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Читать книгу: «Fra Tommaso Campanella, Vol. 2», страница 9

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«Mentre l'albergo mio non vede esangue
e gli spirti poggiar tremanti al cielo»,
 

offre una maledizione ed anche una preghiera, la quale mostra che l'autore riteneva del tutto imminente la chiamata agli esami,

 
«Deh Sig.^r forte, in me volgi tua faccia,
dà authorità più espressa al mio sermone
ond'i ministri di Sathan disfaccia».
 

Il terzo, che porta veramente il titolo «in lode di spagnuoli», offre una insinuazione contro lo Sciarava e una protesta di devozione a Spagna, la quale certamente nessuno vorrà prendere sul serio: bisognava pure che il poeta si preparasse qualche argomento in suo favore pel caso di una scoperta delle poesie, massime quando avea mostrato tanto poco rispetto verso un funzionario importante del Governo spagnuolo e tuttora deputato ad assistere il Sances durante il processo. Poniamo inoltre qui il «Sonetto di rinfacciamento a Musuraca», senza dubbio mal situato tra le poesie del 2o gruppo, e sempre capace di eccitare gli amici a rimaner tali anche «a tempo d'infelice stato»118. Con tanto maggior ragione poniamo qui anche il «Sonetto fatto a tutti carcerati», che del rimanente potrebbe esser posto anche tra le poche poesie del tempo del processo de' laici119: in esso si dice che era negata, oltre la favella e il commercio, benanco la difesa, ciò che si spiega col fatto dell'amministrazione delle torture decretata durante il processo informativo, senza dare anticipatamente la copia degli atti; e tra' varii istrumenti di morte è citata pure la sega, ciò che aggiunge qualche cosa anche alla credibilità dello strano supplizio già destinato a Maurizio in Calabria. Vi brillano poi i concetti elevati e i consigli virili al maggior segno; vi si canta

 
«… sol la virtù de' vostri petti
l'orgoglio del tyranno affrena e lega»;
 

vi si esalta il glorioso e bel morire per la libertà, e vi si dice

 
«Qui dolce libertà l'alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe anchor il paradiso vile».
 

Ma oltre gli eccitamenti in generale, diretti a' frati rimastigli fedeli, il Campanella diresse anche qualche eccitamento in particolare, p. es. al Petrolo, che sperava poter ricondurre a fedeltà; così dettò quel Sonetto che fra Pietro intitolò «in lode di fra Domenico Petrolo», e che veramente si deve dire di sollecitazione a ritrattarsi:

 
«Venuto è 'l tempo homai che si discuopra,
Petrolo mio, l'industriosa fede
che serbasti all'amico, e già si vede
ch'à tutte l'altre questa tua và sopra.
Mortifera, infedel, empia, ingrata opra
far simolasti, ch'a lui vita diede» etc.120.
 

Non si sarebbe potuto adoperare modi più insinuanti, facendo ottimo viso a pessimo gioco; s'intende quindi che il Petrolo ne sia rimasto convertito, come mostrò con la sua deposizione del 29 gennaio, ma pur troppo per brevissimo tempo.

Cominciata in sèguito la causa, sostenuto l'esame ed essendo in corso le confronte, precisamente al cadere del gennaio 1600, il Campanella rincorato dovè scrivere quel magnifico Sonetto «a sè stesso», che fu poi pubblicato dall'Adami e che comincia coi noti versi:

 
«Legato e sciolto, accompagnato e solo
chieto, gridando, il fiero stuol confondo,
folle all'occhio mortal del basso mondo» etc.122;
 

le quali ultime parole dinoterebbero il valore dato da' Giudici alle profezie e presagi, che egli dichiarò averlo guidato a ritenere imminenti grandi mutazioni. Di poi sofferta la dimora nella fossa del miglio e quindi la tortura, fatta in questa la sua confessione, non dovè mantenersi in tanta fiducia, e lo mostrerebbe il Sonetto «alla Beata Ursula napolitana a cui si raccomanda», inserto nella raccolta dopo il precedente121: tutto il Sonetto esala lo sconforto del Campanella, che in quel momento sperava soltanto in una protezione superiore;

 
«Pregoti per l'honor del sacro manto
di cui spogliato incorsi in gran ruina,
 
 
....
E canterò tornando al mio bel nido
il fin de' miei travagli» etc.
 

inutili speranze, desolanti ricordi. Ma non dovè tardare a sentire tanto maggiormente il bisogno di ravvivare la fede ed anche l'affetto de' suoi compagni, e crederemmo che dapprima gli abbia data una buona occasione la fermezza di fra Pietro di Stilo nel respingere le esortazioni di Maurizio a seguire l'esempio suo e a confessare: così alla 2a metà di febbraio e 1a di marzo ci parrebbe potersi assegnare i due Sonetti «in lode di fra Pietro di Stilo» seguìti da' tre «in lode del Rev.do P.e fra Dionisio Pontio»123; l'essere stati posti nella Raccolta in ordine inverso ben può spiegarsi con la classificazione della relativa importanza data da fra Pietro Ponzio a' frati compagni del Campanella. Fra Pietro di Stilo, che aveva tanto poco partecipato alle speranze ed a' maneggi della congiura, soffriva tanti disagi e maltrattamenti per l'affetto al Campanella, su cui vegliava assiduamente e senza ritrarsi per qualsivoglia motivo; così ben si spiega tutto il contesto de' due Sonetti, ne' quali si vede pure il Campanella tuttora sconfortato:

 
«Sino all'inferno un cavalier seguìo
l'avventurato amico à grande impresa.
 
 
....
 
 
Frati, amici, parenti, chi mi nega,
chi più ingrato mi trade, e mi maligna (int. il Pizzoni)
chi non volendo nel mio mal si piega (int. il Lauriana).
 
 
Solo il travaglio e la rabbia maligna
titulo in fronte del tuo honor dispiega
Rè della fede chi mai non traligna.
 
 
....
 
 
Fedel combattitor, mai non s'estingue
più il nome tuo, poiche serbasti solo
virtù, religion, patria, et amici».
 

In tal guisa il Campanella, pieno di gratitudine, onorava fra Pietro Presterà, «Pietro suo», come poi lo disse nell'opera ricomposta Del Senso delle cose: ma per fra Dionisio il caso era abbastanza diverso. «Senza dubbio fra Dionisio avea motivo di dolersi del Campanella, che già prima nella Dichiarazione, ma poi anche peggio nella confessione in tortura, avea rivelato l'esistenza di un concerto per fare la Calabria repubblica compromettendo lui; ed avendo sostenuto il polledro con tanta fermezza, verosimilmente la sua vanità lo conduceva tanto più a sparlare del Campanella, il quale, fin dal 1o Sonetto, «senza voce, afflitto e lento» ne carezza al maggior segno la vanità:

 
«Cantai l'altrui virtuti, (int. di Maurizio), hor me ne pento
Dionigi mio, non havean senno vero» etc.
 

Umiliato per non essere riuscito, all'opposto di lui, nella prova del polledro, il Campanella spiega la cosa con una finzione poetica, ma anche più curialesca, e infine si rivela disposto a soggiacere a tutto:

 
«In me tanto martìre io non soffersi
ch'in te stava il valor, el senno mio,
e solo al viver tuo fur ben conversi.
S'a te par, io men vado, o frate, a Dio
nè chieggio marmi, nè prose, nè versi,
ma tu vivendo sol viverò anch'io».
 

Il 2o Sonetto, che risente troppo del gusto triviale del tempo, torna sull'argomento e glorifica fra Dionisio perfino con la testimonianza degli spiriti di Averno; ma vi si fanno notare i seguenti versi,

 
«Sfogaro mille Spagne e mille Rome,
al tuo martir unite, l'odio interno».
 

Il 3o Sonetto loda fra Dionisio per l'altro atto suo, per le confronte, le quali davvero non si scorge da qual lato potrebbero dirsi gloriose; e l'innesto, che vi si trova, dell'arme de' Ponzii, del giuoco degli scacchi e cose simili, apparisce una concessione al gusto non solo de' tempi ma anche de' Ponzii: nè bastarono i tre Sonetti, e più tardi ce ne volle ancora un quarto. Ma bisogna per ora aggiungere che oltre a questi sinora detti vi fu anche il Sonetto «al sig.r Gio. Leonardi Avvocato de' poveri», Sonetto tirato addirittura co' denti, manifestamente obliato tra le poesie del 1o gruppo e posto di ripiego tra quelle del 2o: esso deve riportarsi per lo meno alla fine del febbraio, poichè allude alle difese che il De Leonardis già scriveva, ed agli argomenti che preparava quale Avvocato comune a tutti i frati

 
«Contra l'ombra di morte accesa lampa»124.
 

Sicuramente poi nel marzo e prima metà di aprile la mente del Campanella fu tutta rivolta alla prosa e non alla poesia: basta ricordarsi de' due colloquii notturni passati tra lui e fra Pietro Ponzio, il 10 e il 14 aprile. Ma a quest'ultima data appunto fra Pietro gli annunziava di avere «sparso per tutta Napoli» i Sonetti, il Campanella annunziava di volerne comporre uno pel Nunzio, fra Pietro gli chiedeva in grazia di voler comporre prima quelli per lui e per suo fratello. Attenendoci più che è possibile all'ordine serbato nella raccolta di fra Pietro, dobbiamo dire che il Campanella siasi adattato a compiacere il suo amico, ma componendo un solo Sonetto, in cui abbracciò insieme fra Pietro, il fratello Ferrante, ed anche l'altro fratello fra Dionisio; di poi compose quello pel Nunzio, o meglio, come abbiamo già detto altrove, quello pel Papa da doversi far capitare nelle mani del Nunzio125. Il Sonetto «in lode de' tre fratelli di Pontio» concede loro per attributi nientemeno che i tre principii metafisici, e li mostra un riflesso della Trinità: Ferrante rappresenterebbe la potenza, fra Dionisio la sapienza, fra Pietro l'amore; e ci basti sapere che fra Pietro abbia rappresentato pel Campanella l'amore o «il buon zelo». Quanto al Sonetto «al Papa», l'ultimo del gruppo che abbiamo fin qui esaminato, esso può considerarsi come l'embrione di quelle «appellationi segrete» che il Campanella intese poi di avere inviate al Papa massimamente con le sue lettere del 1606-1607: egli si raccomanda come meglio può, e riescono notevoli sopratutto i seguenti versi:

 
«Non vedi congiurati a farli guerra
i nemici alla patria Italia bella,
ch'egli al valor anticho rinovella,
dove il zelante suo parlar s'afferra».
 

Ignoriamo se il Sonetto sia stato trasmesso al Papa: nel Carteggio del Nunzio non ne troviamo il menomo indizio, e del rimanente, laddove fosse stato trasmesso, niuno potrebbe meravigliarsi che il ricordo della patria Italia bella, e del valore antico da rinnovellarvisi, avesse trovato il cuore SS.mo indifferente o peggio; basta che esso sia giunto a noi, per farci sempre meglio conoscere ed apprezzare gl'intendimenti del Campanella.

Passiamo ora a vedere le prose, delle quali il Campanella si occupò nel tempo suddetto. Ve ne sarebbero a considerare innanzi tutto tre, la 1a Delineatio defensionum, la 2a Delineatio… Articuli prophetales, l'Appendix ad amicum pro Apologia: le due prime, che rappresentano le Difese presso i Giudici, comparvero più tardi, il 3 giugno 1601, durante il processo di eresia per mano di fra Pietro di Stilo126; l'ultima, che rappresenta una difesa presso un amico, comparve varii anni dopo, con ogni probabilità nel 1607, in coda agli Articoli profetali ricomposti allora in una forma più larga, verosimilmente essa pure ricomposta in una forma più larga di quella della composizione primitiva127. Si può affermare con certezza, e ne vedremo tra poco le ragioni, che appunto in quest'ordine di successione le dette tre scritture siano state composte, essendone cominciata la composizione un po' prima della 2a metà di febbraio. Si ricordi che agli 11 febbraio era stato già accordato al Campanella «il termine e la commodità» alle difese, e che allora il Sances volle da lui una esposizione delle profezie sulle quali fondava le sue credenze di vicine mutazioni, onde egli dettò al Barrese notaro della causa molti Articoli profetali (ved. pag. 72 e 73). È naturale ammettere che il Campanella abbia posto subito mano a scrivere le sue Difese, stimando indispensabile aggiungervi anche gli Articoli profetali, mentre al Sances era parso conveniente acquistarne una nozione meno vaga mediante uno scritto. Ma tutto questo lavoro non potè esser pronto che pel 10 aprile, e il Campanella, giudicando che la causa sarebbe presto finita male e che bisognava pure aprirsi una via di uscita dall'imminente processo di eresia, avea dovuto manifestarsi pazzo fin dal 2 aprile: così le Difese scritte non poterono venir presentate in tempo, ma il Campanella continuò a lavorarvi di nascosto, senza dubbio nella speranza fallace che qualora non fosse stata giuridicamente convalidata la pazzia, esse avrebbero ancora potuto servire. Che il lavoro sia stato compiuto il 10 aprile, si desume dal colloquio notturno tenuto a quella data con fra Pietro Ponzio, il quale, avendo domandato al Campanella se avesse scritto abbastanza in quel giorno, ne ebbe per risposta «assaissimo, tutto»; l'aver poi il Campanella soggiunto che avea bisogno di dare l'indomani una pagina scritta a fra Pietro di Stilo, farebbe credere che in quel giorno medesimo egli avesse composta pure l'Appendice in forma di lettera, rappresentata da quella pagina scritta; sicchè la data di essa sarebbe il 10 aprile, ma resti ben fermato non potersi sostenere che essa sia stata allora scritta ne' termini precisi ne' quali è pervenuta a noi. Dopo le dette scritture abbiamo fondata ragione di ammettere che il Campanella si sia occupato di ricomporre l'opera già composta in Calabria «Della Monarchia di Spagna», volendosi servire anche di essa per sua difesa, quando si fosso ripigliata la spedizione della causa rimasta sospesa in que' giorni; e nella ricomposizione di detta opera ebbe ad impiegare il tempo immediatamente consecutivo, dal maggio 1600 ad una parte del 1601, mentre era in pieno svolgimento il processo di eresia.

Prima di esporre i particolari della Difesa, vogliamo notare alcune interessanti singolarità, che colpiscono vedendo in qual modo le Difese si trovano scritte: ne risulterà provato l'ordine di successione con cui vennero composte tutte le scritture sopra menzionate, ed anche chiarita la quistione de' libri, che il Campanella in sèguito affermò aver voluto presentare in sua discolpa, e in parte aver fatto subito venire dalla sua patria, ma che il Sances non volle si presentassero nè si sapessero (ved. pag. 84). Le Difese con gli Articoli, così come furono trasmesse più tardi a' Giudici dell'eresia, non appariscono scritte di mano del Campanella, bensì trascritte da due copisti, de' quali il primo che trascrisse la «1a Delineatio» è rimasto ignoto, ma vedremo a suo tempo essere stato procurato da un Vincenzo Ubaldini di Stilo, l'altro che trascrisse gli Articoli fu certamente fra Pietro Ponzio, come apparisce dal carattere e come fu chiarito anche presso il tribunale per l'eresia: costoro ebbero a porre in ordine il contenuto di tante carte e cartoline staccate avute dal Campanella, il quale poi lo rivide, lo corresse, vi appose qualche postilla e qualche aggiunta di mano sua, ciò che merita la nostra attenzione128. Fin dalla prima pagina colpisce il vedere enumerati quali libri suoi, atti a mostrare la sua affezione al Re e alla Spagna, i Discorsi a' Principi d'Italia che avea mandati all'Imperatore, il Dialogo contro i Luterani mandato a Massimiliano ed esistente anche presso Mario del Tufo, la Tragedia della Regina di Scozia conosciuta in Stilo e dal Principe della Roccella, e poi anche la Monarchia di Spagna, ma questa con un'aggiunta posteriore autografa, e con le circostanze dell'essere stata scritta «ad instantiam praetoris» e del trovarsi «in suis sarcinulis», naturalmente in Stilo; la cosa medesima si veda nell'ultima pagina degli Articoli profetali, dove sono enumerati i libri suoi atti a chiarire le cose enunciate negli Articoli, cioè la Monarchia de' Cristiani esistente presso il Card.l S. Giorgio, e il libro Del Regime della Chiesa esistente in Stilo «in suis sarcinulis» e poi anche, e sempre con un'aggiunta autografa, la Monarchia di Spagna, con la circostanza del trovarsi parimente in Stilo. Adunque il libro della Monarchia di Spagna dovè essere scritto dopo le Difese, probabilmente in rifazione di un esemplare perduto in Stilo durante le sue peripezie, ma non potè essere presentato perchè il Campanella mantenevasi tuttora pazzo, onde v'è ragione di credere che invece di farlo venire subito da Stilo, lo abbia mandato a Stilo per farlo trovare in quel posto e giustificare in tutto e per tutto la sua asserzione; questo per un altro verso si dovrebbe dire egualmente del libro del Regime della Chiesa, perchè sappiamo che era stato scritto fin dal tempo della dimora in Padova ed era stato mandato a Mario del Tufo, e con ogni probabilità, mentre premeva che fosse venuto nelle mani de' Giudici, non si volle compromettere ulteriormente l'amico e protettore che ne possedeva un esemplare; deve d'altronde ritenersi molto naturale che in Calabria la prima composizione della Monarchia di Spagna si fosse perduta durante le peripezie del Campanella, mentre sappiamo con certezza che pure l'originale del Regime della Chiesa fu ivi «rubato da infedeli amici» come si legge nel Syntagma. Un'altra importante aggiunta autografa nella «1a Delineatio» si legge poco dopo quella finora esposta e commentata: avendo affermato che dalle profezie si rileverebbe non aver finto «ad malum tegendum», di seconda mano aggiunse che ciò si rileverebbe «et ex articulis prophetalibus ab eo additis» etc.; deve dunque dirsi che gli Articoli siano stati veramente scritti dopo la «1a Delineatio», che ad essi quindi si riferiva la dimanda fatta nel colloquio notturno da fra Pietro Ponzio il quale era impegnato a ricopiarli, e la data del 10 aprile sarebbe senz'altro la data in cui il Campanella dovè finirne la composizione. Mettiamo poi in un fascio tutte le altre aggiunte sparse nella «1a Delineatio», le quali recano essere stati i testimoni uniformi nelle profezie e varii nel rimanente, essere stato Maurizio persuaso a rivelare da un Fiscale in abito di confrate, essersi ritrattati il Caccia e il Vitale, essersi una volta ritrattato anche il Pizzoni; tutto ciò mostrerebbe che la composizione della «1a Delineatio» dovè cominciare anche prima che fosse stata consegnata la copia degli Atti processuali, rappresentando le dette aggiunte, quasi tutte, notizie raccolte dagli Atti; nè osta che in una si legga «detur copia processus et demonstrabitur», poichè ve ne sono altre che dicono «ut patet ex processu» e il Campanella avrebbe voluto non solo gli Atti concernenti la persona sua ma anche quelli concernenti i suoi compagni, che del resto dovè avere almeno in frammenti di soppiatto. Può dunque dirsi che egli abbia cominciato a scrivere questa «1a Delineatio» non appena sofferto il polledro e fatta la confessione, quando n'ebbe immediatamente «la comodità», ma deve anche dirsi che l'abbia compiuta dopo di avere avuto conoscenza della Difesa scritta dal De Leonardis e della replica del Sances, poichè vedremo or ora, nell'ultima parte di essa, non solo discusse con calore le identiche quistioni di dritto, ma anche respinte le cose che il Sances avea notate su' costumi, sulle passate imputazioni di eresia, sull'aver dato motivo di far morire molte persone: e gli Articoli profetali, da non doversi confondere con gli Articoli analoghi dettati al Barrese dietro richiesta del Sances, e rimasti senza dubbio nelle mani del Sances, naturalmente doverono essere scritti, nella loro ultima parte, tra le angustie della dimostrazione di pazzia e tra' pericoli della rigorosa sorveglianza.

Veniamo a' particolari delle Difese, che ci sembra conveniente esporre con larghezza e poi commentare un poco, sebbene venute tanto più tardi in luce, non presentate al tribunale competente e rimaste affatto perdute pel Campanella. Teniamo per fermo che i lettori vorranno conoscerle nella loro integrità testuale, ma ciò non ci dispensa dall'obbligo di farne una minuta esposizione: deve anzi dirsi una fortuna poter udire subito dopo lo svolgimento del processo la voce dell'imputato, e poterne trarre una conclusione meno fallace intorno alla sua colpabilità ottenebrata da tanti interessi diversi.

Nella «1a Delineatio», appellandosi a' Libri sacri come fonte di ogni legge, il Campanella comincia dal notare che in essi son detti colpevoli di lesa Maestà solamente quelli che prendono le armi contro il Re giusto o per malevolenza o per ambizione, non quelli che perfino consumarono la ribellione guidati dalla profezia e comunque fossero cattivi soggetti, adducendo gli esempi di Siba e di Chore da una parte, e di Jeroboam, di Jehu e di Joiada dall'altra. E soggiunge: «ma fra Tommaso Campanella, insieme con quelli i quali aderirono a lui con retta intenzione, non fu mosso a cospirare nè dall'ambizione nè dalla malevolenza, se pure cospirò, bensì guidato dalla profezia umana e divina; nè la sua fu una cospirazione contro il Re, ma una certa cautela contro le incursioni de' barbari e un'ammonizione a' conterranei perchè si mantenessero incolumi ne' monti, se per fatalità avvenisse quanto si prediceva, laonde egli non è ribelle nè degno di morte». Passa quindi a dimostrare che non lo fece per ambizione di Regno, perchè era impossibile a lui poveretto distrarre il Regno o la provincia dal dominio di un Re tanto forte, e bisognava esser matto per ingannarsi fino a questo punto; e dice che per natura e per fortuna egli era impotente a tali desiderii, e rassegna i suoi precedenti, e nota le sue carcerazioni e malattie anteriori, il ritorno in patria per salute a consiglio de' medici Tancredi, Politi e Carnevale, i suoi studii alieni dalle armi, le sue predicazioni per indurre il popolo a fabbricare una Chiesa di cui il convento difettava ed egli scavò i fondamenti; e nota il libro Sulla predestinazione che scriveva contro Molina per S. Tommaso, e la Tragedia della Regina di Scozia contro gli Anglicani in favore del Re, la sua vita di studioso e religioso, la sua opera di pacificatore, e perfino la sua timidità provata nel tormento, citando come testimoni fra Pietro di Stilo, il Petrolo, tutti i suoi compagni di dimora, e conchiudendo che «dissero cosa mostruosa coloro i quali gli attribuirono la cupidigia di Monarchia». Dimostra poi che non cospirò per malevolenza verso il Re e il suo dominio, perchè aveva sempre ottenuto favore dagli spagnuoli ed austriaci, come dal Reggente Marthos (Reggente di Cancelleria in Napoli) e dall'Ambasciatore di Roma (il Duca di Sessa), e parimente dall'Arciduca Massimiliano e dall'Imperatore, i quali scrissero a Roma in favore di lui e di Gio. Battista Clario carcerati; onde per gratitudine egli compose il Trattato in cui sosteneva che l'Italia per suo bene dovea desiderare il dominio del Re di Spagna, Trattato che mandò all'Imperatore mediante Gio. Battista Clario, ed egualmente il Dialogo contro gli Stati del settentrione calvinisti e luterani, che mandò a Massimiliano e che trovavasi in copia presso D. Mario del Tufo, come pure l'anzidetta Tragedia, nota a Stilo ed al Principe della Roccella, ed il libro della Monarchia di Spagna, scritto ad istanza del pretore (Governatore de Roxas?) e colmo di lodi per gli spagnuoli, che trovavasi nelle sue poche masserizie. Nota infine la sua amicizia col pretore spagnuolo e co' Presidi della Provincia (gli Auditori?), l'essere stato sempre invitato dal governatore a predicare, e l'aver detto nelle sue prediche tante cose in favore del Re: che Dio avea dato la Monarchia agli spagnuoli perchè aveano combattuto 700 anni contro i mori nemici della fede, mentre gli altri Principi cristiani si combattevano tra loro; che il Re avrebbe distrutto i turchi quando costoro si sarebbero divisi giusta la predizione di Arquato astrologo; che se nel Regno esisteva qualche durezza, essa dovevasi ai difetti del popolo e de' ministri, non già del Re; che nella prossima mutazione del mondo il Re Filippo avrebbe rappresentata la parte di Ciro, secondo i detti di Esdra e di Isaia, poichè dovea liberare la Chiesa dalla Babilonia de' turchi e degli eretici, edificare Gerusalemme, cioè Roma, e stabilire il vero sacrificio dovunque nel mondo, girando il suo imperio col sole, ogni ora facendo giorno in qualche parte del Regno suo e celebrandosi continuamente la Messa in siffatto giro, la quale sentenza era invalsa tanto, che Fulvio Vua sindaco di Stilo l'avea riprodotta nel recitare il prologo di una rappresentazione della Passione di Cristo, citando il Campanella fra' battimani generali. Così egli era stato sempre pel Re ed avea procurato che gli altri lo fossero, ne conservava l'immagine ed amava coloro che le facevano onore, come erano in grado di attestare fra Pietro di Stilo, il Petrolo, fra Scipione Politi, tutti gli Stilesi; nè poteva dirsi che egli si fosse infinto, mentre avrebbe agito contro sè medesimo, perocchè se voleva tra due mesi distruggere il dominio del Re, come mai così accanitamente l'edificava? e come mai il Popolo poteva credergli in tanta contraddizione? conchiudendo: «l'edificazione è attestata da molti e probi uomini, la distruzione segreta da pochi e scellerati, a chi crederete voi o giusti giudici?». Escluso quindi il movente dell'ambizione e della malevolenza contro la Maestà, rimaneva il movente della profezia, e non già contro ma a tutela della Maestà. E qui egli si fa a citare tutte le previsioni, tutt'i prodigi, tutte le profezie ad una ad una (sono state già accennate troppe volte e possiamo dispensarcene), aggiungendo di avere interpretate le imminenti mutazioni a favore del Re e della Chiesa, col servirsi delle affermazioni de' Profeti e de' Santi, col sostenere che prima della fine del mondo doveva esservi «un solo ovile ed un solo pastore in una sola Repubblica cristiana, a capo della quale il Pontefice Romano», che «il Re avrebbe adunato i Regni e il Papa li avrebbe accolti nel suo ovile con maggior potestà». E dice che i frati di S. Domenico doveano preparare tale repubblica, e con autorità sacre e profane dimostra la futura repubblica, preludio della celeste, desiderio degli uomini pii e de' Profeti, de' Poeti e de' Filosofi, da verificarsi con la fusione di tutti i principati in un Regno Sacerdotale ammesso anche da Platone; e nota che riusciva esaltato il Re Filippo, posto da Dio per soggiogare tutte le genti e i Regni, onde il senso della repubblica predetta «era utile al Re prima che al Papa». Aggiunge non poter essere condannato nemmeno quando le mutazioni predette non si avverassero, poichè egli seguiva i Padri e i Santi, che pure errarono; egli non era Profeta ma seguiva i Profeti, e d'altronde nota che chi scorge i segni è tenuto a mostrarli, citando in ciò l'esempio di Geremia e il precetto di S. Pietro. Prevede intanto un argomento del Fisco, l'avere cioè lui detto che bisognava «fare la repubblica con l'eloquenza e con le armi ne' monti»: e risponde che spettava a' Domenicani il prepararla, e lo dimostra con molte autorità, aggiungendo che pure a' filosofi spetta trattare della repubblica, ed egli, filosofo cristiano, come S. Tommaso, Egidio ed altri, ne trattò scrivendo il libro della Monarchia universale dei Cristiani che trovavasi presso il Card.l S. Giorgio, ed in Stilo scriveva un libro sulla maniera di formare quella Monarchia secondochè avea promesso nel libro anteriore; donde bellamente provavasi «che egli non avea voluto preparare la repubblica per sè stesso, ma preparare pel Papa e pel Re un seminario di uomini grandi nelle lettere e nelle armi, acciò potessero essere inviati dal Re e dal Papa pe' negozii di pace e di guerra, e mostrare il preludio della repubblica grande universale» etc. Prevede ancora un'obiezione, cioè, chi gli avea data una missione simile? E risponde che avea «avuto nell'animo un istinto divino appoggiato da segni e da profezie», che Dio gli avea dato de' segni, ed egli avea considerato a proposito servirsi del cattivo evento in bene, e così «ciò che disse non fu un tentativo di ribellione ma una cautela contro il male imminente, perocchè non avrebbe fatta la republica se non si fosse avverata la mutazione; secondochè provasi dalla confessione sua»; e come i Veneti non furono ribelli, quando per mettersi al sicuro da' barbari occuparono gli scogli e il mare Adriatico e fecero la repubblica, così essi pure non lo sarebbero stati nell'occupare i monti se la mutazione si fosse avverata.

Continuando, passa a ribattere le testimonianze raccolte contro di lui. I testimoni aveano deposto «che egli voleva ribellarsi appoggiato agli aiuti de' turchi, de' banditi e de' predicatori»: ma non lo convincevano intorno a ciò, sia perchè egli non poteva ambire l'impossibile ed era amico degli spagnuoli, come avea già provato, sia perchè que' testimoni o parlavano per detto altrui, o erano complici ed uomini scelleratissimi, ed anche aveano fatte confessioni estorte per forza e per inimicizie. Tutti aveano detto che egli metteva innanzi le mutazioni, laonde non vi era intenzione di ribellarsi ma di difendersi da' nemici del Re e del Papa; quanto essi aveano aggiunto proveniva o da cattiva intelligenza, o da inimicizia, o da malvagità, e nelle cose aggiunte a lui sfavorevoli erano «varii», e nella cosa principale a lui favorevole, cioè la profezia, erano uniformi, onde risultavano a discarico più che a carico. D'altronde la profezia di una mutazione è sempre apparsa così vicina alla ribellione medesima, che tutti i Profeti, come Michea, Geremia, Amos e del pari gli Apostoli e Cristo Signor nostro, furono incolpati di tale delitto; qual meraviglia che lo sia stato lui poveretto? Ma egli non si appoggiò mai all'aiuto de' turchi; nessuno lo disse se non per detto altrui, e lo stesso Maurizio che parlò co' turchi non disse che vi era stato mandato da fra Tommaso, ma che vi era andato spontaneamente; e ciò quantunque gli fosse nemico. Gli era nemico, perchè dubitò che esso fra Tommaso, il quale lo rimproverò pel salvacondotto stabilito co' turchi, lo rivelasse; inoltre perchè esso fra Tommaso, mediante una domestica, avvertì Giulio Contestabile che Maurizio si era nascosto nella piazza di Stilo per ucciderlo, e questo non succedendogli, nello stesso giorno Maurizio si portò a S. Maria di Titi per uccidere fra Tommaso e lo perseguitò per 7 miglia. E però Maurizio risultava degno di fede quando negava di essere stato mandato presso i turchi da lui, non già quando deponeva contro di lui per inimicizia; poichè era testimone unico, nemico, e facinoroso, che aveva ucciso più persone e volle vendicarsi di ciò che esso fra Tommaso avea deposto in iscritto contro di lui in Castelvetere, come rilevavasi dal processo. Allorchè esso fra Tommaso lasciò Davoli e Maurizio, trovandosi insieme con fra Domenico, veduti in mare i turchi li sfuggì, malgrado avesse visto il salvacondotto dato da essi a Maurizio; e però non avea confidenza ne' turchi, sebbene avesse detto doversi essi dividere sotto due Re secondo la profezia di Arquato astrologo, ed uno di costoro dover venire alla fede ed alla repubblica; ma Maurizio faceva queste cose perchè fosse temuto ed avesse danaro dagli amici, servendosi male de' detti di esso fra Tommaso, al pari degli scellerati ed eretici i quali abusano anche dei detti degli Apostoli. E poi Maurizio ridotto agli estremi ebbe speranza di salvarsi, deponendogli contro; giacchè glie lo persuase un certo fiscale in abito di confratello, promettendogli la vita sotto la parola Regia, come in sèguito udì dalla bocca di lui esso fra Tommaso, e vi erano per testimoni sacerdoti e persone dabbene che l'affermavano. «Nè esso fra Tommaso volle servirsi de' banditi come nemici del Re, ma come uomini armati, volgendoli al bene: perocchè propose di servirsi anche di uomini probi non banditi, come rilevasi dal processo. A' Principi amici poi egli dichiara non aver rivelato nulla, non perchè fosse cosa cattiva, ma perchè agli uomini felici ogni presagio di mutazione rincresce». Quanto a Claudio Crispo, costui rivelò per orribili tormenti non scritti in processo; ed era bandito, omicida e nemico di esso fra Tommaso, il quale non avea voluto trattarne il matrimonio ed avea detto al Pizzoni che avvertisse il Signore del luogo che Claudio voleva ammazzarlo, onde si rifiutò di recarsi a Davoli quando egli ve lo chiamò per mezzo del Petrolo; adunque non meritava fede. Quanto al Caccia, al pari del Pisano, era stato esaminato in foro non ecclesiastico, ed era bandito ed omicida, nemico egualmente di esso fra Tommaso, il quale ricettò nella sua cella Marcantonio Contestabile quando egli voleva ucciderlo per averne avuto un colpo di archibugio; ed avea detto di aver parlato con fra Tommaso nel giugno, mentre aveagli parlato nella settimana santa, e poi sul punto di morte si era ritrattato. Quanto al Pisano e a Gio. Battista Vitale, oltrechè erano scelleratissimi, non aveano mai parlato con fra Tommaso; e nel carcere di Castelvetere non si parlò di quello che disse il Pisano, come lo provavano la sconvenienza della cosa e le testimonianze del Bitonto e di fra Dionisio; il Vitale poi sul punto di morte si era ritrattato. Quanto al Pizzoni, esso era scandaloso, scellerato ed infame (e qui nota ad una ad una tutte le colpe di lui minutissimamente ed anche ingenerosamente, con un odio manifesto); avea promesso di ritrattarsi nelle cartoline scritte entro il Breviario, e si era una volta ritrattato, e poi era tornato alle prime dichiarazioni, onde dovea dirsi bilingue, detestato da Dio nell'ecclesiastico, e qual fede potea fare? Il Lauriana era falsario, come lo provavano le sue lettere mandate a fra Dionisio ed a' fratelli Ponzii, e varie altre circostanze rilevate nel processo; era infame, come lo provava la sua vita anteriore; ed esso fra Tommaso nella sua confessione non lo nominò, poichè essendo infame non aveagli mai parlato, ed anzi si rifiutò di farlo accogliere nel convento di Stilo, onde gli divenne nemico. Fra Domenico Petrolo poi nemmeno meritava fede, perchè si lasciò persuadere dal Lauriana mentre era nella medesima fossa, nella quale scrisse esservi stato posto perchè dicesse il falso; inoltre in Lombardia aveva avuto penitenze come manesco.

118.Ved. Doc. 489, pag. 569.
119.Ved. Doc. 447, pag. 553.
120.Ved. Doc. 451, pag. 554.
122.Ved. Doc. 439, pag. 550.
121.Ved. Doc. 440, ib.
123.Ved. Doc. 449 e 450, pag. 554; dippiù gli anteriori 444-46, e 448, pag. 552-53.
124.Ved. Doc. 464, pag. 559.
125.Ved. Doc. 455, pag. 556.
126.Ved. Doc. 400, pag. 475.
127.Ved. Doc. 268, pag. 188.
128.Anche nella stampa di questi documenti ci siamo ingegnati di riprodurre le postille e le aggiunte in modo da poterle distinguere dallo scritto primitivo impiegandovi altro carattere: preghiamo i lettori di guardarli, in riscontro a quanto stiamo per dire; ved. Doc. 401, pag. 478.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
850 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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