poi quando quelle tre vispe macchiette si metteranno a discorrere nel loro jargon villageois, con tutte le squisite grazie del dialogo paesano che Sardou raccolse e sparse in tutto il primo e secondo atto della sua commedia? Cosa sarà quando entreranno in scena Chouchou e la Mariotte, la Mariotte rappresentata dalla seducentissima mademoiselle Pierson, e quando questa Mariotte dirà, tutta curvata al suo lavatoio e tutta ciarliera e birichina: —Les Grinchu, père et fille, tenez! v'là ce qu'on devrait leur faire (elle tord son linge!) Couic! Senza dubbio a quel "couic", detto vezzosamente dalla Pierson e accompagnato dal moto vivace di due bei braccetti, nudi fin più su del gomito, senza dubbio tutta la sala scoppia in risate e battimani. E poi, agli innumerevoli idiotismi di quelle birbe, l'allegria si fa sempre più pazza:

«Tiens cette petite cane en rétard».

=Chouchou=: «Ah ben! le jour de la fête, il ya pas presse à l'ouvrage».

E poi:

«ça avait l'air quasiment d'une bannière».

E il pubblico piglia già diletto a queste parole; e ci pigliamo gusto noi pure, s'anco non francesi, e ci vengono in pensiero paragoni e affinità coi dialetti nostri, e troviamo che quel cane è parente del nostro canaglia, e quel presse e quel quasiment sono né più né meno che i vocaboli paesani pressa e quasimente, e che l'ousque è l'usque latino e che nella frase: "Vous sentez, comme qui dirait, la bourbe ", c'è tutto il sapore toscano del modo come a dire, e ci piace il guigner per il tener d'occhio (collimare) e ci piace il siroter les petits verres per esprimere il bere a centellini, idiotismo che data fino da Regnard, il quale scrisse: "je sirote mon vin", e ci piace l'esclamazione: "que nenni!" e l'altra celebre: "v'là les pompiers!".

Così, dopo averci dilettati la scena, ci dilettano le parole; dopo averci dilettate le parole bizzarre e piacevoli, ci diletterà il dialogo ch'è de' più dilicati, e poi ci diletteranno le posizioni drammatiche e forti, e infine ci avrà dilettato la commedia intiera. E tutto il pubblico la pensa come noi e si sbraccia ad applaudire e si smascella a ridere e poi s'arresta atterrito alla catastrofe dell'atto quarto e torna a sorridere al quinto e torna ad applaudire dopo finita la commedia e calato il sipario; e quando il régisseur esce sul proscenio ed annuncia il nome glorioso e fortunato di Victorien Sardou, gli applausi raddoppiano e non vogliono cessare. Ed ecco là M. Ulbach in piena loggia che vuole sconficcarsi l'avambraccio ad applaudire e Neftzer che gli fa eco daccanto. Ma perché Janin, perché Prévost-Paradol, perché Legouvé non applaudono? Perché questi tre si guardano in faccia sogghignando e pare disapprovino severamente la condotta del pubblico e quella di Mr. Ulbach? perché quando Mr. Ulbach li ha scorti e indovinati, cessa di applaudire esso pure e si nasconde?

Il lunedì dopo appaiono i feuilletons. Tutta la critica parigina si scatena furibonda contro Victorien Sardou e i Nos bons villageois. Jules Janin ha l'ira classica, l'ira oraziana, adornata di forma armoniosa e leggiadra, l'ira dal periodo sonante, dal numero eletto; inveisce con grazia, urla con eleganza; si avrebbe velleità di dirgli, come Demetrio al Leone del Sogno di una notte d'estate: "Well roared, lion!" Prévost-Paradol rugge con minore maestria: ha l'ira romantica, fremebonda, scapigliata, feroce; viene alla memoria, leggendo il suo articolo della Revue des deux-mondes, l'Achille di Offenbach: Je suis le bouillant Achille ecc. ecc. E M. Ulbach anch'esso, dopo avere dato a Sardou il suo coup de main come il pubblico, gli dá il suo coup de pied ("le coup de pied de M. Ulbach", come dice Edmondo About), il suo coup de pied come gli altri critici. Il fatto, come ognun vede, è singolare. Il pubblico applaude, la critica fischia: ecco due opinioni opposte ed egualmente autorevoli; da un lato c'è la moltitudine che è da se stessa una intelligenza, dall'altro lato vi sono alcune intelligenze eccezionali che valgono la moltitudine; da un lato c'è il senso comune, dall'altro lato l'ingegno, da un lato la coscienza, dall'altro lato la scienza, e per dirla con una immagine da tribunali, da un lato ci sono i giurati che glorificano Sardou, dall'altro lato gli uomini di legge che lo condannano. A chi ci domandasse il giudizio nostro intorno a questa combattuta commedia, risponderemmo senza titubare che poniamo il nostro voto fra quello del pubblico e quello dei critici, ma molto discosto da quello dei critici e molto vicino a quello del pubblico. M. Ulbach, che tutti videro la sera della prima rappresentazione strepitare nella sua loggia, confessa egli stesso d'essersi colto in flagrante delitto d'entusiasmo; indi si dá al passatempo, non sappiamo se più savio o più pazzo, di analizzare uno per uno i suoi battimani, di passare attraverso un esame fisico il bollore delle sue palme applaudenti; e dopo aver purgata la sua coscienza con questa confessione, si slancia a corpo perduto nella critica fredda e sleale della commedia. In tale maniera di agire c'è molta leggerezza, molta vanità e molta ingratitudine. Non ci piacque punto quel tronfio e puerile atteggiamento del critico del Temps.

Noi vogliamo tenere invece l'atteggiamento contrario: vogliamo piuttosto che annichilire il nostro applauso colla nostra critica, annichilire la nostra critica col nostro applauso. Una verissima frase di La Bruyère ci incoraggia a ciò: le plaisir de critiquer nous empêche d'être touchés des belles choses. La Bruyère, il maestro di coloro che osservano, il critico de' critici, il grande scrutatore degli uomini, notò questo pensiero, questo avvertimento.

Infatti quale utilità trarremo noi per l'arte, pel pubblico, per noi stessi, quando ci saremo tanto raffinati nella nostra critica da smarrirne il criterio? Quando avremo tanto sofisticato sulle cose dell'arte che non le capiremo, che non le sentiremo più? Quando avremo a forza di sapere perduta la fede del bello come gli scettici la fede del buono? "Criticismo" presso i tedeschi, che se ne intendono, è sinonimo di scetticismo; Dio ci scampi da questo sinonimo. La critica deve darci la prova scientifica, ideale ed estetica delle nostre impressioni, e per quanto ciò sia in potere della scienza, deve dimostrarcene le cause, deve meditarle e non combatterle, deve giustificarle e non contraddirle, deve renderci ragione dell'applauso, deve dare all'entusiasmo ciò che appartiene all'entusiasmo, al cuore ciò che appartiene al cuore. M. Ulbach, quando rinnega la mattina con la penna in mano, dopo una notte saporitamente dormita, le emozioni artistiche della sera, commette un atto colpevole, tradisce l'arte per mania della critica. M. Ulbach crede senza dubbio d'essere grande e bello e coraggioso quando grida al pubblico: "Guardate! ho applaudito anch'io ed ora fischio!" M. Ulbach pose. Ci paiono, da senno, assai bambineschi e assai deboli questi esprits forts della critica. Dov'è la logica, dove il raziocinio, dove il rispetto alla penna e al pensiero in quest'uomo, il quale, quand'è seduto in platea, subisce le passioni del pubblico, e quand'è seduto al tavolo, segue le ubbie dei critici? Meglio che mutare due volte d'opinione è ponderare seriamente e lungamente la prima ed arrestarsi a quella; oppure, se si muta giudizio, e' convien passare dal cattivo al buono e dal buono al migliore; ma ci pare che M. Ulbach abbia camminato a rovescio.

Secondo noi l'opinione più giusta intorno ai Nos bons villageois è quella del pubblico e la adottiamo noi pure, benché con una certa qual temperanza. Adottarla è andar contro a quasi tutti i critici francesi, né per ciò rimarremo dal farlo. Ci diletteremo anzi molto nel contraddire passo per passo gli appunti più gravi scagliati dagli scrittori più gravi nei giornali più gravi.

"C'est au public qu'il faut s'en prendre lorsque la critique est obligée par le succès de s'arrêter à des oeuvres indignes d'elle. Mais pour être inévitable, cette tâche de la critique n'en devient ni plus attrayante, ni plus facile, et l'on ne peut guère se résoudre à discuter sérieusement ce qui ne supporte pas l'examen". E perché tanto baccano? Wozu der Lärm? (come esclama Mefistofele dopo i farneticamenti dell'evocazione di Faust.) Wozu der Lärm? qual'è il sacrilegio che s'è commesso, qual'è la profanazione, qual'è il delitto? Certo nei placidi regni dell'arte accadde qualche scandalo grave per muovere un così portentoso dispetto; chi è quell'indignato che sulla guancia porta il rossor del pudore e sulla fronte il rossor della collera? E chi grida? dove grida? ed a chi grida? Il gridatore è Prévost-Paradol, il luogo dove si grida è la Revue des deux-mondes e il gridato è Victorien Sardou. Chi lo avrebbe mai detto? L'ingegno abbaia contro l'ingegno come un cane aizzato, la critica eletta mugghia contro l'arte eletta, il giornale ch'è la tribuna insulta il teatro ch'è il pulpito, la Revue des deux-mondes offende il Gymnase. Se i buoni s'accapigliano in tal modo, che faranno i cattivi? se il grave senatore togato va così arrabbattandosi colle pugna serrate e co' denti stretti per l'ira, cosa farà il plebeo, il tunicatus, lo schiavo? Prévost-Paradol, quel nobilissimo scrittore, quel delicato artista, quel severo filosofo, ha dimenticato per un'ora la sua serietà e il suo corretto stile. Vediamo un po' se ha dimenticato anche il suo antico amore, il suo studio grande: la scienza del criticare.

«Que l'ombre de Ducis nous pardonne si son nom nous revient à l'esprit dans cette circonstance; mais presque toutes les comédies de M. Sardou nous rappellent un mot charmant de M.e d'Houdetot sur une tragédie de Ducis, Oedipe chez Admète… – Que pensez-vous de la pièce nouvelle? – lui demandait-il. – De laquelle parlez vous? – répondit M.e d'Houdetot, – car j'en ai vu deux hier-au-soir. C'est ce qui arrive à tous les auditeurs de M. Sardou; il voient toujours deux pièces en une seule, et deux pièces qui les plus souvent n'ont rien à démêler l'une avec l'autre».

Perché tanta pompa di sdegno, perché tanta mostra di muscoli, di bicipiti e di torace, di vene enfiate e di narici dilatate contro l'innocente Sardou? Il "gladiatore" d'Agasias esiste già in una sala del Louvre ed ogni buon parigino può andare ad ammirarlo tutti i dì dalle dieci alle tre, né c'è bisogno alcuno che M. Prévost-Paradol offra al pubblico in se medesimo una copia della celebre statua eginetica. Perché evocare l'ombra del dimenticato Ducis e domandarle perdono di trascinarla nell'argomento dei Nos bons villageois? noi domanderemmo piuttosto perdono al Sardou se venissimo a ciarlargli di Ducis, di quel mediocrissimo uomo, traditore de' classici, traditore de' romantici e insieme plagiario di Corneille e di Shakespeare, profanatore miserabile ad un tempo di Amleto e di Edipo, uomo a buon dritto morto, sepolto, ammuffito e obbliato. Si offende la sacra memoria dei grandi morti immortali citando con tanta unzione e con tanta pietà il nome di Ducis. Dopo essersi inginocchiato davanti a quest'ombra, Prévost-Paradol trova che Ducis ha lo stesso peccato di Victorien Sardou: Oedipe chez Admète son due commedie in una, come Nos bons villageois. Ma forse anche ciò è falso, e doppiamente falso: in questo asserto noi troviamo due errori.

Errore primo: nei Bons villageois non ci sono punto due commedie. Il Prévost-Paradol ha preso per un'intera commedia le scenette di genere del primo e del secondo atto, e qui sta l'inganno; egli non ha capito che quelle scenette erano il semplice fondo su cui s'aggiravano le linee dell'unica e vera commedia che s'intravvede al primo atto, che si rivede al secondo, che scoppia con tutta la sua forza al terzo, che freme ancora nel quarto e che nel quinto si scioglie in un dolce sorriso. L'azione dei Bons villageois è una, unicissima, e dove mai Prévost-Paradol mi sa trovare in questa commedia materia per una seconda azione? Il cicalio delle lavandaie, ben lungi dal presentare gli elementi d'una superfetazione, per così dire, di soggetto, non ci pare quasi neanche un episodio, neanche un dialogo, neanche un seguito di scene, bensì un chiacchierio di gaie comari, un gorgheggio di passeri, una facezia; si dica lo stesso delle celie paesanesche dell'atto secondo nella bottega del barbiere. Queste scene sono il paesaggio del quadro le di cui figure reali sono il Barone, i due Morisson e le due donne del castello. La maniera del Sardou ci rammenta un po' il pennello di Salvator Rosa, paesaggista e figurista in uno. In tutta la commedia del Sardou appare questa doppia manifestazione del suo ingegno, per modo che non sappiamo se egli sia più Calame o più Meissonier.

L'originalità principale del nostro commediografo sta appunto nell'accordo ch'egli sa trarre da questo suo dualismo; e ci pare di avere scoperto le traccie della sua teoria e d'aver seguito le orme del suo sistema. Sardou cerca prima di tutto una tesi sociale, un intrigo. La tesi sociale corrisponde a ciò che noi chiamiamo "il fondo", il "paesaggio" della sua commedia, il quale fondo o paesaggio viene rappresentato da personaggi esclusivamente incaricati di ciò; l'intrigo è l'altra parte, la quale corrisponde alle "figure". Ma non diremo mai d'una commedia di Sardou: sono due commedie; come non diremo mai d'un quadro del Rosa: sono due quadri.

Errore secondo: la duplice azione non è un difetto. Per convincerci che lo sia, si dovrebbe incominciare a distruggerci davanti agli occhi tutto Shakespeare dalla sua prima commedia all'ultima tragedia. In quasi tutte le più mirabili e possenti opere dello Shakespeare appare la duplice azione. La duplice azione è uno dei segni di quel gigante. Tutte le sue tragedie sono biforcute e poderosamente ramificate come le corna d'un antilope immenso. Nell'Arrigo IV dramma c'è la commedia che si chiama Falstaff; nell'Antonio e Cleopatra c'è una tragedia a Roma e l'altra in Egitto; nel Re Lear c'è un'altro dramma che si chiama Glocester, nell'Amleto c'è un altro Amleto che si chiama Laerte.

Dunque M. Prévost-Paradol erra due volte: la prima perché osserva con intenzione di biasimo l'esistenza d'una duplice azione nei Nos bons villageois, la seconda perché questa doppia azione non c'è. Se ci fosse, essa sarebbe, secondo noi, un indizio di più dell'eccezionale ingegno di Victorien Sardou. M. Prévost-Paradol chiama Nos bons villageois: "tissu d'invraiesemblances, suite d'incidents et d'actions qui sont autant de défis portés au sens commun". La tela di quest'ultima commedia di Sardou ha un carattere speciale che la distingue dalle tele di quasi tutte le altre commedie dello stesso autore, e questo carattere è la semplicità. Una posizione drammatica sola, portata fino alle ultime sue conseguenze, ecco con quale innocente artifizio è composto l'intrigo di questa commedia. Questa posizione sulla cui base poggia tutta la favola del dramma, può narrarsi in una riga e già tutti lo sanno: un innamorato che per salvare la donna si finge un ladro, e costui è Henri Morisson. Ora, data questa posizione unica, dal contatto di Henri col padre suo, poi di Henri col marito, poi di Henri col padre e col marito assieme, poi di Henri col padre, col marito e colla donna, il Sardou fa scaturire la commedia intera, e la fa scaturire limpida, naturale, spontanea, senza nessun tessuto d'inverosimiglianzeseguito d'incidenti estranei e superflui. Sardou si è proposto in questi bons villageois una grande economia di avvenimenti: volle gli avvenimenti appena necessarii allo sviluppo de' suoi cinque atti. E infatti è così facile a tenersi a mente il soggetto, è così parco d'accessorii, è così semplice, che il Prévost-Paradol benché voglia evidentemente raccontarlo in modo da farlo sembrare una matassa informe di inverosimiglianze, lo fa stare tutto in una pagina della Revue, compresi i più minuti particolari. Se non che l'illustre critico francese raccontando questo soggetto di commedia incorre in una grave distrazione, e su questa distrazione fonda in piena coscienza una ferocissima accusa contro il povero Sardou. Lo strano si è che questa accusa, la quale tende a distruggere da capo a fondo la commedia, è falsa, falsissima; e benché tale, fu ripetuta da tutti i giornali francesi.

Citiamo l'accusa:

"Le voilà donc révenu dans ce parc (tutti i lettori capiscono che qui si parla di Henri Morisson), où le surveille la méchanceté des paysans; sa présence est denoncée au maître de la maison; on le corne, on le pursuit, on l'atteint enfin dans le salon, où il faut éxpliquer sa présence. Il n'a qu'un mot à dire, et puisqu'il vient cette fois pour cette jeune fille qu'il aurait pu si aisément et si honnêtement demander en mariage, sa conduite est absurde sans être criminelle. Il va sans doute dire la vérité, ou du moins cette partie de la vérité qui ne compromet personne et le fera seulement paraître aussi sot qu'il le mérite; mais cette vérité est encore trop commode à dire: il n'y a pas de danger qu'il la dise. Il aime mieux étendre la main, saisir une poignée de diamants et se faire passer pour voleur".

Qui appunto sta il culmine della commedia. Qui sta l'arte, qui sta l'ispirazione di Victorien Sardou. Henri non può fare altro che fingere di rubare i diamanti, e basta notare una circostanza dimenticata da Prevost-Paradol per isgominare dalle fondamenta la sua critica. Henri non entra nel parco per Geneviève, ma per Pauline, non è là per la demoiselle, ma per la dame. Basti citare queste parole stampate a pagina 98 della terza edizione dei Nos bons villageois per convincersi di ciò:

(Henri è già nella sala del castello, solo, quasi spaventato dall'audacia sua) "Tous le gens du château sont à la fête… le baron est au bal, je m'en suis assuré… Et sans doute elle est seule… C'est audacieux ce que je fais la. (Ma ecco, che entra in scena Geneviève invece di Paolina) Geneviève! quel contre-temps!"

Dunque se Geneviève est un contre-temps, Henri non è certamente entrato nel parco e nel castello per Geneviève, e la miglior prova è che appena egli l'ha scorta, s'è mosso per andarsene. Ma Geneviève lo vede e lo chiama. Henri bisogna che s'arresti. Di lì poi nasce la catastrofe logicissima. Come può dire Henri al Barone: "sono venuto qui per Geneviève", se realmente è venuto lì per la moglie del Barone? La presenza di Henri nel castello in quella notte è colpevole e, diciamolo pure, è pazza, è sconsigliata: bisogna espiarla. Il mezzo termine di Geneviève sarebbe alla coscienza di Henri una infamia maggiore, un rimorso maggiore, e poi là in quel parco, inseguito, circondato, scacciato da tutti, fuggente, tremante, disperato, non si ricorda già più di Geneviève. Vede Paolina, è colto con Paolina, bisogna salvare la moglie del Barone anzi tutto; non c'è altro mezzo che passare per ladro e farsi prendere co' diamanti in mano. Il mezzo è terribile, eccessivo ma necessario, e in questa necessità sta appunto il trionfo di Sardou. Pauline è innocente, è monda d'ogni macchia, Pauline non ama più Henri, non lo ha forse amato che un giorno solo e poi l'amore gli è tornato in uggia, in nausea, in paura, in tormento di spirito. Ed è appunto questa resistenza implacabile, questa virtù di Pauline che desta in Henri tutte le più violente ostinazioni dell'amore deluso: "Une femme qui s'enfuit… quel âpre désir de courir aprés elle". In quell'âpre désir c'è una infocata mistura di tutti i più veementi veleni dell'amore e della collera.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
27 июня 2017
Объем:
190 стр. 1 иллюстрация
Комментатор:
Правообладатель:
Public Domain

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