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Читать книгу: «Fra Tommaso Campanella, Vol. 2», страница 3

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A due cose attese il Campanella assiduamente fin da' primi tempi della sua prigionia in Napoli, sollecitare la ritrattazione da coloro i quali aveano rivelato, dare animo a coloro i quali si erano mantenuti negativi o in qualunque modo gli si mostravano tuttora amici. Come già in Calabria, così in Napoli, egli rivolse le sollecitazioni particolarmente al Pizzoni e al Petrolo; non occorse che sollecitasse il Lauriana, perchè anzi costui in Gerace gli avea scritta egli medesimo una lettera, nella quale, gli comunicava l'esame di Monteleone, gli prometteva con giuramento che si sarebbe ritrattato, e finiva per dimandargli il modo di potersi ritrattare. Nè stentiamo a credere che talvolta le sollecitazioni del Campanella non sieno state espresse in forma di preghiere, onde i sollecitati poterono dire di avere avuto da lui «minacce»; se non che i pochi documenti che ne sono rimasti non lo confermano, e d'altronde vi furono tanti motivi di asserire e di smentire a vicenda queste cose, da non poterne facilmente assodare la verità. Al Petrolo, come dicemmo a tempo e luogo, avea fatte alcune sollecitazioni per via, tra Squillace e Gerace, direttamente; altre glie ne potè fare mediante Cesare Pisano in Monteleone, e poi ancora altre in Napoli ne fece di persona dalla finestra. Così gli avrebbe detto che bisognava ritrattarsi o altrimenti capiterebbe male, che era caduto in irregolarità avendo deposto in causa capitale contro particolari etc.; ma vedremo ulteriormente, che quando si pose a scrivere Poesie gli scrisse anche un Sonetto al medesimo scopo, ed in esso non si leggono minacce bensì le maggiori lusinghe. Al Pizzoni poi avea pure fatte sollecitazioni mediante fra Pietro Ponzio in Gerace, ed altre glie ne fece in Napoli per lo stesso mezzo, giacchè vedremo con certezza aver lui potuto parlare con fra Pietro dalla finestra; ma poi gli riuscì di mettersi in comunicazione diretta col Pizzoni mediante lo scambio di un Breviario, e ciò che se ne disse in sèguito mostra che nemmeno vi furono minacce; ecco pertanto come il fatto venne riferito30. Si trovavano ciascuno in una segreta. Il Campanella dimandò al carceriere Alonso Martines un Breviario, e il carceriere gli portò quello del Pizzoni. Nel Breviario «fra Gio. Battista pose molti signacoli di carta larghi, fatti à posta di certi modelli di musica rigati con le note, et d'una lettera nella quale si vedea che li fosse stato dato avviso, che la Causa era già stata rimessa al sig.r Nuntio et à Don Pietro di Vera, et in detti signaculi scriveva ch'esso fra Gio. Battista havea detto à frà Silvestro che insieme seco deponesse cose di santo officio per scampar quella gran furia, perchè in quel muodo la Corte secolare à viva forza l'harebbe punito per l'heresie, e Ribellione, il che non harebbe fatto per la sola ribellione, ma di fatto l'harebbe appiccati, già che quelli di Catanzaro, che la revelorno, dissero, ch'il Papa la favoriva» etc. Dimandava anche il Pizzoni, in quelle cartoline, chi fosse stato quel frate che, secondo la cronaca di S. Domenico, ebbe dalla B.ta Vergine la rivelazione che mai monaco di S. Domenico sarebbe stato eretico, se molto tempo innanzi non avesse deposto l'abito, e diceva di confidare che avrebbe potuto facilmente ritrattarsi, e ricordava diverse autorità, come il Cipolla Veronese, che permetteva dir cose di eresia a' condannati a morte per essere protetti dal S.to Officio, e S. Girolamo che concedeva il mendacio ad evadendam mortem. E il Campanella, conservando presso di sè alcune cartoline più importanti, scrisse sulle altre «che havea fatto molto bene, et che frà Domenico Petrolo à sua persuasione havea seguitato l'esempio d'esso frà Gio. battista, con l'istesso intento di ritrattarsi, et che quel frate della revelatione ut supra fù Reginaldo si ben si ricordava etc., et li diede esso Campanella molte altre authoritati per tal difesa». Ma passato e ripassato tra loro questo Breviario, ed esaurite le cartoline, cominciarono a scrivere sul Breviario medesimo, ove poteasi vedere di mano del Campanella scritto «bene et fideliter… ut lacrimas emiserim prae laetitia», ed inoltre «Micheas propter timorem mortis prophetavit falsum, et adiuratus se se retractavit, 3.o Reg. 24». E il Campanella si diè anche premura di far sapere queste cose a fra Dionisio che stava in un'altra segreta; ed avendogli mandata scritta «dentro un pasticcio una cartella di simili andamenti, entrati in sospetto li carcerieri, aprirono il pasticcio, et trovata la cartella quella presentarono al Vice Rè, come anco per veder così scritto et scacacciato il Breviario, quello anco presentorono al medesimo Vice Rè, et si disse, che furono da lui rimandate al fiscale». Siffatte cose, verificatesi durante un certo periodo di tempo, furono poi riferite da fra Dionisio; e potrebb' essere che vi sia stata qualche esagerazione da parte del relatore, ma bisogna convenire che nulla vi s'incontra d'inverosimile, salva sempre la quistione della serietà delle cose che si comunicavano i due scrittori nelle cartoline e nel Breviario. Poichè all'uno ed all'altro, sotto tutti gli aspetti, conveniva scrivere in quel senso; ma si può dubitare che esprimesse la verità il Pizzoni, il quale infatti non fece di poi nulla di ciò che scrisse, e si deve dubitare che esprimesse la verità il Campanella, il quale, mentre dicevasi allietato fino alle lagrime, ad ogni buon fine metteva in tasca qualcuna delle cartoline scritte dal Pizzoni, che egli oramai avea potuto ravvisare «bilingue». Vedremo infatti che al momento in cui il Campanella fu spogliato per essere sottoposto alla tortura, gli fu trovata una delle dette cartoline, ed anche un sunto dell'esame del Lauriana certamente scrittogli da costui, il quale soltanto può dirsi avere agito in buona fede, ma sotto l'impero di una stringente necessità; poichè evidentemente, spinto dal Pizzoni, si era posto in un brutto garbuglio, da cui non sapeva in qual modo districarsi, e temeva molto che ritrattandosi sarebbe capitato male. – Dobbiamo aggiungere che pure con Maurizio il Campanella si mantenne in relazione, e, a quanto sembra, dalla finestra, verbalmente, profittando del trovarsi le rispettive carceri l'una sopra l'altra; ma non dovè di certo sollecitarne la ritrattazione, ed invece si dovè forse scusare presso di lui. Come si seppe in sèguito, continuò a dirgli qualche particolare sugli uomini e sulle cose della ribellione disegnata e tanto acerbamente prevenuta: ma una volta Maurizio, abbandonata ogni illusione, gli disse che in que' travagli loro «era tempo di riconoscere Iddio, e che stava scandalizzato di quella parola che havea detto in Stilo, che Giesu christo era un'huomo da bene», immaginandosi esser lui «in opinione che christo non fusse vero figliolo di Dio»; e il Campanella gli rispose che lui, Maurizio, «non intendeva bene li negotii» nè si curò di fornirgli spiegazioni.

D'altra parte, dicevamo, il Campanella attese a dare animo agli amici: questo fece componendo Poesie, siccome troviamo ricordato dal Syntagma, dove per altro se ne parla con una completa confusione di tempi. Per fortuna, la raccolta che noi pubblichiamo, essendo stata fatta in un periodo ben determinato e relativamente breve, ci mette in grado di potere fino ad un certo punto assegnare alle diverse poesie la propria data, oltrechè ci fornisce precisamente quelle composte fin da principio e con lo scopo di rinforzare l'animo degli amici, rimaste poi naturalmente inedite perchè compromettenti. Ma è facile intendere che pochissime potrebbero riferirsi ad un periodo anteriore al cominciamento de' processi, perocchè a questi si pose mano con sollecitudine, e il maggior numero si collega con le vicende del processo della congiura così de' laici come degli ecclesiastici; laonde, per non scindere di troppo l'esposizione di queste poesie, gioverà dapprima narrare ciò che sappiamo del processo della congiura, e in sèguito ricercare le poesie da doversi dire composte nel periodo in cui il detto processo fu istituito e svolto.

II. Veniamo dunque al processo della congiura pe' laici31. Dicemmo che la commissione Vicereale fu data il 15 novembre a Marco Antonio d'Aponte e a D. Giovanni Sanchez o Sances, con l'ordine di riconoscere le informazioni e gli atti di Calabria, procedere sommariamente sine strepitu et forma Judicii, e non ritardare la buona e breve amministrazione della giustizia, servendosi di Giuliano Canale per Mastrodatti. Vedemmo pure avere il Vicerè provveduto che lo Xarava aiutasse il Sances, e scritto a Madrid, il 30 novembre, che si andava già procedendo contro i laici, e il 13 dicembre, che si sarebbe cominciato a far giustizia di alcuni. Gli ordini del Vicerè furono eseguiti puntualmente, ed è chiaro che non si perdè tempo; solo dobbiamo notare che a Giuliano Canale venne sostituito Marcello Barrese, il quale servì da Mastrodatti egualmente nella causa della congiura per gli ecclesiastici, e di tale sostituzione ci rimane tuttora ignoto il motivo.

Secondo il costume del tempo, si procedeva separatamente e successivamente per un determinato individuo o per un determinato gruppo d'individui, e si sentenziava a misura che si compivano gli atti ad essi relativi: così vi furono condanne ed esecuzioni in Calabria, e poi in Napoli, ed analogamente vi furono altre condanne od invece assoluzioni di tempo in tempo. Trovandosi due già condannati a morte in Calabria, Maurizio de Rinaldis e Cesare Pisano, sopra di essi appunto cominciò a svolgersi l'opera del tribunale, certamente per averne, se fosse stato possibile, rivelazioni in danno anche degli altri, al quale scopo si era giudicato meglio tenerli ancora in vita; con gli atti relativi a costoro ebbe ad iniziarsi il 3.o volume del processo, al sèguito di quelli compiuti in Calabria. Maurizio non avea confessato nulla malgrado gli orribili tormenti avuti; ricominciarono per lui in Napoli gli esami e ricominciarono i tormenti non meno crudeli. Il Campanella medesimo cantò che Maurizio il primo avea vinto i tormenti antichi e sprezzato i nuovi, che avea sofferto tormenti inusitati per trecento ore32. È facile qui vedere una esagerazione poetica, ma, come abbiamo già avuta occasione di dire altrove, Mons.r Mandina, il quale fu più tardi Giudice dell'eresia e potè saperlo in modo autentico, affermò che era stato tormentato per settanta ore, alludendo con ogni probabilità a' soli tormenti avuti in Napoli. Per quanto possiamo giudicarne, egli dovè soffrire due volte, a breve intervallo, il tormento della veglia, ne' modi e forme che vedremo con tutti i loro particolari in persona del Campanella, il quale lo soffrì in sèguito, per una volta sola, nella causa dell'eresia. Comunque il tormento della veglia dovesse durare quaranta ore, pe' modi enormemente aspri con cui si amministrava sopratutto in Roma e in Napoli, quasi mai si giungeva a siffatto termine, senza che il paziente cadesse in tale prostrazione da far cessare la prova innanzi tempo, tanto più che il Giudice era tenuto a rispondere della morte di lui se avesse soccombuto nel tormento; e la prostrazione, quando gl'individui erano di buona tempra, ordinariamente si verificava fra le trenta e le trentacinque ore, ed ecco le settanta ore di tormento affermate dal Mandina. Nè rappresenta una difficoltà il leggersi «tormenti inusitati», poichè appunto tra questi era annoverata la veglia, e vi si ricorreva soltanto per casi straordinarii, mentre poi d'altra parte i Giudici di professione, a differenza de' «Capitani a guerra», doveano pure contenersi in quelle categorie di tormenti, che erano ammesse da' Giuristi e dalle consuetudini di ciascun paese33. Ad ogni modo le prove furono terribili, eppure vennero nobilmente superate da Maurizio: il fortissimo uomo non fece la menoma rivelazione, soffocando qualunque rancore, mentre già conosceva di essere stato nominato fin troppo nella Dichiarazione del Campanella! Ma durante i tormenti venne senza dubbio fatta la protesta che lo s'interrogava «citra prejudicium probatorum»; e poi, benchè non confesso, era pur sempre convinto, e gli si potè confermare la sentenza di morte, condannandolo ad essere appiccato e squartato certamente con la formola del tempo, «suspendatur in furcis adeo quod anima a corpore segregetur, eiusque cadaver in quatuor frustra dividatur». È superfluo poi dire che la sua casa doveva essere demolita ed aspersa di sale, e i suoi beni dovevano essere confiscati: «domus propria diruatur funditus, et solo aequata, in ea sale asperso, destruatur; singula eius bona publicentur, et fisci commodis applicentur». Vi fu dunque la conferma della sentenza di morte già pubblicata in Calabria, e non poteva essere altrimenti; deve dirsi inoltre che vi fu una mitigazione nella specie del supplizio, in paragone di quello tanto spaventoso sentenziato dallo Spinelli forse a proposta dello Xarava, ed anche da questo lato non poteva essere altrimenti, perocchè il tribunale non era come il precedente «ad modum belli». Dopo ciò è facile giudicare quanto il Campanella scrisse molto più tardi, nella sua Narrazione, circa l'influenza che avrebbe avuta nella condanna di Maurizio l'amicizia e la parentela del Sances col Morano, il quale desiderava la morte di Maurizio per ereditarne un feudo e stringere una nuova parentela col Sances mediante un matrimonio. Con un po' di confusione di tempo e di circostanze, mostrato già in corso e bene avviato il processo degli ecclesiastici che invece non era cominciato ancora, il Campanella scrisse: «Sendo stato fatto fiscale in luoco di Xarava D. Gio. Sances, la cui sorella havea per marito il Baron di Gagliato, fratel di Giovan Geronimo Morano, il cui figlio per dispensa venuta del Papa stava per pigliar la figlia unica del Barone, nepote del Sances, e perchè detto Morano havea scorso il regno e preso Mauritio e F. Dionisio carcerati con molto vantaggio e sperava dal Rè un Marchesato, come si vantava publicamente, e di più desiderava la morte di Mauritio, perchè morendo senza herede mascolo esso Mauritio, il Morano hereditava di quello un feudo, come poi l'hereditò. Per questo il Sances oltra le sue pretendenze et amicitia delli processanti non cercò s'era vera la ribellione ma si sforzò verificarla, e far morir Mauritio». La parentela del Sances col Morano è fuori contestazione, ma è un fatto che il Sances non poteva non trovar vera la ribellione, e che Maurizio non poteva in alcun modo scansare la morte, come nemmeno la scansò quando più tardi fece sotto il patibolo una spontanea confessione di ogni cosa. E dobbiamo aggiungere che alla mano della figlia unica del Barone di Gagliato, D.a Camilla Morano, a quel tempo di soli dodici anni, aspirava il cugino del Fiscale, un altro D. Giovanni Sances, figlio di D. Giulio, che difatti la sposò più tardi, nel novembre 1605, avendone in dote la terra di Gagliato e il rinomato feudo di Burgorusso in tenimento di Stilo, e fu lui che divenne poi Marchese di Gagliato. Non sarebbe veramente difficile che vi avesse aspirato anche il figlio di Gio. Geronimo Morano, giacchè abbiamo nel Grande Archivio documenti i quali mostrano la gran cura del Governo nel far tenere D.a Camilla in Monastero, secondo i principii dell'ingerenza governativa ne' matrimonii de' nobili a' tempi feudali34. Ma è evidente che in un simile conflitto di rivali non avrebbe potuto esservi nemmeno amicizia tra il Sances e Gio. Geronimo. Vedremo poi come finirono i beni di Maurizio, il quale forse potè essere semplicemente subfeudatario di una parte di Borgorusso, mentre le ricerche più ostinate su tale punto non ci hanno fatto sinora scovrire alcun feudo speciale di quella regione da lui posseduto. Nella detta ipotesi la morte di Maurizio nemmeno avrebbe profittato a Gio. Geronimo, ma a D.a Camilla; ad ogni modo quanto era già avvenuto, anche prima che la causa si agitasse in Napoli, mostra nel modo più chiaro che il Sances non poteva che dimandare ed ottenere la condanna di morte per Maurizio35.

Intorno a Cesare Pisano, che il Nunzio aveva nella sua lista qual clerico, e il Governo riteneva doversi continuare a trattare qual laico, non sappiamo come si sia veramente proceduto nel tribunale di Napoli: sappiamo solo ciò che ne disse il Nunzio quando venne a conoscere l'esito del giudizio, scrivendone una lettera di lagnanza al Vicerè, nella quale lo avvertiva aver inteso che contro del Pisano «si procede con tanto rigore per il capo della ribellione, che senza ammettergli ne anche la probanza del Clericato è stato condannato à morte». Forse il tribunale stimò che avesse confessato abbastanza, e che invece di far nascere la quistione giurisdizionale col rumore di nuovi esami e nuovi tormenti, fosse preferibile dare un saggio di vigore confermando la condanna ed eseguendola senza curarsi d'altro. Lo argomentiamo dal conoscere la prolissa maniera di rispondere, che il Pisano era solito di usare ne' suoi interrogatorii, onde non sarebbe mancata poi la citazione di qualche notizia tratta da un nuovo interrogatorio, laddove questo ci fosse stato.

La condanna di Maurizio, e così pure quella analoga del Pisano, doverono pronunziarsi o almeno decidersi nel Consiglio Collaterale il 10 o 12 dicembre, poichè il 13 già si trasmetteva a Madrid la notizia di prossime esecuzioni. Difatti pel giorno 20 si allestiva certamente l'esecuzione di Maurizio, e molto probabilmente anche quella del Pisano, onde il Nunzio nel giorno 19 potè conoscere che costui era stato condannato a morte, e potè scriverne in fretta al Vicerè, facendogli notare, che non solo come clerico il Pisano avrebbe dovuto essere giudicato pure da lui «secondo l'appuntamento fatto con S. S.tà», ma anche come molto informato dell'eresie suscitate dal Campanella, «e forse della medesima setta», dovea essere riserbato; «non per campargli la vita, egli scriveva, se merita perderla per il capo della ribellione, ma per riscontro et castigo di quel che appartenesse al S.to Officio», supplicandolo di «non permettere che la causa della ribellione humana si solleciti tanto che pregiudichi à quella della ribellione divina, perchè si sarà in tempo di castigar l'una et l'altra»36. Il Vicerè sospese allora la faccenda in quanto al Pisano, per farla sopire e darle poi corso più tardi a modo suo, di sorpresa. Rispose al Nunzio in termini generali, che in tutto ciò che si poteva servirlo, stesse certo, che lo si farebbe, e sarebbero liberati coloro che non paressero colpevoli in delitti così gravi, etc.37; non prese quindi alcuno impegno determinato, ed egualmente fece allorchè più tardi il Nunzio glie ne parlò, dimostrandogli che bisognava sempre mantener vivo il Pisano per riscontro delle cose del S.to Officio, anche quando i suoi Ministri non lo ritenessero clerico, come non lo ritenevano perchè non avea nemmeno indossato l'abito clericale «non ostante che mostrasse di haver preso gli anni passati gli ordini minori»38. Il Vicerè non lasciò intendere la sua opinione, e frattanto, con molta unzione, si diè premura d'intercedere a Roma, perchè fosse assoluto il Principe di Scilla, già scomunicato per l'affare di Marco Antonio Capito dal Vescovo di Mileto.

Ma in quanto a Maurizio, il 20 dicembre si andò per l'esecuzione; se non che una circostanza affatto impreveduta la fece poi sospendere per quel giorno. Massime il relativo documento da noi trovato nell'Archivio de' Bianchi di giustizia, ed inoltre una lettera del Residente Veneto, ce ne dànno sufficienti particolari. Giusta la consuetudine, il condannato doveva uscire dalle carceri della Vicaria, ed a spettacolo pubblico traversare una gran parte della città, percorrendo la via oggi detta de' Tribunali, scendendo pel vico Nilo (che perciò dicevasi «degl'Impisi» e fino a' giorni nostri fu detto «Bisi»), per dirigersi di là alla piazza del Mercato, ovvero scendendo per la via di Toledo e girando presso Palazzo (e ben s'intende che qui si parla del Palazzo vecchio), per dirigersi alle adiacenze di Castel nuovo. Maurizio fu egli pure tradotto dapprima alla Vicaria, e poi di là, sopra un carro, certamente perchè inabilitato a muoversi dietro le torture sofferte, facendo il lungo giro sopraindicato fu tradotto «a vista del Castel novo»; ma giunto sotto la forca egli dichiarò di voler rivelare ogni cosa, ed allora l'esecuzione fu sospesa. Ecco come il fatto trovasi esposto nel Registro de' Bianchi di giustizia: «et à di xx di xbre se andò in Vicaria con tutta la compagnia, et uscì la giustitia sopra un carro, et essendo già sotto la forca se risolse detto Mauritio confessare et rivelare li complici della ribellione, et così non si eseguì la giustitia et ritornò in Vicaria con essersi trattenuta la compagnia un pezzo dentro la chiesa di Monserrato»39. Come mai Maurizio fece questa risoluzione? Egli stesso nelle sue ultime rivelazioni a' Delegati del S.to Officio, sul punto di essere definitivamente condotto alla forca, lo spiegò in questi termini: «Io sapendo che frà Thomaso si era esaminato contra di me, havendo io avuto più volte la corda, non hò voluto mai dire cosa alcuna contra di essi frati, è si bene poi hò ditto la verità, è stato perche sono stato consigliato che era obligato a dirlo per scarico dela mia conscientia, si come me hà ditto lo mio confessore dela Compagnia di quelli che confortano quelli che si vanno à giustitiare»40. Non altrimenti ne scrisse pure a Roma il Nunzio medesimo quando era già cominciata la causa degli ecclesiastici, ed egli, come Giudice di quella causa, poteva e doveva saperlo: «condotto alle forche si risolvette à dire spontaneamente, et per scarico di conscienza, tutto quello che sempre haveva negato nei tormenti»41. Inoltre, poco dopo l'accaduto, come vedremo più sotto, il Residente Veneto ne fece relazione al suo Governo negli stessi sensi, aggiungendo qualche altra circostanza degna di nota. Ma il Campanella, dapprima nella sua Difesa che noi pubblichiamo, poi nelle Lettere del 1606-07 pubblicate dal Centofanti, da ultimo nella sua Narrazione pubblicate dal Capialbi, riferì le cose assai diversamente, con circostanze che meritano di essere ben chiarite, poichè ognuno comprende l'estrema importanza del fatto, da cui, secondo la diversa interpetrazione, riesce suggellata o invece scossa profondamente l'esistenza della congiura o almeno la parte presavi dal Campanella. Dapprima dunque nella Difesa asserì che Maurizio «volle vendicarsi di quanto fra Tommaso scrisse in Castelvetere contro di lui», e che «ebbe speranza di redimersi all' ultimo momento col far dichiarazioni contro fra Tommaso, poichè così lo persuase un certo fiscale in abito di confrate promettendogli la vita sotto parola del Re come poi fra Tommaso udì dalla bocca di lui» (queste ultime proposizioni furono aggiunte per uso de' Giudici propriamente dell'eresia). Nelle Lettere al Papa, al Card.l Farnese, al Card.l S. Giorgio, al Re di Spagna, rinforzò le assertive anteriori scrivendo, che «sotto verbo Regio fecero confessar a Mauritio mille bugie», che Maurizio «per altra causa morendo sulle forche persuaso dal falso fiscale e confessore tornò in prigione e disse mirabilia et non subsistentia», che gli «fu promessa la vita sub verbo regio che dicesse su la forca quel ch'in mille tormenti negato havea», che «fu ingannato sotto parola della vita dopo molti tormenti quando andava a morire e disse mille bugie»42. Infine nella Narrazione, scritta tanto più tardi, espose i fatti con tanto maggiore disinvoltura in questi termini. «Però vedendo esso Sances, che non si potea verificare la ribellione, perchè Mauritio con torture terribilissime in Calabria non havea confessato con tutto che Xarava lo torturò un'altra volta dopo condannato e confessato, dicendoli ch'il confessore era un secolare vestito di monaco per spiarlo: nè pur in Napoli poi confessò tormentato di novo: si vestir di confrati bianchi certi Consiglieri, fingendo che volean farlo morire: et esso Sances con un Gesuino confessor del Vicerè, li promisero la vita in verbo regio, se confessava la ribellione sopra la forca, perchè havesse color di verità. E Mauritio temendo morir de mandato regio perchè havea ucciso un suo cugino et una femina, et andato sopra le galere turche per scampar la vita confessò sopra la forca quando andò fintamente ad appiccarsi». Pur troppo questo garbuglio del Campanella è de' più dolorosi, e si può intendere ma non si può assolvere che egli abbia dovuto infamare Maurizio in tal modo. La condanna di Maurizio alla morte, come convinto di ribellione, era stata pronunziata già una volta in Calabria, e principalmente per colpa del Campanella medesimo; nè bisognava affaticarsi perchè la ribellione acquistasse «color di verità», quando il Campanella l'aveva così bene affermata nella sua Dichiarazione dando anche la spiegazione precisa dell'andata di Maurizio sulle galere turche, e già ad otto persone era stato inflitto l'estremo supplizio per essa. Il confondere gli omicidii anteriori di Maurizio col suo caso ultimo, il voler far credere che avrebbe potuto scampar la vita confessando quella ribellione per la quale era condotto alla forca, l'asserire che «andò fintamente ad appiccarsi» quasi che non vi fosse stata una precedente condanna in tal senso, tutto ciò è ben poco serio; ed egualmente è ben poco serio, o meglio iniquo, il voler mostrare Maurizio divenuto vigliacco a un tratto, dopo le splendide prove di fermezza da lui date, dopo gli splendidi attestati del Campanella medesimo espressi già nella Dichiarazione e in sèguito nelle Poesie. Può bene ammettersi nel Sances e nel Gesuita confessore del Vicerè (P.e Ferrante de Mendozza) ogni specie di tentativo per indurre Maurizio a confessare la ribellione, ma non in Maurizio tanta dose d'ingenuità da cedere segnatamente a quella specie di promessa che il Campanella si fece a narrare. Quanto poi all'esservi stati Consiglieri vestiti da confrati bianchi, i quali esercitarono la loro influenza su Maurizio per farlo confessare, la cosa potrebbe ritenersi nel senso, che qualche confrate addetto a confortare Maurizio allorchè andava a giustiziarsi, per eccesso di zelo, abbia avuto premura di suscitarne gli scrupoli e mostrargli la necessità di confessare per salvarsi l' anima. Si potrebbe ritenerlo in astratto, poichè, come ricordano i nostri Storici ed attestano varii documenti, non una volta a quella benemerita Compagnia de' Bianchi furono mosse accuse di questo genere ed anche di genere opposto, da' particolari ovvero dal Governo, essendovi stato motivo di ritenere che i confrati avessero spinto qualche condannato alle confessioni ovvero alle discolpe; ma dobbiamo pure soggiungere che nel caso concreto Maurizio medesimo ebbe più tardi a dichiararlo a' Delegati del S.to Officio; se non che sarebbe difficile sostenere essere stato spinto alla confessione dolosamente e dietro manovre del Sances e del Governo. Per disgrazia questa volta non abbiamo nemmeno i nomi de' confrati intervenuti, che i Registri della Compagnia dànno sempre, specificando anche coloro i quali hanno assistito il condannato all'ufficio, per la strada, alla porta, alla scala o al talamo secondo le specie del supplizio: essendo mancata l'esecuzione, non vi fu un annotamento apposito, ma vi fu la seconda volta, quando l'esecuzione si compì, e non sarebbe troppo arrischiato l'ammettere che pure la prima volta fossero intervenuti i confrati medesimi. Laddove questa ipotesi dovesse ammettersi, potremmo dire certamente non essere intervenuti Consiglieri nè Fiscali, essere stati i due principali confortatori, che maggiormente avrebbero avuto ad influire, il P.e Palescandolo governatore della Compagnia il quale avrebbe assistito Maurizio lungo la strada, e D. Scipione Stinca egualmente sacerdote oltrechè dottore (ed avremo a vederlo più tardi difensore officioso della maggior parte de' frati nella causa dell'eresia), il quale avrebbe assistito Maurizio alla scala, dove appunto egli dichiarò voler fare le sue rivelazioni: vi fossero poi stati anche Consiglieri e Fiscali, si sa che la Compagnia ne annoverava molti, insieme co' più distinti personaggi del paese43. Ad ogni modo può dirsi certo che Maurizio non fu indotto a confessare da alcuna ragione vituperosa, bensì da una ragione che può non essere stimata giusta, ma non può non essere rispettata, tanto più che trovasi in tutto conforme a' precedenti di lui. Da niuno fu detto mai, in quel tempo, che avesse confessato per vigliaccheria o per capitolazione, e fortunatamente abbiamo la relazione del Residente Veneto, la quale ci fa conoscere assai bene i desiderii e le condizioni che Maurizio espresse dopo la condanna e al momento dell'esecuzione; è superfluo dire che vi si può credere senza riserve, non trattandosi di fatti avvenuti fuori Napoli ovvero in segreto, pe' quali soltanto riesce difficile aspettarsi l'esattezza dal Residente, come s'incontra in realtà anche questa volta per talune circostanze che leggonsi in fine del suo dispaccio. Eccolo questo dispaccio, che porta la data del 28 dicembre, e che, unito alle affermazioni del Nunzio sopra citate, ci pare che venga a togliere ogni dubbio sul fatto in quistione. «Quel Mauritio Rinaldi famoso per essere stato capo della congiura et non meno perchè ogniuno sapeva, che dal signor Carlo Spinelli era stato condannato di esser segato vivo tra due tavole, condotto di ordine del Vicerè a' 23 del presente a vista del Castelnovo per dover essere impiccato, et poi squartato, non havendogli giovato di offerire sei mille ducati più di alcuni suoi beni liberi confiscati, per ottenere che per non derogar al suo nascimento di nobiltà gli fosse solamente tagliata la testa, giunto al luogo del supplicio, tutto converso a Dio, disse, che havendo in questa sua prigiona sofferto in tre mesi quaranta hore di corda, et altri tormenti per i quali si trovava tutto attratto et quasi morto senza haver mai confessato alcuna cosa, haveva à bastanza comprobato che egli per viltà non consentiva di mancar di fede a' suoi collegati, ma che allhora, essendo all'ultimo cimento dell'anima, per non seppelirla nell'Inferno voleva scoprir tutte le cose trattate senza niuna conditione di salvarsi la vita. Fu però per ordine di Sua Eccellenza trapposto più tempo alla sua morte, et hà egli manifestate cose maggiori che non si sapevano, et nominato persone di qualità per infette della heresia et della rebellione, onde, non ostante gli ordini di Spagna che furono che si procurasse di poner in silentio quanto prima questa materia, incominciano pur hora i processi et le retentioni»44.

30.Ved. Doc. 376, pag. 386.
31.Rimanga ben chiaro che il processo fu propriamente intitolato «di tentata ribellione»; solo pel vantaggio della brevità noi diciamo «processo della congiura», la quale maniera di esprimerci è del resto consentanea all'altra anzidetta, e certamente preferibile a quella che troviamo pure usata negli Atti e ne' Carteggi, cioè «processo di ribellione».
32.Ved. i Doc. 441 e 442, pag. 551.
33.Abbiamo fatto avvertire altrove (vol. 1.o p. 303) che potevano i Giudici, pe' delitti di lesa Maestà servirsi de' più gravi tormenti, ma non di tormenti nuovi. Qui aggiungiamo che lo stesso Farinacio cita la veglia, aggravata da successive modificazioni, col precetto «non habeatur nisi in vere atrocissimis ut laesa Majestate, assassiniis famosis et similibus» (De indiciis et tortura Ven. 1649 p. 348). Aggiungiamo ancora che Maurizio, malgrado fosse nobile, poteva essere sottoposto a tortura trattandosi di lesa Maestà, ed anzi a tortura più atroce, perchè «Nobilitas saepe auget delictum» secondo la massima del Gigante (De crimine les. Majest. Ven. 1588 fol. 67).
34.1. o Ne' Reg.i Curiae, vol. 46, (an. 1599-1601) fol. 10 si legge: «All'Audientia di Calabria ultra. Per alcune cause et degni rispetti moventi nostra mente ce è parso provedere et ordinare che D. Camilla morano figlia del q.m Barone di Gagliati di questa città di Catanzaro non sia amossa dal Mon.io di S.ta Chiara di detta città, dove al presente se ritrova per ordine di quessa R.a Audientia… 18 julii 1601». – 2.o Ibid. vol. 49. (an. 1599-1601) fol. 114 t.o si legge: «All'Auditor don Sancio di miranda. Per lettera delli 15 del passato mese de luglio havemo visto quanto per voi è stato provisto nel particolare del matrimonio di donna Camilla Morana figlia del barone di Gagliano havendola posta nel monasterio di S.ta Chiara di quessa città che il tutto sta molto ben fatto. et circa quello che ci dite che donna Anna sancez matre di detta donna Camilla tiene per sospetto il detto monasterio et per darli satisfatione l'haveti offerto un altro, gia che le parte senne contentano, vi dicimo che debbiate dar sodisfatione à detta donna anna circa il mutare detta donna Camilla sua figlia in altro monasterio come vi parerà meglio, non obstante l'ordine nostro che non si dovesse mutare da detto monasterio senza altro ordine che tale è mia voluntà et intentione. Datum neap. die 4 augusti 1601». – Il primo figlio di Gio. Geronimo Morano, Gio. Antonio, invece di D.a Camilla sua cugina sposò D.a Cornelia Ricca de' Signori dell'Isola (ved. Duca della Guardia. Discorsi delle famiglie nobili etc. Nap. 1641 pag. 264).
35.Il feudo di Burgorusso, già difesa per le razze de' cavalli di Corte sotto gli Aragonesi, concesso poi al Conte di S.a Severina, era passato fin dal cadere del 1400 a Geronimo de Connestavulo subfeudatario del d.to Conte, e Francesca de Connestavulo lo recò in dote a Gio. Francesco Morano fin dal principio del 1500; era quindi già da un secolo posseduto da' Morano, onde poi con D.a Camilla Morano passò al Sances sud.to che divenne anche Marchese di Gagliato (ved. Reg.i delle Significatorie de' Relevii vol. 4.o fol. 112 t.o, e confr. Id. vol. 32.o fol. 154 t.o, inoltre Quinternioni n.o 175, fol. 191). Non c'è notizia che qualche porzione del feudo di Burgorusso fosse stata concessa in subfeudo a' De Rinaldis, e si sa che le notizie de' subfeudi si possono trovare solo accidentalmente nell'Archivio di Stato. Eppure, secondo il cenno datone dal Campanella, non avrebbe nemmeno dovuto trattarsi di quella specie detta subfeudum planum o de tabula, giacchè in altrettali suffeudi, tanto della varietà militare quanto della varietà rustica, per le costituzioni di Federico II succedevano anche le donne; avrebbe dovuto invece trattarsi di quella specie detta subfeudum quaternatum secundum quid, che veniva concessa col consenso anche del Re, giacchè in tal caso veramente, per estinzione di linea maschile od anche per solo crimine, succedeva il Barone sotto cui il feudo era tenuto. Ma rimane sempre che Burgorusso apparteneva a D.a Camilla, e che agli zii Gio. Geronimo, Scipione e Pietro, secondogeniti di Gio. Battista, spettava solamente la vita-milizia in D.ti 72, come risulta dal sud.to vol. 32.o delle Significatorie, fol. 154 t.o. Piuttosto Gio. Geronimo avrebbe potuto pretendere ed ottenere in mercede qualche feudo appartenente a' De Rinaldis dopo la confisca fattane, ma è singolare che non si abbiano notizie di feudi de De' Rinaldis per tutto il 1500, nè se ne abbiano di Gio. Geronimo Morano e figli per l'anno 1600 e seguenti. Per la fine del 1400 abbiamo trovato notizia del feudo di S. Marco in Calabria citra (detto anche S. Maoro nell'anno 1488) «concesso per la M.ta del S.or Re a Mosca de Raynaldo regio cavallarizo» e i feudi di Prato e di Cocchiato «concessi ad Michelangelo de Ranaldo»; ma in sèguito questi feudi si trovano tutti restituiti al Principe di Bisignano, e i due ultimi venduti da lui ad altri. In Stilo e Guardavalle poi verso i primi anni del 1600, oltre Burgorusso, si trova il feudo di Ragusa appartenente a' Tomacelli, da Lucrezia 2.a figlia di Geronimo e d'Ippolita Ruffo portato in dote a D. Filippo Colonna, che per morte del fratello Marcantonio divenne Duca di Paliano e Tagliacozzo e Gran Contestabile del Regno (amico del Campanella più tardi, e forse con l'occasione del feudo). Si trova inoltre il feudo di Arcamone, disputato tra Salvatore Reycitano e Cesario Salerno; e si trova infine il feudo Colicestra ed Agapito, acquistato da Berto Presterà. Il nome di Gio. Geronimo Morano non vi s'incontra affatto. Ciò darebbe ragione di creder vera la destinazione de' beni di Maurizio nel modo che vedremo affermato dal Residente Veneto.
36.Ved. Doc. 78, pag. 59.
37.Ved. Doc. 79, pag. 59. Questa copia di biglietto Vicereale senza data e senza indirizzo, ma inserta fra le lettere del periodo di cui trattiamo nel Carteggio del Nunzio, ci pare appunto che rappresenti la risposta del Vicerè alla lettera anzidetta.
38.Così scrisse poi il Nunzio a Roma con la sua lettera del 21 gennaio 1600; ved. Doc. 83, pag. 60.
39.Ved. Doc. 239, pag. 125. Chi conosce Napoli sa che la Chiesa di Monserrato trovasi all'ingresso dell'attuale Strada di Porto e di rimpetto alla torre del Castellano.
40.Ved. Doc. 307, pag. 256.
41.Ved. Doc. 84, pag. 61.
42.Per ciò che è scritto nella Difesa, ved. Doc. 401, pag. 484. Per ciò che è scritto nelle Lettere, ved. Archivio Storico Italiano an. 1866, pag. 24, 59, 68 e 90.
43.Facevano parte della Compagnia quasi sempre il Card.l Arcivescovo della città, molti Vescovi, Nobili titolati, Signori, Dottori, Sacerdoti, e per istituto un numero determinato di P.i Gesuiti e P.i dell'Oratorio, non che P.i di altri ordini. Ne faceva allora parte anche D. Gabriele Sances Cappellano maggiore, fratello di D. Giovanni; lo Stinca vi si era ascritto fin dal 6 gennaio 1585; più tardi, nel 1603, vi si ascrisse lo stesso Nunzio Jacopo Aldobrandini Vescovo di Troia. Annualmente uno de' fratelli era eletto all'ufficio di «scrivano». Costui registrava le relazioni delle giustizie, con la lista de' parenti del giustiziato, che la Compagnia aveva il carico di assistere e soccorrere, e con le discolpe e ritrattazioni se ve ne erano, oltrechè raccoglieva in altri libri i testamenti dei giustiziati, gli originali delle Autorità che ordinavano od invitavano la Compagnia alle giustizie etc. etc. Secondo l'attività dello scrivano e l'importanza del caso, si ha qualche notevolissima relazione, come quella della giustizia di fra Tommaso Pignatelli allievo del Campanella, che fu scritta da D. Antonio d'Aytona, e che trovata in copia nella Biblioteca Brancacciana dal chiar. prof. De Blasiis servì di base al suo bel lavoro intitolato Una seconda congiura del Campanella (ved. Giornale Napoletano di filos. e lett. giugno 1875). Nella Biblioteca dell'Abate Cuomo, ora Municipale, si hanno parecchie relazioni di giustizie, segnatamente de' tempi di Masaniello, che trascrisse da' Registri della Compagnia lo stesso compianto Abate.
44.I suddetti ordini di Spagna rappresentano senza dubbio una delle voci diffuse allora ad arte; abbiamo altrove riferita la lettera del Re, che mostra gli ordini veri e ben diversi. Rappresenta del pari una voce diffusa ad arte quella che il Residente avea già trasmessa in un dispaccio anteriore (ved. Doc. 185, pag. 94) e che fornì al Mutinelli l'occasione di una nota sul tono di un idillio. Da' Registri Sigillorum di quel tempo si può vedere come S. M.tà di Spagna avesse pietà della borsa de' napoletani, facendo diluviare le grazie co' diversi titoli, di pensioni, avantagii, intertenimienti, piazze morte, sempre nell'interesse degli spagnuoli; e il fatto è illustrato assai bene da un'affannosa lettera del Vicerè che noi pubblichiamo (ved. Doc. 41, pag. 45). Si comprende poi che non si può fare alcuno assegnamento su quanto il Residente dice che Maurizio avrebbe confessato, trattandosi di un atto processuale del tutto segreto; e non abbiamo veramente notizia che fossero «cominciati» allora altri processi e catture dietro le confessioni di Maurizio.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
850 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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