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Читать книгу: «Fra Tommaso Campanella, Vol. 2», страница 2

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Ecco ora un saggio della ricognizione fatta dall'Auditore del Nunzio il 23 novembre; ne prendiamo alcuni brani dal 1.o volume del processo di eresia, dove essa trovasi inserta. Precisamente come scrisse il Nunzio a Roma nella stessa data, si volle rilevare quali e quanti fossero gli ecclesiastici inquisiti, i loro nomi ed il luogo in cui si trovavano carcerati: così per la prima volta s'incontra un breve interrogatorio del Campanella e di tutti gli altri ecclesiastici, con la descrizione degli abiti di coloro che furono presi travestiti da secolari; non di rado vi s'incontra pure la notizia della patria, parenti, età e circostanze in cui ciascuno fu preso18. Il Campanella venne interrogato prima di ogni altro, e diamo qui la descrizione che se ne fece, e le due risposte che si ebbero alle due interrogazioni fattegli. «Fu esaminato un certo giovane, con barba nera, vestito di abiti laicali, con cappello nero, casacca nera, calzoni di pelle, ferraiolo di lana come volgarmente si dice panno di Morano arbaso, e deferitogli il giuramento» etc. rispose: «Signore, Io mi chiamo Fra Thomasi Campanella dell'ordine di San Domenico, sono di una terra chiamata Stilo in Calabria ultra, mio patre si domanda Geronimo Campanella et mia matre Catherina basile. L'essercitio mio è di Religioso, dire l'offitio, messa, predicare et confessare, et l'habitatione mia è in Stilo nel convento detto Santa Maria di Gesù di detto ordine di S. Domenico, et si ben mi ritrovo vestito di questa maniera, è perchè fuggiva l'ira di miei inimici che mi persequitavano, cioè l'Avocato fiscale Don luisi Sciarava et Gio. Geronimo Morano che mi veniva appresso»… «Nell'anno 1581 mi pare ch'io entrassi nella Religione, et per prima era chierico». Due cose si fanno qui notare: l'una è che sua madre vien detta Caterina Basile, mentre è stato assicurato che ne' libri parrocchiali leggevasi Caterina Martello, e su questo ci siamo già spiegati fin dal principio della nostra narrazione (ved. vol. 1.o pag. 2); l'altra è che il Campanella scusa qui la sua fuga dicendo che gli «veniva appresso» Gio. Geronimo Morano, non Maurizio de Rinaldis. – Seguì l'interrogatorio fatto a fra Pietro di Stilo, nel quale si parlò ancora del Campanella, e ne diamo semplicemente le risposte. «Havrà da dudeci anni ch'io sono entrato nella Religione, et havrà da undici anni che hò fatto la professione, et di presente quando fui preso carcerato steva à Stilo nel monisterio di S.ta Maria del Gesù dove io era vicario»… «In detto convento vi erano quattro sacerdoti di messa et uno laico assistenti computati con me, et fra Dionisio Pontio ci soleva venire come una furia, et andava et veniva; li quattro sacerdoti sono prima io, il secondo fra Thomasi Campanella, il terzo fra Domenico di Riaci, il quarto fra Simone della Motta (si noti che il Petrolo non c'era), et non fu di altri che fugissero di detti frati solo il Campanella avertito da fra Dionisio pontio che venne à dire che era stato avisato che veniva il s.r Carlo Spinello contro di loro, et così si ne partirno, et questo è quello ch'io so della fuga loro». – Lasciando poi tutti gli altri interrogatorii, riporteremo soltanto quelli di fra Domenico Petrolo, di fra Giuseppe Bitonto e di fra Dionisio, con la descrizione de' loro travestimenti. Quanto a fra Domenico si scrisse: «Fu esaminato un certo giovane con piccola barba, vestito di abiti laicali, con casacca nera di panno d'arbascio, calzoni di panno color lionato, con ferraiolo egualmente di panno nero d'arbascio, dietro giuramento» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Domenico de Stignano dell'ordine di S.to Domenico, et son figlio ad Augustino petrone (sic) et a lucretia pelegia, et l'essercitio mio è di studente sacerdote di Messa, et ha dui anni ch'hò predicato et sono stato assignato al convento di Cosensa et deputato al convento di S.ta Maria di Gesù di Stilo»; nè gli fu dimandato altro. Quanto a fra Giuseppe Bitonto, troviamo: «Fu esaminato un certo giovane con barba castagnaccia, vestito di abiti laicali, con giubba bianca, cappello nero e calzoni di arbascio nero e ferraiolo di panno nero, con giuramento interrogato» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Gioseppe Bitonto di san Giorgio et sono sacerdote di Messa et lettore» etc. «Quando fui preso carcerato fui preso in casa fuori alla vigna d'un mio zio, che mi ni era ritirato là per pagura di non essere preso, già che si diceva che tutti l'amici del Campanella dovevano essere presi et però mi ritrovo in questo habito che mi presero che steva dormendo, et li sbirri mi levorno la tunica et l'habito, et in questo carcere di notte e giorno stò solo». Infine quanto a fra Dionisio si scrisse: «Fu esaminato un certo giovane con barba nera vestito di abiti laicali, con casacca di ciambellotto, calzoni di scottano nero e ferraiolo nero, con giuramento interrogato» etc. rispose, «Io mi chiamo fra Dionisio Pontio da Nicastro et son frate dell'ordine di S.to Domenico et l'essercitio mio è di sacerdote lettore et predicatore et mio padre si chiamò Jacovo pontio et mia madre si chiamò lisabetta monizza»… «Io fui preso carcerato à Monopoli dove io era fugito et scappato da molti soldati nel convento di piczoni, perche mi fu detto da claudio crispo che erano venuti detti homini per carcerare li frati in detto monisterio». Si può qui notare che egli dicevasi avvertito dal Crispo, il quale era stato solito di dimorare in quel convento e forse allora vi mancava, non già dal Caccia il quale veramente l'aveva avvertito, e non conveniva che fosse nominato, per nascondere che era là venuto in sua compagnia. – Facendo questa rassegna, l'Auditore ebbe a trovare non 14 ma 21 ecclesiastici, come si rileva dalla Ricognizione originale, ed ebbe a sapere che altri tre di loro erano stati rinchiusi nel Castello dell'uovo, probabilmente per semplice disavvertenza: questi erano infatti fra Pietro Ponzio, Cesare Pisano e Giulio Contestabile, ma nella lista che ne fu redatta lo stesso giorno e che può leggersi tra' Documenti19, fu messo non già il Contestabile, sibbene Gio. Tommaso Caccia che era stato già giustiziato! Chi si permise tale sostituzione evidentemente dolosa? Sarebbe difficile dirlo; ma poichè insieme coll'Auditore non v'era alcuno ufficiale Regio che avrebbe potuto far nascere tale equivoco, bisogna piuttosto dire che l'abbia fatto nascere il Nunzio medesimo, per mostrarsi ignaro di questo grave e d'altronde irrimediabile oltraggio arrecato alla giurisdizione. Il Vescovo di Squillace fin dal giorno 11 avea scritto un'altra volta al Nunzio nominandogli in particolare un clerico, naturalmente della propria diocesi, che con ogni probabilità dovè essere il Caccia; il Nunzio gli rispose che questo clerico era stato condotto in Napoli, e intorno a lui doveva eseguirsi l'ordine che S. S.tà darebbe, come altra volta gli avea scritto20; sicchè il trovarselo nella lista gli potè servire di ottima scusa. Ma se questo non fosse stato un artificio suo, avrebbe dovuto poi venire il giorno delle lagnanze e de' risentimenti presso il Vicerè, allo scoprirsi dell'inganno; ora siffatto giorno non venne mai, e ciò mostra che Mons.r Nunzio non vide perchè non volle vedere, o per lo meno che le sue grandi cure intorno alla giurisdizione non erano dirette a proteggere le persone ecclesiastiche, le quali potevano perfino scomparire senza che egli se ne avvedesse.

Nel medesimo giorno 23 novembre il Nunzio mandò a Roma la notizia della ricognizione fatta e la lista de' carcerati ecclesiastici, che raggiungevano appunto il numero di 23, con l'osservazione che se n'erano trovati 9 di più ed un solo clerico selvaggio. Nel giorno 26 tornò sull'argomento e ripetè l'istanza che venisse l'ordine circa le persone le quali doveano costituire il tribunale per l'eresia, accertando che in questa materia i Ministri Regii non avevano alcuna pretensione d'intervenire, ma soggiunse: «temo bene che nel capo della congiura e ribellione non sia per bastare à medesimi Ministri l'intervenire, ma che vorranno apparirci principali, et che sotto lor nome si faccino i Processi non ostante che di ragione non convenga, per che ritraggo che dicono altra volta haverlo usato, et che sia solito de Principi in simili casi proceder de facto». Questo gli venne confermato poco dopo dal medesimo Vicerè in una udienza avuta, e mentre egli insisteva sulla necessità «che tutto apparisse fatto coram Judice ecclesiastico», il Vicerè mandò a chiamare il Reggente d'Aponte (che era Gio. Francesco Marchese di Morcone, cugino del Consigliere, figlio di Gio. Antonio e di Costanza Lanaria), e costui disse che «havevano trovato che con altre occasioni era stato dalli Antecessori di S. S.tà commesso ad uno de Ministri Regii che intervenisse come delegato Apostolico in trattar simili cause»; il Vicerè soggiunse che se ne farebbe istanza a Roma. Il Nunzio allora non obiettò altro, ma chiese che i tre ecclesiastici rinchiusi nel Castello dell'ovo si facessero condurre in Castel nuovo, e l'ordine in questo senso fu subito dato; fece in pari tempo notare che i carcerati ecclesiastici si erano trovati in maggior numero, ma un solo veramente era clerico selvaggio, e il Vicerè disse che non pensava che erano tanti! Insomma il Vicerè all'occorrenza rappresentava anche la parte dell'ingenuo, e mostrava sufficiente abilità in questo armeggio.

Non si tardò a commettere le trattative all'Ambasciatore di Spagna ed all'Agente Vicereale in Roma. Una lettera del Vicerè, in data del 30 novembre, ci pone in grado di conoscere lo stato delle cose dalla parte del Governo di Napoli: sarà bene riportarla qui tutta intera in italiano21. «Già tengo dato conto a V. M.tà dell'aver tradotto qua i prigioni di Calabria, e della giustizia che si fece di sei di loro all'entrata del porto. Contro i laici si va procedendo, avendo delegato per Giudice il Consigliere Marco Antonio de Aponte, e per Fiscale D. Giovanni Sanchez, con ordine che ci vadano sempre dando conto in Collaterale di quanto si farà. I frati e clerici tengo posti tutti in Castel nuovo, con ordine che stiano lì in nome di S. S.tà e del Nunzio che risiede qui per lui, ma segretamente ho ordinato al Castellano che non lasci trarre di là nessuno. S. S.tà inviò ordine al Nunzio che risiede qui, perchè con lui, o col Giudice che egli deputerebbe pel compimento di questa causa, entrasse sempre un'altra persona di parte mia. Io non mi sono contentato con questo, e però faccio istanza per mezzo del Duca di Sessa e di D. Alonso Manrrique che mi rimetta la causa, e quando non potessi ottener questo, che S. S.tà nomini i Giudici che io le presenterò, o mi mandi un Breve perchè io possa presto nominarli in suo nome. Perciò ho trovato un decreto emanato al tempo delle rivolte del Principe di Salerno da due Reggenti di questo Collaterale, nel quale si nominano Giudici creati da S. S.tà e S. M.tà, e così con questo ed altre ragioni convenienti faccio l'istanza suddetta, e in tale stato tengo il negozio. L'Inquisizione ancora, da parte sua, tratta di volere coloro che sono inquisiti di eresia; io vado rispondendo a tutto con buone ragioni e parole, e almeno procurerò che i capi principali, per una via o per l'altra, non escano di qui senza aver giustizia di loro» etc. Quest'ultima proposizione si vedrà affermata ancora più energicamente nelle lettere Vicereali consecutive, ed essa fa intendere il deciso proponimento del Governo contro il Campanella e socii, malgrado che da parte di Roma non apparisse alcuna premura di secondarlo.

Naturalmente a Roma tutta questa insistenza per farle sacrificare i dritti giurisdizionali non piaceva punto, e già, mettendo in un sol fascio i negozii comuni e quello de' carcerati per la congiura (26 novembre), il Card.l S. Giorgio dolevasi col Nunzio, perchè i Ministri Regii non sapevano lasciare i loro abusi e il Vicerè non riusciva quale si era mostrato da principio: allorchè poi comparve D. Alonso Manrrique (2 dicembre) con quella specie di dimande sopra menzionate, si affrettava a partecipare al Nunzio la maraviglia destata dal vedere che i Ministri Regii pretendevano «di fare la causa soli». Ma non tardò nemmeno a fargli sapere (4 e 5 dicembre) la risoluzione di S. S.tà, che la causa della congiura dovesse farsi da lui «et da un Ministro Regio non coniugato in sua compagnia, che non essendo Chierico pigli la prima Tonsura per questa occasione, non essendosi lasciato persuadere S. B.ne di delegare persona meramente Laica»; ed aggiunse pure l'altra risoluzione di S. S.tà «di far venire a Roma… finita la causa della congiura» coloro tra gli ecclesiastici che erano inquisiti o sospetti di eresia, onde non solo non accadeva di deputare alcuno in luogo del Vescovo di Caserta, ma neanche si doveano agitare in Napoli siffatte materie. Evidentemente con quest'ultima risoluzione la Curia Pontificia rinfocolava i sospetti e si preparava un'altra difficoltà, imperocchè non poteva presumersi con qualche fondamento l'assoluzione di tutti gli ecclesiastici, in una causa di congiura in cui vi erario già state dieci condanne di morte con otto esecuzioni, nè doveva attendersi agevolmente il rinvio a Roma di coloro i quali sarebbero riusciti condannati, senza far loro espiare la pena nel Regno. Intanto, poco dopo, il Card.l S. Giorgio fece anche sapere che sì spedirebbe un Breve particolare sopra il tribunale della congiura, ma desiderando il Vicerè che la causa non si differisse ulteriormente, S. S.tà voleva che il Nunzio vi mettesse subito mano, senza nemmeno aspettare il Breve, contentandosi inoltre «che il Fiscale e il Notaro sieno quali il Vicerè gli vorrà». – Come si vede, pretendendo sempre di più e con gran fretta, quasi non lasciando tempo alle repliche, il Governo guadagnò molto e sollecitamente. Il Papa non si riserbò nemmeno la conoscenza personale del Ministro Regio che doveva intitolarsi Delegato Apostolico e procedere in nome della S.ta Sede: bastava che, essendo celibe, avesse la tonsura, e non avendola se la procurasse, senza contare che avrebbe poi dovuto sempre il Nunzio trovarsi d'accordo con questo Ministro Regio, poichè in caso di disparità chi mai avrebbe sciolta la differenza? Ben di rado la sostanza fu tanto barbaramente sacrificata alla forma. Una relazione di D. Alonso Manrrique in data di Roma 4 dicembre, la quale fu poi mandata in copia a Madrid, ci fa conoscere i particolari delle trattative da lui fatte, e le notizie e i consigli che dava22. Ci basterà notare che nelle trattative egli svolse l'argomento, che il Vicerè non si fermava in puntigli di giurisdizione, ma solo desiderava riuscire ad accertare il delitto e gastigarlo per soddisfazione del suo Re, e a tal fine era un mezzo più a proposito quello de' Ministri di S. M.tà che quello del Nunzio: quanto poi alle notizie ed a' consigli che dava, gioverà riportare le sue stesse parole. «In tal negozio mi rimane solo a dire che desidero infinitamente che si riesca a mettere in luce la verità, essendo molti di avviso che non vi sia nulla da accertare in riguardo al Re, e che a' prigioni non debba mancare il tutore, come altre volte ho scritto a V. E.; oltracciò ho potuto capire che hanno in progetto lasciar finire questa causa, e subilo che sia conchiusa, richiedere i prigioni per la causa della fede, e tradurli qua, dove, dicono alcuni, se si giustificano intorno alla fede, sfuggiranno quest'altra pena, o per lo meno ne sarà l'esecuzione poco rigorosa, come accade nelle cause dell'inquisizione. V. E. vedrà ciò che si conviene fare. Abbastanza buono sarebbe che agisse in guisa da far commettere al Nunzio la causa della fede, perchè fatte costi le prove e riusciti convinti di qualcuno de' due delitti, non avendo null'altro da far provare, si possa meglio insistere per l'esecuzione della sentenza, chè se non si rimette costà il fare questa causa, passa pericolo che si porti qua». Il consiglio del Manrrique, senza mostrare un negoziatore di alta levatura, mostra un uomo accorto, ed è superfluo dire che fu presto seguito.

Il Nunzio ricevè le lettere del Card.l S. Giorgio per mezzo dello stesso Governo di Napoli, poichè sovente le staffette Regie servivano anche per lui, e il 10 dicembre, avuta un'udienza, fece conoscere la risoluzione di Roma al Vicerè, il quale già ne era informato e potè comunicargli la risoluzione sua di deputare il Consigliere D. Pietro de Vera d'Aragona clerico di prima tonsura. Costui era spagnuolo e veramente assai distinto magistrato, Consigliere dal 1588, «erudito e giusto» come lo disse il Toppi23; ma apparteneva ad una famiglia tutta devotissima al Governo, avendo pure un cugino, Diego de Vera, in funzione di Pro-segretario del Vicerè appunto a quel tempo, inoltre uno zio, Francesco de Vera, Ambasciatore di S. M.tà presso la Repubblica Veneta. Il Nunzio, che lo conosceva, ebbe a dichiararlo «uno de' principali del detto Consiglio, così in lettere come in altre qualità»24. E si offerse subito a cominciare la causa «etiam senza il Breve»; ma riferendo queste cose a Roma espresse pure la sua opinione che passerebbe altro tempo prima di cominciare, ed intanto potea venire il Breve, «per non haver a mettere le lettere in processo per fondar la giuriditione». Più tardi, il 17 dicembre, riferì la comunicazione fattagli dal Vicerè dell'aver già nominato il De Vera per Giudice e lo stesso D. Giovanni Sances per Fiscale, la visita fattagli da costoro in sèguito di questa nomina, e la sua novella offerta di esser pronto a trattare la causa; ma aggiunse che il Vicerè stimava a proposito «aspettar detto Breve quanto alli ecclesiastici, poichè intanto si potea trattar contro laici». – Oramai, concluso l'affare, il Vicerè non avea più tanta fretta, o voleva egli pure un documento il quale suggellasse ciò che si era ottenuto e che lo rendeva molto soddisfatto. Questa sua soddisfazione rilevasi da una lettera che mandava a Madrid fin dal 13 dicembre, insieme con una copia della relazione di D. Alonso Manrrique, rilevandosi in pari tempo la sua costante premura che il Campanella fosse gastigato e l'annunzio della prossima esecuzione di altri laici già condannati25 «… S. S.tà si risolvè di fare quanto V. Mtà potrà comandar di vedere da questa copia di lettera di D. Alonso, che non mi pare si sia fatto poco; e così ho nominato D. Pietro De Vera, che è il Decano del Consiglio, tanto per le molte e buone parti che tiene, quanto per essere tonsurato, e credo che l'avrà per molto bene; stimai anche nominare fiscale lo stesso D. Giovanni Sanchez, e Mastrodatti il medesimo; così comincerà subito a procedersi nel negozio, e di ciò che farà il dottore Marco Antonio de Ponte co' laici si darà copia a D. Pietro de Vera e al suo compagno pel procedere contro i frati e clerici. Odo che contro il Campanella sono ben provati tanto il delitto della ribellione quanto il delitto dell'eresia; procurerò, se posso, che si faccia giustizia pel primo, sebbene non riesca a persuadermi che li vogliano tradurre a Roma per l'eresia; ma, per sì o per no, farò istanza che quanto riguarda l'Inquisizione si rimetta qui al Nunzio. Di alcuni de' laici che sono convinti o confessi comincerà a farsi giustizia secondo la colpa di ciascuno; di ciò che si farà andrò dando conto a V. M.tà» etc.

Adunque il Vicerè poteva tenersi certo che il Campanella non la scamperebbe, e facendo trattare in Napoli anche la causa dell'eresia, per lo meno veniva ad assicurarsi che il povero frate non sarebbe mai più sfuggito dalle sue mani. Vedremo che il far trattare la causa dell'eresia in Napoli, non offendendo la giurisdizione, fu accordato senza la menoma difficoltà, laonde non si ebbero controversie da questo lato, e con la promessa del Breve sulla costituzione del tribunale per la congiura nel modo convenuto, ebbe realmente termine la contesa giurisdizionale. Noi abbiamo voluto esporla in tutti i suoi più minuti particolari, giacchè essa non rappresenta una delle contese ordinarie, e i suoi particolari soltanto possono dare qualche luce su' fatti che si svolsero di poi, sull'andamento e sugli esiti de' processi. Naturalmente il processo di congiura pe' laici sottostava all'azione, legale a que' tempi, del Vicerè e del Consiglio Collaterale, e il processo di eresia per gli ecclesiastici sottostava all'azione legale del Papa e della Sacra Congregazione Cardinalizia; basta dire che le sentenze erano profferite dai Giudici così come le imponevano le risoluzioni superiori dietro la relazione de' fatti delle cause. Ma sul processo di congiura per gli ecclesiastici chi avrebbe avuto influenza? Certamente col Breve Papale il Nunzio ed il Consigliere sarebbero risultati «Delegati Apostolici», ma poteva attendersi dal Consigliere che si fosse posto alla dipendenza del Papa e non già del Vicerè? Il fatto è che ciascuna delle due parti avea presa la sua strada, che il corso delle trattative ci fa vedere in un modo abbastanza chiaro, e ci permette di giudicare in un modo meno fallace. Dalla parte del Vicerè si voleva il gastigo del Campanella e degli ecclesiastici più compromessi, conforme al gastigo che già era stato dato e si continuava a dare ai laici; bene o male si credeva alla congiura e la si voleva punita. Dalla parte del Papa si voleva riconosciuta «la superiorità ecclesiastica», che «tutto apparisse fatto coram Judice ecclesiastico» secondo le espressioni del Nunzio; e ritenendosi non esservi «nulla da accertare in quanto al Re», si voleva che non mancasse «il tutore» agl'inquisiti, secondo l'espressione del Manrrique. Ora se così ritenevasi, se conoscevasi pure essere stato malamente condotto in Calabria il processo primo e fondamentale da fra Cornelio, occorreva una tutela efficace, ed è agevole intendere che quel Breve sarebbe venuto a tutelare i diritti giurisdizionali, non le persone degl'inquisiti; è agevole anzi intendere che il desiderio di un tutore rappresentava piuttosto un argomento per non lasciarsi strappare del tutto le prerogative ecclesiastiche. Anche ammettendo, come noi ammettiamo, che il Campanella fosse stato giuridicamente colpevole, sarebbe stata giusta l'istituzione di un tribunale che avesse data guarentigia d'imparzialità, e l'espediente al quale si era ricorso non poteva riuscire a darla; poteva solo creare nuovi imbarazzi, come difatti li creò, senza giovare efficacemente al povero Campanella. Vedremo a suo luogo i termini ne' quali il Breve fu redatto, vedremo anche la condotta che tenne il Nunzio ulteriormente, e rimarrà dimostrato appieno ciò che qui affermiamo.

È tempo ora di occuparci della vita che menava il Campanella e tutta la turba degl'infelici venuti di Calabria: ecco quanto possiamo dirne, secondo le notizie che si trovano sparse qua e là nel processo e nelle altre scritture di S.to Officio. Una parte de' carcerati trovavasi nel Castello dell'uovo, e fra essi il Barone di Cropani, Ferrante Ponzio, Gio. Paolo e Tiberio Carnevale, Jacobo e Ferrante Moretti, Francesco Antonio d'Oliviero, Marco Antonio Giovino, Geronimo di Francesco, Giuseppe Grillo, Felice Gagliardo; la parte maggiore trovavasi nel Castel nuovo, e ci basterà nominare solamente Geronimo del Tufo, Maurizio de Rinaldis, e insieme con tutti gli altri ecclesiastici ed anche co' parenti suoi il Campanella. Mano mano molti carcerati dal Castello dell'uovo passarono del pari nel Castel nuovo, e segnatamente Ferrante Ponzio, Francesco Antonio d'Oliviero etc.; ma perfino un anno e mezzo dopo questo tempo di cui parliamo ve n'erano sempre alcuni nel Castello dell'uovo, p. es. il Gagliardo. Gioverà rammentare in breve qualche particolarità del Castel nuovo, poichè non ci mancano elementi per definire la parte di esso occupata da' carcerati calabresi, il torrione in cui il Campanella fu rinchiuso, ciò che ci sembra dover riuscire interessante al cuore di ogni persona bennata. Come conoscono gli amatori delle cose patrie, nel Castel nuovo si distingue il maschio o castello Angioino del 1283, fornito delle cinque maestose torri, due delle quali verso il mare e tre verso terra, e la falsabraca o revellino Aragonese del 1486, con le sue torri e cortine molto basse, poi successivamente elevate, che a' giorni nostri abbiamo visto con poco giudizio spianare. A' tempi de' quali trattiamo, la falsabraca con le sue torri in gran parte quadre era incomparabilmente più bassa di quanto possiamo ben ricordare averla vista, e le cinque torri del maschio, veri torrioni si elevavano un poco di più sul livello de' bastioni rispettivi, i quali non raggiungevano l'altezza attuale, come si può vedere abbastanza bene p. es. dalla gran carta di Napoli incisa da Alessandro Baratta nel 1628, che ogni amatore delle cose belle della città ha certamente ammirata nel Museo di S. Martino. E possiamo aggiungere che a que' tempi si chiamava impropriamente «reveglino» lo spazio compreso tra il maschio e la falsabraca; infatti nel processo vedremo parlarsi di uno scritto buttato giù dalla «cancella… al reveglino tra le due porte, che risponde ala finestra dela carcere del Campanella», in un momento in cui egli veniva sorpreso da una visita del luogotenente del Castello in cerca di scritti. Le cinque torri Angioine poi si chiamavano, la prima sul mare, ad oriente, Bibirella, nome improntato certamente da quella porzione di mare che essa guarda e che ancor oggi dicesi dal volgo beveriello, l'altra egualmente sul mare, ad occidente, Talassia, vale a dire marina, dal nome greco corrispondente; le due laterali alla porta maggiore verso terra, costeggianti il magnifico Arco d'Alfonso, si chiamavano torri della porta; l'ultima, ad oriente, sì chiamava dell'Incoronata, dei Governatore o del Castellano, perchè vi abitava appunto il Castellano. Siffatti nomi non s'incontrano nel processo, ma nelle scritture ed anche ne' libri del tempo (basti citare il Capaccio), ed importa conoscerli per potersi intendere: nel processo s'incontra solamente più volte citata «la loggetta delle carceri… il piano della loggetta… l'arco e il corridoio della loggetta», dove potevano in alcune ore i carcerati minori salire e passeggiare, ed inoltre citato, il «torrione» da cui il Campanella dava i suoi Sonetti a Maurizio «calandoli con uno filacciolo», «il torrione» da cui il Campanella, mostratosi pazzo, predicava la crociata al «populo che andava a vedere ad impiccar uno», il quale spettacolo si conosce che eccezionalmente si dava nella piazza del Castello, mentre ordinariamente si dava nella piazza del Mercato. E vedremo da' Registri de' Bianchi di giustizia risultare, che l'esecuzione di Cesare Pisano fu fatta fare «vicino la Guardiola del Castello» (presso a poco dove fino a' giorni nostri e stata la posta delle lettere), e quella di Maurizio innanzi la «Chiesa di Monserrato» (che sta quasi dirimpetto) vale a dire all' ingresso dell'attuale Strada di Porto, che allora dicevasi Piazza dell'Olmo, vale a dire di prospetto alla torre del Castellano, senza dubbio per metterle sotto gli occhi del Campanella e de' suoi calabresi. Da tutto ciò può desumersi con bastante certezza che il Campanella sia stato rinchiuso nella torre del Castellano, sotto gli appartamenti di D. Alonso de Mondezza, e che le carceri occupavano i piani inferiori di questa torre e i bastioni vicini, tanto verso la torre Bibirella, quanto verso la torre corrispondente della porta, trovandosi appunto sulla sommità di questi bastioni la loggetta del Castello. La massa de' calabresi era mista con altri là detenuti, per imputazione o per condanna, sia in nome del potere civile sia in nomo del potere ecclesiastico, e ne vedremo figurare parecchi noi corso di questa narrazione: occupavano molti il carcere così detto «del civile», occupavano altri il carcere criminale che stava più in alto e componevasi di camere più piccole, dove erano rinchiusi uno, due e fin quattro individui, secondo l'importanza di essi, disponendo per solito di un sol letto ogni coppia e venendo spesso tramutati da una camera nell'altra. I miserabili ricevevano un carlino al giorno (circa 40 centesimi), e sappiamo che così vivevano moltissimi, tra gli altri il padre del Campanella, il Tirotta, gli stessi frati, come fra Paolo della Grotteria, fra Pietro di Stilo, il Petrolo, il Bitonto, e senza dubbio anche il Campanella, dopochè fra Cornelio si aveva appropriato il danaro raccolto in Calabria per loro. Mercè qualche inserviente, e sopratutto qualche parente venuto di Calabria per assisterli, i carcerati potevano provvedersi delle cose necessarie al vitto, che erano soggette a visita quando s'introducevano nel Castello; e così sappiamo che un giovanetto Aquilio Marrapodi figlio di Gio. Angelo, oltre il padre, serviva i Ponzii, il Petrolo, il Lauriana e il Pizzoni, comprando «per questi monaci foglie, fave, carcioffi, radici et altre cose da mangiare»26; potremmo perfino dare qualche lista della magra spesa quotidiana che si faceva anche per taluni de' carcerati del Castello dell'uovo, essendo notata sul rovescio di alcune carte sequestrate al Gagliardo ed allegate nel processo27. Naturalmente i carcerati non mancavano di profittare di questo mezzo e di qualche altro ancora per mandarsi cartoline e biglietti, ciò che per altro era proibito; ma solamente più tardi dando pochi soldi a uno de' due carcerieri Alonso Martines ed Onofrio, nominati anche nella Narrazione del Campanella, riuscirono ad avere diverse concessioni che a tempo proprio vedremo. Gli ecclesiastici, servendosi, principalmente di motti latini, poterono con tanto maggiore facilità mettersi in qualche relazione tra loro dalle finestre: poichè sappiamo con certezza essere stati perfino i più compromessi, dal primo momento, posti nelle «segrete», ossia in camere capaci di una sola persona e tenute strettamente chiuse, non già nelle così dette «fosse»; in queste furono posti al tempo de' loro esami, quando i Giudici solevano darne l'ordine per indurli a confessare. Le fosse si trovavano a piede del torrione del Castello, e ricevevano luce da aperture che corrispondevano alla parete dell'antico fossato, il quale circondava il Castello e in origine poteva anche ricevere acqua dal mare; del resto non ne mancavano di quelle affatto oscure, e rinomata fra tutte era la fossa del miglio o del coccodrillo, nota fin dal tempo degli Aragonesi, nella quale il Campanella narrò di essere stato posto prima del tormento. Alcuni lavori fatti durante la prima metà di questo secolo, ad occasione dell'ampliamento della fonderia di cannoni là eretta, posero in mostra queste fosse con lagrimevoli iscrizioni ed anche con qualche residuo di scheletro, la qual cosa ribadisce che il torrione delle carceri, dimora del Campanella, sia stato quello che abbiamo indicato28. Si aveano dunque, da sotto in sopra, le fosse, la carcere del civile a pian terreno, le carceri criminali che occupavano i due piani superiori: e sappiamo che nel primo periodo della prigionia il Campanella trovavasi in una carcere criminale del piano più elevato, e Maurizio in un'altra del piano più basso immediatamente sottoposta alla prima, sicchè poterono talvolta scambiarsi qualche parola, e perfino, mediante un filo, trasmettersi qualche carta29. Ogni lettore umano, passando in vista del Castel nuovo, vorrà, speriamo, rivolgere uno sguardo a quel torrione, con un pio ricordo de' generosi, che tanto vi patirono senza che l'opera loro sia stata nemmeno riconosciuta.

18.Cons. Doc. 304, pag. 246.
19.Ved. Doc. 64, pag. 54.
20.Ved. Doc. 67, pag. 56.
21.Ved. Doc. 37, pag. 42.
22.Ved. Doc. 39, pag. 13.
23.Ved. Toppi, De origine omnium tribunalium, Neap. 1655-66, vol. 2o, pag. 187.
24.Il Nunzio gli era anche molto amico, siccome si rileva da un'altra sua lettera del 1o giugno 1601, dove si legge: «Fra tutti i Ministri che son qua di S. M.tà Cattolica non ho maggiore domestichezza che con il Consigl. Pietro di Vera d'Aragonia, che mi fu dato per Collega da N. S.re nella causa della rebellione».
25.Ved. Doc. 38, pag. 43.
26.Ved. Doc. 325, pag. 276.
27.Ved. la nostra Copia ms. de' processi ecclesiast. tom. 2o fol. 173-1/2.
28.Un ms. posseduto dal Minieri-Riccio dà notizie delle fosse oscure, delle iscrizioni, delle ossa «rinvenute ne' sotterranei della torre Aragonese in occasione della fabbrica di una stufa per la nuova fonderia, di cannoni di ferro». La qualificazione della torre è uno sbaglio del raccoglitore delle iscrizioni, poichè la fonderia esiste sempre ed è facile vedere dove corrispondano i suoi fornelli. Le iscrizioni trovate leggibili rimontano solo al 1660; una del 1698 è di un tale che da 27 giorni vi si trova per essere andato incontro al Cardinale Principe di Savoia; spaventevole è quella di un tale, che impreca a' suoi parenti, i quali, per salvarsi, l'hanno fatto menare in quel posto, senza luce e tutto nudo, ove cerca la morte per finire di penare, e residui di scheletro ivi giacenti fanno pensare che vi trovò la morte. Ved. Catalogo de' MS. della Bibl. di Minieri-Riccio voi. 3o Nap. 1869, pag. 158.
29.Ved. Doc. 421, pag. 527. Quivi specificatamente si notano tutte queste cose, attestate da fra Pietro Ponzio; e fra Pietro, per sua scusa, potè bene inventare che il Campanella trasmettesse i suoi Sonetti a Maurizio, calandoli giù dalla finestra, ma non inventare che la finestra di Maurizio si trovasse sotto quella del Campanella. D'altronde anche nella confessione ultima di Maurizio vedremo fatta menzione di parole scambiate tra lui e il Campanella nelle carceri di Napoli, e questo non potè accadere che dalle finestre.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
850 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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