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Читать книгу: «Fra Tommaso Campanella, Vol. 2», страница 10

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Dopo di aver combattuto i testimoni, il Campanella combatte i primi giudici, accenna all'imputazione di eresia, discute le quistioni di dritto, e formola la sua conclusione. Fra Marco di Marcianise era vecchio nemico di fra Dionisio per le controversie de' frati Riformati. Fra Cornelio lombardo era egualmente nemico di fra Dionisio per molte cause fratesche, e poi avea preso danaro; 100 ducati da Mesuraca per fare un processo capitale, 50 ducati da' parenti di Cesare Pisano per favorirlo, 100 ducati da fra Vincenzo Rodino e fra Alessandro di S. Giorgio per liberarli dalla carcere. Lo Sciarava, giudice nell'altro foro, era stato giudice e parte, avea magnificata la causa della ribellione per magnificare sè medesimo presso il Re, trovavasi da due anni scomunicato dal Vescovo di Mileto patrono di esso fra Tommaso; avea preteso la ribellione essere fomentata da Prelati e da Principi, ed aveva amministrati tali e tanti tormenti da far dire ad ognuno più di quanto sapesse, mentre anche i calabresi, per natura loro, credono di esonerarsi col dire più di quanto sanno non solo contro i nemici ma anche contro gli amici. E poi soggiunge: «Non deve pregiudicare ciò che falsi testimoni affermano, l'aver lui voluto fondare eresia, poichè questo deve discutersi non già ritenersi in anticipazione, nè egli ne fu mai confesso o convinto, benchè ne sia stato veementemente sospetto; e la sospizione si è verificata anche in persona di Profeti e di Santi, che trovansi condannati come eretici e seduttori. Nè in Calabria è possibile fondare eresia senza le forze de' Principi, siccome egli disputò nel libro della Monarchia, e se avesse avuta questa intenzione sarebbe andato in Germania o a Costantinopoli. Così mostransi riprensibili le parole sue mal comprese, non già la sua vita e i suoi costumi, circa i quali egli chiede di essere inquisito benchè si trovi diffamato. E i suoi travagli passati non lo rendono cattivo, ma forse piuttosto timido, giacchè la cattiva azione fa l'uomo cattivo… Oramai si è fatto palese che i pensieri di fra Tommaso erano rivolti all'unione de' Cristiani». Soggiunge ancora: le pruove testimoniali dicono tutto al più aver lui voluto ribellare solamente di seconda intenzione, cioè nel caso in cui fossero avvenute mutazioni. Ma bisogna distinguere il reato commesso e il reato semplicemente voluto, e quello contro la persona del Re e quello contro il Regno. Chi l'abbia commesso merita la morte e non può darglisi di più; chi l'abbia solamente voluto merita qualche cosa di meno; chi l'abbia voluto di seconda intenzione merita anche meno di chi l'abbia voluto di prima intenzione; e chi non è suddito merita meno del suddito, e il frate meno del clerico secolare, poichè la Religione Domenicana dipende immediatamente dal Papa; chi poi dice bene del Re merita anche meno. Inoltre non ci fu mai un concerto, ma ci furono colloquii accidentali. Così nella casa di Gio. Jacopo Sabinis esso fra Tommaso andò a far la pace tra' Contestabili e Carnevali; erano presenti Maurizio e Gio. Gregorio Prestinace suo compare venuti per la pacificazione, e cadde il discorso sulle mutazioni, ma nessuno intervenne per la ribellione, che nessuno di loro avea mai ideata. A Pizzoni esso fra Tommaso andò sollecitato tre volte da fra Gio. Battista, e comunque vi fossero altre persone, il colloquio si tenne solamente tra lui, fra Gio. Battista e Claudio Crispo: non erano presenti fra Dionisio e gli altri, e però non ci fu concerto; esso fra Tommaso parlò al Crispo dietro istanza di fra Gio. Battista per trattenerlo nella difesa di lui, non già per la ribellione, e andò pure a vedere una fabbrica di carta, ed aveva compagni perchè la strada non era sicura. A Davoli neanche vi fu concerto, poichè il Rania e Maurizio non furono presenti al colloquio che esso fra Tommaso ebbe con Gio. Paolo di Cordova e Gio. Tommaso di Franza, «onde riesce chiaro non esservi stato da parte di fra Tommaso fermo consiglio, se fatalmente le mutazioni non avessero fornita l'occasione». Egli non merita pena, avendo solo razionalmente dubitato pe' segni o per le profezie; nè è responsabile dell'essere molti morti per questa causa, poichè tutti erano omicidi, e Dio permise che morissero per avere abusato de' detti di fra Tommaso e per gli altri loro peccati. Anche le predicazioni degli Apostoli e de' Profeti eccitarono molti rumori, ma la predicazione di fra Tommaso fu a vantaggio della repubblica sì del Re che del Papa. I socii di Catilina convinti e confessi di congiura per mettere a fuoco la patria e distruggere il Senato, avendo giurato col bere sangue misto con vino, perchè non giunsero a consumare la loro scelleraggine, trovarono una parte di Senatori che con Cesare disse non doversi dare loro la morte: e non troverà misericordia presso cristiani fra Tommaso, che non commise scelleraggine, non si ricinse di armi, non mosse a sedizione… nè è suddito, nè Principe o potente da cui possa temersi qualche cosa? I Dottori dicono, che è in facoltà del giudice consegnare o no un clerico alla Curia secolare, vista la condizione della persona: la condizione deve intendersi relativamente all'atto in quistione non già relativamente ad ogni altra cosa, e qui c'è difetto di condizione spettante alla sostanza dell'atto, poichè essendo fra Tommaso inabile a ribellare e per natura, e per fortuna, e per professione, non deve credersi che abbia cercato di ribellare, anche quando fosse un cattivo soggetto. Oltracciò il Papa nel suo Breve dice che si consegnino alla Curia secolare coloro i quali sono legittimamente convinti, e fra Tommaso non è convinto, sia perchè manca il corpo del delitto, sia perchè i testimoni sono complici, nemici e scellerati, ed anche varii intorno alla cosa, al modo, al luogo e al tempo. E la convinzione deve intendersi nel senso del reato commesso, non già soltanto voluto, e se la convinzione manca, la condanna deve pronunziarsi secondo il dritto canonico, non secondo il dritto civile: nè la ragione politica lo consiglia, poichè è odioso lo spargere il sangue di un sacerdote, massime pel motivo di profezia; e il popolo lo loderebbe quando avvenisse qualche sciagura. Tutti i testimoni ne' tormenti negano di essersi accordati con fra Tommaso intorno alla repubblica; adunque fra Tommaso fu solo a volerla, ciò che è impossibile, e così essi lo assolvono, e «mostrano fra Tommaso aver detto questo nella sua confessione pel minor male, sotto l'impressione del tormento, macerato dal carcere, dalla fossa e dall'inedia».

Ed ecco la conclusione: «Meglio è che sia messo in custodia fino al tempo della predizione sua, sì che il popolo ne vegga la falsità, ovvero si penta acciò non accadano i mali quando siano veri; come avvisava Geremia… Che se avvenga danno al Regno, egli si offre di risarcirlo al doppio; poichè della morte sua il Regno non rimane edificato ma scandalizzato, laddove si verifichi qualche sciagura, come apparisce dalla perdita delle navi sofferta 129. La morte è una cautela di mali futuri, non già de' passati: a ciò meglio provvede il carcere in materia di predizioni e novità». E ripigliando le sue considerazioni sul processo aggiunge di non dover morire, perchè non è ribelle nè di 1a nè di 2a intenzione, perchè non è convinto, perchè seguendo il fato predisse e desiderò preparare un bene da un male; e le inimicizie, tra tutti quelli che volevano ciò, mostrano non esservi stato tra loro alcun proposito di ribellare, poichè la cospirazione esige l'unione degli animi e molta confidenza, e tra loro non ve ne fu; vi fu abuso delle predizioni da parte di taluno. La ribellione non venne dimostrata con qualche atto, ma solo concepita nell'intenzione; null'altro il fisco può provare dal processo, ma non si può provarlo nemmeno dalle parole di fra Tommaso agli altri, poichè egli poteva altro dire ed altro intendere; ma dalle parole sue nel tormento non si prova l'intenzione di ribellare, bensì il contrario, e però contro di lui non c'è nulla. Finisce chiedendo i suoi libri e la facoltà di essere esaminato, e dimostrando che non si deve seguire il Palermitano, il quale dice che nel caso di delitto di ribellione il clerico ha da essere consegnato alla Curia secolare, poichè le teoriche di costui non sono soltanto erronee ma perfino eretiche130.

La «2a Delineatio» è rappresentata dagli Articoli profetali. Sono 15 articoli ne' quali il Campanella mostra la necessità di occuparsi de' segni e delle profezie, espone e giustifica quanto avea raccolto in tale materia, ed infine ricorda anche i segni speciali visti in Calabria, onde era stato condotto a determinare l'inizio delle imminenti mutazioni nel 1600 e nel primo settenario del nuovo secolo. Andremmo troppo in lungo nel volerne dar conto; e trattandosi di cose le quali riescono a chiarire il punto di partenza della sua azione, ma non propriamente la sua azione ne' fatti della congiura, crediamo bene potercene dispensare. Egli li scrisse in aggiunta alla sua 1a Difesa, per dimostrare «che non si era infinto allo scopo di covrire un male», come appunto ivi dichiarò; non rappresentavano quindi propriamente una difesa, ma un allegato della difesa, e questo si rileva anche dalla loro intestazione. Il Campanella si proponeva di svolgerli innanzi a' Giudici coll'aiuto del libro sulla Monarchia de' Cristiani e del libro sul Regime della Chiesa, l'uno in potere del Card.l S. Giorgio, l'altro lasciato in Stilo; e chiedeva questi libri, e si protestava della nullità degli atti se i libri non fossero dati, come si legge appunto nella fine degli articoli.

Dobbiamo ora fare qualche commento su queste Difese, e segnatamente sulla 1a di esse. Lasciando da parte la forma, notiamo che varii tentennamenti appariscono ne' concetti medesimi esposti dal Campanella, ed in ultima analisi non è assolutamente negato il fatto di un disegno partecipato con sollecitazioni a diversi aderenti, banditi e non banditi, di un concerto per far la repubblica nei monti, avvalendosi di mutazioni in vista ed aiutandosi con le armi e le prediche; ma questo fatto è semplicemente attenuato e fornito di spiegazioni, il cui valore doveva senza dubbio riuscire quistionabile assai nella mente de' Giudici. D'altronde non si vede efficacemente combattuto il cumulo di testimonianze raccolte contro di lui, ma anch'esso appena attenuato e fornito di spiegazioni non sempre felici; sicchè non è pienamente negata la reità, ma solo rimpiccolita al punto da respingere per essa la pena di morte ed ammettere la pena del carcere indefinito. Mentre si propone di sostenere che non abbia cospirato, comincia col dimostrare che «non fu mosso a cospirare nè dall'ambizione nè dalla malevolenza, ma guidato dalla profezia»; intende di provare non esservi stato concerto, e frattanto parla di «coloro i quali aderirono a lui con retta intenzione», e spiega che «volle servirsi de' banditi non come nemici del Re, ma come uomini armati convertendoli al bene, e propose di servirsi anche di uomini probi non banditi»; ed è superfluo insistere sul buio fitto della natura delle mutazioni, della condizione della repubblica da fondarsi, del Regno sacerdotale unico «utile al Re prima che al Papa», dell'essersi mosso a preparare la repubblica «per istinto divino e perchè spettava a' Domenicani il prepararla», e parimente degli scopi singolari affibbiati a tale repubblica. Non riesce poi certamente a combattere i testimoni dicendoli «complici e scelleratissimi», giacchè l'esistenza del reato veniva con ciò tristamente ribadita, e per la giurisprudenza del tempo nel reato di Maestà anche i complici valevano a convincere; nè riesce esatto dicendo che «tutti ne' tormenti aveano negato di essersi accordati con fra Tommaso intorno alla repubblica» e però fra Tommaso sarebbe stato il solo a volerla, mentre invece taluni erano risultati confessi di avervi direttamente o indirettamente aderito. E guardando alle obiezioni avverso ciascun testimone, debolissime riescono p. es. quelle fatte al Petrolo, e quanto al Pizzoni, niente di serio prova l'enumerazione delle sue scelleraggini ed infamie passate, le quali non aveano mai impedito che fosse corsa tra lui e il Campanella una grande intimità; nè prova molto la ritrattazione da lui fatta ma non mantenuta, e l'essere stato bilingue prova tutt'al più che gli avea mancato di fede, denunziandolo in un reato nel quale erano complici, ma non che il reato era stato da lui inventato. Quanto al Caccìa ed al Crispo, non riescono facilmente ammissibili le spiegazioni date per mostrare la loro inimicizia verso di lui, mentre egli si era mantenuto in istretta relazione con loro, e massime con l'ultimo avea tenuto una corrispondenza scritta, assai compromettente e caduta nelle mani del fisco; quanto al Pisano ed al Vitale, è vero che costoro non aveano mai parlato con lui, ma aveano pur troppo parlato co' due suoi più attivi compagni, fra Dionisio e Maurizio, l'uno lasciato dal Campanella assolutamente nell'ombra, l'altro posto sotto una luce orribile; d'altronde, circa le ritrattazioni avvenute per taluni di costoro in punto di morte, esse a quel tempo nemmeno godevano molto credito, sapendosi che erano troppo spesso dovute alle istanze de' superstiti, e alla credenza che fosse opera cristiana e meritoria l'aiutarli. Quanto a Maurizio, l'inimicizia di costui non riesce concepibile, mentre in tanti tormenti sofferti non aveva mai nominato il Campanella, e le storie postume di tale inimicizia, come il movente delle ultime rivelazioni da lui fatte, appariscono asserzioni inventate pe' bisogni della causa: sul fatto medesimo dell'avere Maurizio deposto che il Campanella non avea voluto il soccorso de' turchi, fatto ripetuto costantemente dal Campanella, c'era un po' di equivoco, giacchè Maurizio avea con lealtà deposto di essere spontaneamente andato presso i turchi, non già che il Campanella fosse propriamente contrario alla dimanda di questo soccorso, mentre invece egli appunto ne avea fatto sorgere il pensiero. Ma del resto lasciando anche da parte tutte le testimonianze di questi «complici e scelleratissimi», c'era la testimonianza dello stesso Campanella, la Dichiarazione scritta in Castelvetere, suggellata dalla confessione orale in tortura; e il Campanella nella sua Difesa accenna appena a questa confessione, la quale era sempre della più alta importanza, giacchè, pur quando avesse potuto dimostrare di non essere stato convinto, gli rimaneva ancora a dimostrare di non essere stato confesso; egli si limita a dire, col solito tentennamento, una volta che «dalla sua confessione si provava solo che non avrebbe fatta la repubblica se non quando fosse avvenuta mutazione», ed un'altra volta che «dalle sue parole nel tormento non si provava l'intenzione di ribellare, bensì il contrario», laonde questo lato importantissimo della difesa apparisce deficiente. Infine torna anche inutile per lui ricordare che i primi Giudici erano nemici e venali, quando le imputazioni risultavano confermate innanzi a' successivi; inutile far notare che lo Sciarava si era servito di tormenti gravissimi, quando la giurisprudenza concedeva di potersene servire nel caso di lesa Maestà; inutile distinguere il reato commesso e il reato semplicemente voluto quando la giurisprudenza nel caso di lesa Maestà assegnava la pena medesima all'uno ed all'altro; inutile discutere le condizioni in cui si poteva consegnare il Clerico alla Curia secolare, quando il Breve Papale aveva conceduto che le si consegnassero quelli «legittimamente convinti o confessi». In conclusione le Difese del Campanella non avrebbero potuto distruggere l'imputazione fattagli, perchè la sua causa disgraziatamente era insostenibile con efficacia. Gli Articoli profetali da lui scritti, senza contare quello serbato in petto concernente la Monarchia a lui profetizzata dall'astrologo, valevano bene a dimostrare che egli penetrato di certi principii superiori aveva agito in conseguenza di essi: ma non era stata per anco fatta a que' tempi la grandiosa scoperta della forza irresistibile, e l'opera sua, comunque ricinta di certe condizioni, non era e non poteva essere che una congiura, un disegno di ribellione, e i Giudici non avrebbero potuto profferire altra sentenza che quella di consegna alla Curia secolare. Egli medesimo si contentava allora di ciò che lo rese scontento in sèguito, quando il caso glie lo fece ottenere, di esser messo in custodia fino all'avveramento della predizione sua; e si sa che il tempo ne era definito sino ad un certo punto, lasciando un margine più che largo, come rilevasi chiaramente dalla stessa edizione posteriore de' suoi Articoli profetali. Dopo tutto ciò può ognuno formarsi un criterio intorno alla colpabilità del Campanella nel delitto appostogli; a noi essa apparisce manifesta.

Ci rimane a parlare dell'Appendice o Lettera «ad amicum pro Apologia», scritta, come abbiamo veduto, subito dopo le Difese. Quale oggi la possediamo, essa trovasi in coda a ciascuna delle tre copie ms. degli Articuli prophetales, ultima ricomposizione, che si conservano in Roma nella Casanatense, in Napoli ed anche in Madrid nelle rispettive biblioteche nazionali. Il Berti fu il primo a scovrirla nella Casanatense, e nel 1878 ne diè un sunto molto preciso, giudicandola documento valevolissimo a smentire l'esistenza della congiura. Noi la diamo per esteso, nella lezione della Casanatense e in quella di Napoli, giacchè ognuna di esse è molto scorretta e può l'una correggersi con l'altra, raccomandando a' lettori di percorrerla nella sua integrità: essi la giudicheranno probabilmente, come noi la giudichiamo, un documento apologetico, al pari delle lettere del 1606-1607 e della Narrazione che il Campanella scrisse tanto più tardi, per giustificarsi alla meglio e in tutti i modi, i quali d'altronde non escono dall'ordine de' modi da lui adottati e ripetuti sempre; nè sfuggirà certamente la concordanza de' concetti in essa svolti con quelli svolti nella Difesa. Diciamo d'un tratto che la Lettera apparisce scritta ad un compagno di carcere similmente frate, con ogni probabilità a fra Dionisio, durante la causa della congiura, dietro il risentimento di costui perchè le mutazioni previste non erano succedute o erano succedute a rovescio, ed anche perchè avea confessato di voler predicare la repubblica. Ma eccone una rassegna particolareggiata. Il Campanella vi ricorda aver detto che dall'anno 1600 in poi sarebbero succedute grandi novità, ed afferma che sul negozio di Calabria l'amico dovea sdegnarsi non già contro di lui ma contro sè stesso, che avea parlato di ciò che meno comprendeva. Che egli vide una cometa marziale la quale correva dall'oriente all'occidente, ed argomentò che sarebbe venuta gente estranea contro i Reggitori della Provincia, ma non potè vedere che razza di gente si fosse, e vennero i Capitani Regii e desolarono il paese (infatti venne Carlo Spinelli avverso a De Roxas Preside della Provincia, ma di questo pronostico sbagliato da cima a fondo avrebbero potuto forse rimanere capacitati i Giudici, non mai l'amico suo). Ed estendendosi ne' prodigi apparsi «che poteano muovere ogni savio a parlare», dice che nelle sue predizioni non tocca questo Regno più che lo stesso mondo, di cui preconizza la fine (veramente nella Dichiarazione avea ammesso di aver predetto le mutazioni pel Regno di Napoli), ed annunzia la fine del mondo e la Santa repubblica aspettata da' profeti, da' filosofi e dalle genti; e dice che l'amico non può far difese se egli non parli ai Giudici, la qual cosa non si permette (ma pure fino ad un certo punto ne aveva parlato a' Giudici ed anche dettato uno scritto per uso del Sances). Predice all'amico che la congiunzione magna gli sarà fatale e non potrà sfuggire agli spagnuoli, che gli sovrasta la morte ne' 38 anni di età, come a sè stesso sovrasta ne' 43, e quindi gli raccomanda di trovar mezzi perchè la causa sia finita prima di tre anni (donde si dovrebbe inferire che la lettera fosse stata scritta dopo la sospensiva prodottasi nella spedizione della causa, vale a dire dopo il 12 aprile, ma bisogna sempre tener presente che si ha sott'occhio un esemplare della lettera rifatta). Passa a giustificarsi dell'aver confessato di voler predicare la desiderata repubblica, se fatalmente fosse avvenuta la rovina del Regno e della Provincia, raccogliendone i residui su' monti: io, egli dice, non ho confessato eresia nè ribellione, ma di aver voluto profittare di un male volgendolo in bene; così non furono i Veneti ribelli all'Impero, quando percossa Aquileia da Attila ripararono nelle lagune e costituirono una nuova repubblica libera dall'Impero. E poi dice che spettava a' Domenicani predicare tale repubblica, e lo dimostra co' testi ecclesiastici, con S. Vincenzo Ferrer, S.ta Caterina, l'Apocalisse, e cita fra Rusticano, Savonarola, M.o Catarino, il B.to Raimondo etc., e nota che quelli i quali tengono la fede per ragion di Stato giudicano che essi pure abbiano parlato per acquistare uno Stato, ma chi crede per ragione Divina li difende con Davide e S. Paolo. Aggiunge che egli è umiliato troppo, che tutti sono umiliati e flagellati troppo, che egli meritava un premio, che quelli che non credono nelle sue predizioni se ne avvedranno, e qui cita S. Pietro, Isaia etc. concludendo che le profezie si adempiranno, e raccomandando a tutti di agire virilmente e sollevare il loro cuore. – Che questa lettera si debba ritenere diretta a fra Dionisio, come il Berti ottimamente afferma sebbene non ne dica le ragioni, apparisce dal vederla scritta ad uno che si era sdegnato coll'autore, che avea già prima parlato a sproposito, che era in pericolo di non potere sfuggire agli spagnuoli, circostanze tutte riferibili appunto a fra Dionisio. Vi sarebbe solo da obiettare che avendogli il Campanella predetta la morte a 38 anni, nel tempo della congiunzione magna, vale a dire nel 24 10bre 1603 come ci lasciò scritto anche nelle Poesie, fra Dionisio avrebbe dovuto nel 1600 avere 35 anni di età; e sebbene ci facciano difetto le notizie intorno a ciò, mancandone sempre tutti i costituti suoi, l'età di 35 anni nel 1600 non può dirsi probabile per lui, tanto più che conosciamo avere allora il germano fra Pietro l'età di 31 anno, e l'altro germano Ferrante 29131; tuttavia fra le moltissime scorrezioni di entrambi i manoscritti questa potrebbe esser una, e invece di 38 dovrebbe forse leggersi 35. Ma ciò che non persuade si è, che in una lettera confidenziale occorresse esporre tutte quelle giustificazioni estranee a' rimproveri che erano stati mossi, e ripetere tutte quelle profezie e citazioni che fra Dionisio e gli altri compagni aveano dovuto udire già troppe volte, come lo mostrano le deposizioni fatte da alcuni di loro in Calabria. Bisogna quindi dire che in ultima analisi, come gli Articoli profetali delle biblioteche sono certamente un'edizione posteriore rifatta ed ampliata degli Articoli scritti al tempo de' processi, così la lettera che sta in appendice a quelli Articoli dev'essere un'edizione rifatta ed ampliata della lettera scritta dapprima, e quindi un'edizione adattata alle circostanze dell'autore a' tempi ne' quali essa venne rifatta. Vedremo che gli Articoli profetali vennero rifatti nel 1607, con la speranza che sarebbero stati presentati ad alti personaggi, de' quali il Campanella sollecitava l'aiuto; e così l'Appendice avrebbe servito presso costoro, ripetendo gli argomenti che si trovano addotti nella «1a Delineatio defensionum» e poi nelle lettere del 1606-1607, svolti di nuovo in sèguito nella Narrazione; laonde bene a ragione dicevamo trattarsi di un documento apologetico non dissimile da tutti gli altri che si conoscono, e da doversi apprezzare co' criterii medesimi co' quali i detti documenti vanno apprezzati.

Nulla abbiamo poi a dire circa la ricomposizione del libro della Monarchia di Spagna; ci basterà solo far avvertire che essa venne eseguita realmente nel corso del processo dell'eresia, essendo rimasta sospesa la spedizione della causa della congiura, e continuando il Campanella a dimostrarsi pazzo.

Ma non c'ingolferemo nel racconto del lungo processo dell'eresia, senza parlare de' premii che da un pezzo i denunzianti e i persecutori della congiura dimandavano, il Vicerè sollecitava, e il Governo di Madrid venne accordando mano mano e senza alcuna fretta. «Non era negotio questo da passar irremunerato; furono riconosciuti non solo dal Conte, ma anche da S. M.tà in molte maniere»: così scrisse il Capaccio vissuto a que' tempi, discorrendo di Fabio di Lauro e Gio. Battista Biblia132. Disgraziatamente i Registri Mercedum rimastici nell'Archivio di Stato, ne' quali insieme con le ricompense si sogliono trovare specificati i servigi, cominciano solo dall'anno 1606; ma altre categorie di scritture forniscono anche notizie di concessioni fatte a questi due sciagurati, ricordando il loro servigio speciale della scoperta della congiura. Per Fabio di Lauro, ne' Registri Sigillorum in data di aprile 1600, troviamo una grazia fatta a sei individui che avevano assassinato fra Maurizio Barracco, altra nostra conoscenza, sicuramente dietro la sua intercessione o «nominatione» come allora si diceva, «stante lo servitio fatto in scoprire la congiura tentata in Calabria, in deservitio de Dio et de sua M.tà» etc.133: ma troviamo pure in data del 3 gennaio 1602 e 3 aprile 1604 una licenza d'arme per lui con altri tre compagni, la qual cosa potrebbe indicare che era obbligato a guardarsi da qualche vendetta134. Per Gio. Battista Biblia poi, abbiamo veduto essergli stato ucciso il fratello Marco Antonio fin dal novembre o dicembre 1599: questo Marco Antonio, dapprima sostituto credenziere, era stato in sèguito nominato percettore della gabella della seta di Catanzaro, con privilegi notati per le esecutorie fin dall'ultimo di febbraio e 12 maggio 1595; ed ecco Gio. Battista Biblia succedergli in questo ufficio con privilegio notato per l'esecutoria il 16 dicembre 1600, ma naturalmente concesso alcuni mesi prima135. Oltracciò i Registri Privilegiorum ce lo mostrano con la data del 12 giugno 1602 insignito del titolo e grado di nobiltà, trasmissibili a' suoi discendenti: e in siffatta occasione troviamo menzionato «il singolare servizio» di avere partecipato al Sovrano «la congiura e perfidia di taluni della stessa città di Catanzaro»136. È del tutto verosimile che la medesima onorificenza, con qualche altra lauta carica, abbia avuta egualmente Fabio di Lauro, e lo confermerebbe il fatto, che alcuni anni dopo il Campanella, nelle sue lettere del 1606, parlò de' «revelanti falsi fatti cavalieri»; ma non ci è riuscito trovarne i documenti. Lo stesso ci è avvenuto per Gio. Geronimo Morano, pel quale le ricompense doverono essere certamente più laute: possiamo soltanto dire che egli non si mosse da Catanzaro e continuò a spadroneggiarvi, ma vi fu gravemente avversato dagli Spina. È certo poi che da Madrid, allorchè si trattava di pure lettere di complimenti, queste non si facevano troppo attendere, ma allorchè si trattava di ricompense sode, queste venivano con comodo e dopo maturi consigli. E p. es. il Principe della Roccella non tardò ad avere, in data de' 27 aprile 1600, una lettera del Re, pubblicata dall'Adimari nella Storia della famiglia Carafa e ripubblicata dal Baldacchini, con la quale Filippo III diceva che avrebbe nelle occasioni tenuto presente l'avviso avuto dal Vicerè «de la promptitud con que acudistes à la defensa de las cosas de Calabria, en la ocasion dela venida dela Armada Turquesca el año passado, y el cuydado con que os empleastes en atajar la coniuracion que algunos tratavan en aquella Provincia». Ma, utilitario qual era, il Principe si fece anche cedere dal Conte di Condeianni D. Gio. Battista Marullo le difese di Bianco e Condeianni involte in una grossa vertenza col Fisco, e iniziò una favorevole transazione su questo capo, inoltre chiese un comando di gente d'arme (titolo di alto onore, con buon soldo, senza obbligo di servizio); scorse allora molto tempo, ma infine ottenne, oltre la transazione desiderata, un posto di Consigliere del Collaterale, con la promessa che dandosi l'occasione sarebbe stato tenuto presente pel posto di Capitano di gente d'arme137. Quanto a Carlo Spinelli, fatta una dimanda formale, con l'esposizione di tutti i suoi meriti, e tra gli altri quello della diligenza e premura usata «en acquietar y guardar la provincia de Calabria dela armada del Turco y alboroto que alli occurrìo el año passado», onde sollecitava o la proprietà del comando della cavalleria che teneva interinalmente, o l'aumento della pensione di. D.ti 400 che godeva, sempre con la facoltà della trasmissione a vita a un suo nipote, dovè attendere che il Vicerè e il Consiglio Collaterale dessero il loro parere sulla dimanda. I lettori troveranno ne' Documenti da noi raccolti la lettera Regia con la quale veniva ordinato l'invio di tale parere138; ed aggiungiamo che non prima del 4 settembre 1601 fu accordato allo Spinelli il posto di Capitano della cavalleria pesante, «avendo per aggiunto con futura successione D. Scipione Sanseverino Marchese di S. Donato suo pronipote da sorella» che egli nominò139; così questo giovane cavaliere, Marchese dal 1598 e subito promosso Duca il 20 settembre 1602, favorito dallo zio Spinelli e dal padrigno Reggente Costanzo, divenne sempreppiù scapestrato e prepotente, nè a caso parliamo di lui, dovendo incontrare anche la sua sorella nel corso di questa narrazione. Maggior tempo ancora dovè attendere D. Carlo Ruffo, per vedere accolte le dimande fatte: abbiamo intorno a lui solamente il Privilegio col quale gli si concede la dignità e il grado di Duca di Bagnara, con la circostanza dell'averlo dimandato; esso è in data del 19 gennaio 1603140. Come si vede, D. Carlo saltò da Barone a Duca, pe' meriti suoi, di tutta la sua famiglia e de' maggiori, secondo l'espressione del Privilegio; e il Campanella fu pur troppo la causa principale di tante grandezze.

Naturalmente non venne dimenticato lo Xarava e neanche fra Cornelio. Documenti rinvenuti nell'Archivio di Napoli ci mostrano che il Conte di Lemos propose immediatamente lo Xarava al posto di Consigliere del Sacro Regio Consiglio di Capuana, non appena vi fu una vacanza per la morte di D. Alonso Ximenes; ma in Madrid si affacciarono dubbî sulla sua capacità, integrità e prudenza, il Re volle esserne bene informato, e per quella volta fu nominato Consigliere il Ruiz de Baldevieto, del quale accadrà pure di dover parlare in sèguito141. Nel frattempo vacò un altro posto di Consigliere per la morte di D. Francisco Bermudez de Castro, e l'ebbe l'Avvocato De Leonardis, stato già promosso a Fiscale della Vicaria; ne vacò poi un terzo pel passaggio di D. Pietro De Vera a Presidente, ed allora lo Xarava, recatosi personalmente a Madrid, potè essere nominato Consigliere, ma ciò avvenne non prima del 14 aprile 1603142. Vedremo che al nuovo ufficio agevolò ancora la via un altro avvenimento, che eccitò sempre più a' rigori verso i frati incriminati, a' quali rigori lo Xarava si offrì in un modo perfino strano: per ora aggiungiamo che tanto più tardi, nel 1615, ottenne ancora una pensione annua di D.i 300, e sempre venendo annoverati tra' meriti i servigi resi in Calabria da Avvocato fiscale143. Quanto a fra Cornelio, anch'egli dovè aspettare, ma impaziente qual era, d'accordo col Vicerè e con le commendatizie di Carlo Spinelli, nel marzo 1601 si recò a Madrid, e vedremo che subito fra Dionisio lo fece conoscere a Roma, essendosi ritenuto che avesse intrapreso tale viaggio per dar notizia al Governo dell'andamento del processo dell'eresia già in corso, nel quale si trovava a ridire sul conto suo, e sul conto di fra Marco da Marcianise come di tutti coloro i quali aveano tenuto mano o a perseguitare o a giudicare i frati; se non che, oltre questo scopo, dovè esservi anche l'altro di sollecitare almeno una pensione, ed è certo che finì per ottenerla. Lo abbiamo desunto da due documenti raccolti tra diversi altri nell'Archivio di Torino, essendo stato fra Cornelio il protagonista di un incidente che avvenne parecchi anni dopo e che accenneremo in breve. Trovavasi Vicerè di Napoli il 2 °Conte di Lemos, e fra Cornelio era ben veduto da lui: con lettere commendatizie del Card.l Aldobrandini, e con un atteggiamento di suddito fedele a casa Savoia, progettò un matrimonio tra il Re di Spagna e Maria di Savoia terzogenita del Duca Carlo Emmanuele; in giugno 1613 impegnò nella faccenda l'Agente del Duca in Napoli Melchiorre Reviglione, e ne fece fare la proposta al Conte di Lemos, offrendosi di andar lui in Spagna, giacchè essendo «pensionato del Re» nessuno avrebbe mai potuto intendere lo scopo del viaggio, che sarebbe stato attribuito ai suoi particolari interessi. La guerra pel Monferrato assopì la faccenda, ma nel novembre 1616 fra Cornelio se ne andò a Roma per parlarne al Ministro di Savoia, l'Abate Scaglia Conte della Verrua, al quale già si era offerto prima quale agente di fiducia mandandogli una cifra e qualche lettera di poca importanza: l'Abate non lo ritenne altrimenti che un furbo, desideroso di assicurarsi in Madrid la pensione, posta in pericolo dall'essere succeduto il Duca di Ossuna al Conte di Lemos, mentre egli trovavasi «da tanto tempo pensionato dal Re»; infine poi fra Cornelio, divenuto già gottoso, non volle contentarsi di 300 ducati d'oro fattigli offrire dal Duca pel viaggio, ma a noi basta che sia accertato il fatto della pensione già ottenuta da antica data144. Così non a torto poi il Campanella ebbe a mettere innanzi i tanti premii che il Re avea dati; e s'intende che per un servigio di quel genere i premii erano un fatto naturalissimo, ma veder premiato e notoriamente premiato anche fra Cornelio giudice di S.to Officio, senza che il Nunzio Aldobrandini se ne fosse mai curato in alcun modo, non può non dirsi un fatto veramente scandaloso.

129.Allude manifestamente alla perdita delle navi che si ebbe al tempo in cui si fece morire il clerico Cesare Pisano.
130.Intendi Niccolò Tedeschi, Benedettino Catanese, Arcivescovo di Palermo, poi Cardinale, detto anche l'Abate Palermitano. Di lui si hanno molte opere; morì nel 1445.
131.Ved. per Ferrante la Numerazione de' fuochi riportata nella nota alla pag. 10 del vol. 1.o; per fra Pietro ved. la sua prima deposizione innanzi al Vescovo di Gerace (Doc. 294, pag. 226).
132.Ved. Capaccio, Il Forastiero, Nap. 1634, pag. 503.
133.Ved. Doc. 229 pag. 120. Il poter «nominare» delinquenti, per farli indultare, era uno de' diversi modi di compensi pro meritis: nel caso del Lauro la nominazione fatta non è espressa, ma s'intende, mentre in altri casi è espressa. Ne citiamo uno relativo ad un soggetto del quale anche si è parlato in questa narrazione: «a 17 de marzo 1594 indulto et gratia facta à Prospero morales de peczolo per l'homicidio commesso in persona de mutio costantino stante lo servitio facto per battista de amicis d'havere dato in mano dela corte Marco sciarra e nominatione facta in persona de decto prospero». Ma generalmente era questa una delle concessioni minori, che si accompagnavano ad altre di maggiore entità.
134.Ved. i Reg. Sigillorum vol. 40 e 42. – 1.o «3 Gennaro 1602. Licentia de arme in persona de Fabio de Lauro, pietro de lauro, mauritio spina et ferrante de lauro». – 2.o «3 de aprile 1604. Licentia de arme in persona de fabio de lauro, pietro de lauro, mutio spina (sic) et ferrante de lauro».
135.Ved. i Reg. Sigillorum vol. 31 (an. 1595) e vol. 37 (an. 1600); in quest'ultimo si legge: «A dì 16 xbro, Privilegio del off.o di perceptore della seta della città di Catanzaro in persona de Gio. Battista Biblia».
136.Ved. Doc. 231, pag. 120.
137.Ved. i Reg. Litterarum S. M.tis vol. 12, (an. 1602-1610) fol. 545. Re Filippo dice al Vicerè che approva la transazione proposta dal Principe, ed aggiunge: «y por obligar le mas, he tenido por bien de le honrrar y hazer merced de una plaça del Conseio Collateral de que se le embiara su Titulo como se lo dereis de mi parte, y que en lo de la Compania de gente de armas que pide, en las ocasiones que se offroscieren se tenra con su persona y meritos la cuenta que es razon para hazer le la merced que huviere lugar». La lettera è in data del 12 luglio 1606.
138.Ved. Doc. 232, pag. 121.
139.Ved. i Reg. Privilegiorum vol. 125 (an. 1602) fol. 13. t.o; e confr. i Reg. Officiorum Suae Maj.tis vol. 1.o fol. 202.
140.Reg. Privilegiorum vol. 123 (an. 1602-1603) fol. 128.
141.Ved. Doc. 233, pag. 122.
142.Ved. Doc. 235, pag. 123. Il suo viaggio a Madrid è ricordato in una delle sue lettere al Gran Duca di Toscana, che abbiamo già citata altrove; ved. vol. 1.o pag. 127 in nota.
143.Ved. i Reg. Mercedum, vol. 2o, fol. 203. La pensione dicesi data pe' «multa grataque obsequia… per spacium triginta quatuor annorum singulari fide, vigilantia et integritate tam in dicto Consilio quam in officio Advocati fiscalis nostri Provintiae Calabriae ac interim in rebus magni ponderis nobis praestita».
144.Ved. nell'Arch. di Stato in Torino Lettere Ministri Due Sicilie, maz. 2.o, let. del 4 e del 14 giugno 1613, dell'8 novembre 1616 e 6 gennaio 1617; inoltre Lettere Ministri Roma maz. 27, fasc. 2o, let. del 26 novembre 1616.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
850 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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