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Come (e perché) il presente sia una critica del passato, oltre che un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere).

Come chiariva Marc Bloch, nella prima nota a pie’ di pagina dell’Introduzione alla sua splendida opera già citata,10

Sono stato discepolo di due autori [Charles-Victor Langlois e Charles Seignobos] e, in particolare, di Seignobos. Mi hanno dato entrambi preziosi segni della loro benevolenza. La mia formazione di base deve molto al loro insegnamento e alla loro opera. Ma essi non ci hanno soltanto insegnato, tutti e due, che lo storico ha come primo dovere la sincerità; non ci nascondevano neppure che il progresso medesimo dei nostri studi è dato dalla necessaria contraddizione fra le successive generazioni di studiosi. Rimarrò dunque fedele alla loro lezione se li criticherò liberamente là dove lo crederò utile, come mi auguro che un giorno i miei discepoli, a loro volta, mi critichino.

Gli stessi Langlois e Seignobos, ci aveva ricordato C.M. Cipolla, avevano scritto nel 1898, che «senza documenti non vi è storia»; e anche che G.R. Elton nel volume The Practice of History, del 1967, aveva ribadito: «conoscenza di tutte le fonti e competente valutazione critica delle stesse: questi sono i requisiti di base di una attendibile storiografia».11 Ma, come sottolineava Fernand Braudel:12

L’importanza assunta dalle fonti documentarie ha fatto credere allo storico che tutta la verità stesse nell’autenticità documentaria. [Aggiungendo] «È sufficiente» scriveva solo ieri Louis Halphen [il testo citato di Halphen era del 1946] «lasciarsi in qualche modo portare dai documenti, letti uno dopo l’altro, così come ci si offrono, per vedere ricostituirsi quasi automaticamente la catena dei fatti».

A mio avviso, in questo contesto il primo punto sul quale occorre far chiarezza è il seguente: cosa intendiamo quando parliamo di storia economica relativamente al Medioevo? Ed ancora, esiste una specifica o almeno largamente condivisa metodologia storico-economica in relazione al Medioevo?

La società medievale, per la poliedricità di caratteri che presenta, derivanti dai diversi assetti politico-istituzionali, dal variare dei rapporti di dipendenza tra i vari soggetti, da inuguale distribuzione dell’uomo nello spazio e da disparate fortune degli aggregati umani, dal mutare delle culture e delle mentalità nei vari ambiti, richiede necessariamente, a mio parere, che il lavoro dello studioso non proceda in base a delle categorie globalizzanti e preconcette, non segua pedissequamente dei modelli utilizzabili nel variare del tempo e dello spazio, ma si adegui continuamente alle trasformazioni degli aggregati sociali, al variare degli stadi della tecnica e ai presupposti teorici che gli uomini tesero a realizzare. A mio avviso solo una serie di studi condotti con metodologie similari ed effettuati in spazi e tempi differenti consentirebbe di giungere a delle categorie tipologizzabili e a ottenere le dovute comparazioni spazio-temporali.

Vi è poi un altro elemento da porre in luce. Vari decenni fa si è ritenuto che la storia economica fosse essenzialmente la storia dei fatti e degli accadimenti economici: storia della produzione, dello scambio, del consumo, del lavoro, dei prezzi, dei salari, della moneta, ecc. In relazione al Medioevo, data la carenza e la frammentarietà delle fonti, specialmente di quelle di natura quantitativa, e data la disparità dei mercati e delle strutture politiche e sociali, si giunse a studiare dei micro spazi e si fece largo uso del tempo breve. Così si scrissero lavori, pur assai raffinati, sul trasporto di alcune balle di stoffe, sul costo del lavoro in una data azienda in relazione a pochi anni, sull’entità della popolazione in un piccolo aggregato umano, per fare solo qualche esempio.

Questi studi pionieristici, pur di grande interesse, hanno avuto a mio avviso il difetto di non mettere in meritata luce la valenza globalizzante dell’economico.

Se noi consideriamo la definizione di economia politica, prendendo le mosse da una delle sue prime accezioni esplicite, quella data da Antoine de Montchréstien nel suo famoso Traicté de l’oeconomie politique del 1615, vediamo definire l’economia quale «scienza dell’acquisizione della ricchezza», e sottolineare che l’aggettivo «politica» sta a indicare che questa scienza è necessaria allo stato e non solo alla casa, alla famiglia o al soggetto singolo, come l’etimologia greca della parola potrebbe far intendere.

È una concezione analoga a quella che troviamo in Adam Smith, che risulta implicita sin dal titolo della sua famosa opera Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni e che viene esplicitata nella definizione data dallo stesso autore nell’Introduzione al libro IV:13

L’economia politica, considerata come ramo della scienza dello statista o del legislatore, si propone due fini distinti: primo, provvedere un abbondante reddito o sussistenza alla popolazione, o più esattamente metterla in grado di provvedere a se stessa tale reddito o sussistenza; e secondo, fornire allo stato o alla repubblica un reddito sufficiente per i pubblici servizi. Essa si propone di arricchire sia il popolo che il sovrano.

Nell’accezione di Smith oggetto dell’economia politica è la ricchezza, intesa quale insieme dei prodotti del lavoro capace di soddisfare i bisogni umani, e l’analisi economica consente di chiarire il grado di economicità o di valore economico presente in ogni determinata e concreta situazione storica. Proprio in quanto nella concezione di Smith la scienza economica non presenta connotazioni riconducibili a quelle della scienza della natura, risulta evidente l’impossibilità per lo scienziato di far ricorso all’esperimento e il suo bisogno di verificare le ipotesi in una sistematica analisi storica.

Indubbiamente il limite maggiore dell’analisi di Smith, come della maggior parte dei classici, fu quello di considerare il sistema economico a lui contemporaneo –quello del capitalismo– e quindi il sistema dei rapporti che determinano la vita economica in questo sistema, come formazioni eterne e immutabili.

La pretesa immutabilità e universalità del sistema capitalistico e il condizionamento da esso esercitato sull’economia politica sono i punti nodali da cui muove Karl Marx per criticare l’economia politica classica. In tal senso il Capitale si presenta come tentativo di mettere in evidenza la «legge del movimento» del sistema capitalistico sulla base della storicità e quindi della transitorietà, facendo essenzialmente ricorso all’analisi storica.

I rapidi cenni di cui sopra vogliono solo sottolineare l’esigenza che ogni analisi economica quando dallo short run passa al long run necessita di una puntuale e documentata analisi storica, sotto pena di cadere nell’astrattezza propria degli economisti teorici (oggi purtroppo spesso diffusa anche nella più recente storiografia di natura economica) di attribuire un supposto carattere di ripetibilità, di razionalità alle variabili prese in esame nel modello teorico.

I richiami effettuati vogliono anche porre in evidenza il fatto che le teorie economiche non possono essere considerate in astratto rispetto alle realtà oggetto di analisi, altrimenti si determinano delle forzature e non si riesce a comprendere con chiarezza la valenza che un dato sistema economico ebbe per un aggregato sociale, che quel sistema economico pose in atto, con maggiore o minore consapevolezza e teorizzazione, ma sempre per ottenere il massimo risultato in base ai mezzi, alle risorse e alle capacità disponibili. Massimizzazione che, a sua volta, andò a favore di cerchie ristrette o ampie di soggetti, a secondo dei rapporti di dipendenza e dei gradi di libertà, che un determinato sistema politico-istituzionale volle assicurare ai suoi componenti.

Va inoltre sottolineato con fermezza che, se per effettuare delle valide analisi storico-economiche in relazione all’età medievale è indispensabile che il ricercatore si doti di una salda preparazione economica, è però altrettanto necessario che lo stesso abbia una buona formazione culturale in campo politico-istituzionale, sappia correttamente analizzare fonti in latino o nei vari idiomi volgari che andarono gradatamente affermandosi, si doti di una buona conoscenza paleografica e diplomatica. Solo grazie a questa duplice formazione culturale (economica e umanistica) il ricercatore sarà in grado di dominare le fonti, di porre alle stesse le domande utili a poter soddisfare gli elementi di fondo del tema che vuole indagare.

L’importanza fondamentale dello studio sistematico delle fonti di archivio nell’analisi storica e particolarmente nella storia economica ha spinto schiere di studiosi fino a tutti gli anni ‘70 e agli inizi degli ‘80 del sec. XX, come si è detto, a effettuare lavori estremamente minuziosi, che spesso avevano però il difetto di concentrarsi solo su tempi brevi, spazi limitati e avvertivano poco l’esigenza dell’analisi comparativa spazio/temporale. Anche agli studenti che chiedevano una tesi di laurea in storia economica i docenti indicavano fonti di archivio ancora inesplorate sulle quali impegnarsi nello studio di un qualcosa che doveva avere il carattere di originalità, proprio in quanto non già analizzato da altri studiosi. Il che comportava necessariamente, che, malgrado il lungo lavoro sulle fonti archivistiche, gli studi si concentrassero su tempi e spazi di breve durata.

Ma, come notava già nel 1969 Fernand Braudel:14

La recente rottura con le forme tradizionali della storiografia del XIX secolo […] è andata a beneficio della storia economica e sociale, e a detrimento della storia politica. […] Ma soprattutto c’è stata un’alterazione del tempo storico tradizionale. Un giorno, un anno potevano sembrare ieri delle buone misure ad uno storico politico. Il tempo era come una somma di giornate. Ma una curva dei prezzi, una progressione demografica, il movimento dei salari, le variazioni del tasso di interesse, lo studio (più immaginato che attuato) della produzione, una serrata analisi della circolazione richiedono più ampie misure, un’altra scala.

Lavori pur di grande interesse come quelli di Sapori, di Luzzatto, di Melis e dei loro allievi, tanto per fare solo degli esempi di autori italiani noti a tutti (o almeno a quelli della mia generazione), si riempivano di trascrizioni di documenti d’archivio, di dati, di tabelle, a volte erano perfino quasi solo composti di tabelle –come alcuni volumi pubblicati da Giuffré sotto la direzione di Luigi Dal Pane–;15 gli stessi autori disquisivano spesso sull’esigenza di effettuare analisi per totalità dei dati disponibili o di far ricorso a campionature, più o meno matematicamente determinate.16 Gli storici economici, a differenza degli storici generali, posero in luce sempre più l’esigenza di disporre di serie quantitative utili a far luce su costi, ricavi, prezzi, salari, andamenti di produzioni e di cicli commerciali. Come sottolineava Witold Kula, ciò che distingueva il lavoro dello storico economico da quello dello storico generale era che per il primo «La rilevazione di un singolo prezzo di una data merce non solo non è interessante, ma è addirittura incomprensibile, se non può essere inserito in una serie di altri rilevamenti di prezzi, della stessa e di altre merci, aventi una certa continuità temporale». Questo, sempre secondo il grande storico polacco, «ha notevoli conseguenze per il lavoro dello storico economico, che si presenta assai più impegnativo e che consente minori possibilità in ordine alla pubblicazione di raccolte di fonti. Tanto più che queste raccolte non possono tendere all’esaurimento del materiale, ma solamente tentar di raggiungere un elevato grado di rappresentatività e tipizzazione. (Aggiungendo) Non si eliminerebbe, pertanto, la necessità, per il futuro ricercatore, di risalire di nuovo ai documenti originali».17

Ma il problema di fondo fino a tutti gli anni ‘80, come ebbe a sottolineare acutamente C.M. Cipolla,18 fu che

La scuola economico giuridica fu nel complesso molto storica, molto giuridica ed inadeguatamente economica nel senso che si distinse per lo studio preciso delle istituzioni giuridiche, ma mancò di esplicitare adeguatamente i paradigmi economici che poneva alla base della interpretazione dei fatti economici, i quali paradigmi quando il lettore si fa sforzo di enuclearli dal contesto della narrazione li trova il più sovente rozzi e spesso inconsistenti. Alphons Dopsch, Henry Pirenne, Gioacchino Volpe, Marc Bloch, Armando Sapori, per non citare che i nomi più famosi, appartennero tutti a questa corrente cui appartenne sostanzialmente anche Gino Luzzatto con una caratteristica però tutta sua: che lui si era interessato vivamente alla polemica metodologica tedesca della fine dell’0ttocento, che lui, nella sua indefessa operosità, aveva letto e continuava a leggere i maggiori contributi degli economisti teorici.

A partire proprio, però, dagli anni ‘70 e dagli ‘80, dopo i movimenti di studenti e lavoratori e i conseguenti sostanziali mutamenti in campo economico e sociale, da più parti s’iniziò a teorizzare che la storia in tutte le sue declinazioni non fosse più rilevante. Si ritenne che solo la storia strettamente contemporanea o almeno quella successiva alla rivoluzione industriale potesse ancora essere utilmente indagata.

La società contemporanea, con le sue rapidissime modificazioni che fanno sì che ogni elemento diventi rapidamente obsoleto, sembrò in gran parte aver dimenticato l’importante funzione della storia. Solo il presente e il suo continuo mutare apparve dotato di interesse. Il passato, particolarmente per le giovani generazioni, iniziò a divenire privo di attrattiva e di presunta utilità. Un famoso piccolo testo di Jean Chesneaux, del 1976, ebbe il rivoluzionario titolo: Du passé faisons table rase? A propos de l’histoire et des historiens. Scriveva Chesneaux:19

Dans la lutte contre l’ordre établi, refuser le passé et ses images d’oppression est une tendance naturelle. […] Mais le refus du passé n’exclut pas le recours au passé. […] La volonté de libérer le passé, de s’appuyer sur lui pour affirmer l’identité nationale, est aussi forte dans les mouvements de libération du tiers monde au XXe siècle. […] Il faut, et cela bouleverse plus encore nos habitudes, prendre conscience du fait que la réflexion historique est régressive, qu’elle fonctionne normalement à partir du présent, à contre-courant du flux du temps, et que c’est sa raison d’être fondamentale.

Spinti dai bisogni e dalle esigenze della società industriale, che iniziava a porre in luce i suoi elementi interni di crisi, l’attenzione degli storici si rivolse a studiare in campo sociale la condizione delle masse lavoratrici, in campo più strettamente storico-economico si tese ad abbandonare gli studi sul medioevo e l’età moderna e ci si andò sempre più a interessare di indagini sull’industria, sul mercato, sulle variazioni e modificazioni della tecnologia, della finanza, del sistema creditizio, sulle fonti energetiche, sulle modificazioni climatiche, sulle variazioni del Pil. Tutto ciò comportò l’esigenza di far ricorso nell’analisi a una serie di fonti diverse, in primo luogo alle fonti statistiche prodotte da enti pubblici e privati sia in ambito nazionale sia internazionale, fonti ricche di dati quantitativi che consentissero raffinate elaborazioni matematiche.

Se fino a tutti gli anni ‘70, gli studiosi facenti capo a qualsiasi branca disciplinare in ambito storico, che all’epoca venivano considerati come appartenenti alle «giovani generazioni», erano stati fortemente influenzati dalla storiografia francese collegata alla Scuola delle «Annales», proprio fra fine anni ‘70 e inizi ‘80 l’interesse dei «nuovi» storici economici si indirizzò verso le tematiche e le metodologie affermatesi già negli anni ‘60 negli U.S.A e in area anglosassone in genere.20 Come ebbe a sottolineare C.M. Cipolla, «In questi paesi [quelli di cultura anglosassone] una cultura economica più diffusa, una abitudine al più corretto uso di termini economici (in buona parte coniati nella lingua inglese) nel linguaggio quotidiano, fecero sì che anche gli storici economici che non avevano una particolare preparazione economicista fossero sovente in grado di impiantare discorsi che non solo storicamente, ma anche dal punto di vista della logica economica, non prestavano il fianco a critiche severe. E fu appunto […] negli Stati Uniti che si verificò la reazione più drastica al tradizionale modo di fare la storia economica».21 Notava criticamente lo stesso Cipolla che questi nuovi storici economici:22

avvertono molto meno dei loro colleghi di formazione più prettamente storica la necessità di mediazione con le fonti e, preoccupati soprattutto del «modello» teorico presentato, non esitano a forzare le cose insistendo nel porre domande che trovano riscontro nei dibattiti di moda della teoria […] Non trovando nelle fonti delle epoche di cui si occupano i dati storici necessari, fanno acrobazie e in più di un caso ricorrono a dati sostitutivi […] Si producono così spesso lavori che, perfettamente ammirevoli per la eleganza logica del «modello» teorico interpretativo e per l’ingegnosità dell’apparato statistico, rimangono creature dai piedi di argilla […].

La cliometria e l’econometria iniziarono a conquistare pagine di saggi su riviste e di volumi. L’utilizzazione di «modelli» andò diffondendosi a ritmo crescente. Una consistente quota parte degli studiosi gradatamente divenne meno «storica» e più «economica». Da una Storia economica si passò spesso a un’Economia storica, per poi gradatamente abbandonare anche l’analisi storica in senso stretto. I dati del passato, con maggiore interesse per quelli quantitativi che per quelli qualitativi, divennero sempre più utili per sostenere o per confermare delle tesi astratte di economisti teorici. Per questi nuovi settori d’indagine storica le fonti archivistiche tradizionali vennero a perdere d’importanza. La forte connotazione economica delle ricerche richiedeva il ricorso a grandi banche dati, il che fu favorito dalla larga diffusione dei computers e successivamente dalla possibilità per gli studiosi di reperire dati tramite internet. Tempi e spazi si andarono così dilatando, in modo impensabile fino a quel momento. Gli archivi italiani ed europei in genere, specialmente quelli di stato, videro le loro sale di studio divenire sempre più ambiti desertificati, in quanto i docenti non solo li utilizzavano poco per le loro ricerche (o spesso non li consultavano affatto), ma non obbligavano più nemmeno i loro studenti a frequentarli per tesi di laurea o di dottorato. Carotaggi del ghiaccio in Groenlandia divennero fonte utile per studiare le variazioni climatiche di secoli passati e le conseguenti produzioni agricole in spazi differenziati; analisi su scheletri di millenni fa consentirono di comprendere il tipo di cibo e di calorie che quei soggetti avevano ingerito, in modo di metterli a confronto con quelle di operai del sec. XIX o con il variare delle risorse energetiche utili a produrre i beni;23 le formulazioni utili ad analizzare il calcolo attuale del Pil vennero utilizzate per studiare, pur con pochi dati disponibili, il prodotto interno lordo di società di centinaia di anni fa; tanto per fare solo qualche esempio. La storia economica non fu più «la scienza degli uomini nel tempo», ma tese ad assumere una nuova fisionomia e una nuova funzione, quella di verificare con dati di un lungo passato, spesso anche assai remoto, la valenza di recenti teorizzazioni di economisti puri. Ciò che spesso scomparve da questi nuovi studi, pur così stimolanti e intelligenti, furono due elementi base che fino ad allora a partire da Tucidite avevano connotato la Storia, ossia: gli «uomini», ridotti a numeri e a entità astratte; e le categorie «spazio/tempo» che erano sempre sembrate essere la base di ogni ricerca storica. Tanto da far affermare a C.M. Cipolla: «L’eliminazione dell’individuo rappresenta una delle più gravi lacune nella storiografia economica corrente ed uno degli elementi che contribuiscono al suo peccato originale di semplicismo».24

Queste variazioni d’interesse storiografico e queste trasformazioni pur parziali degli «storici economici» in «economisti storici» non furono certo totali. Accanto a questi nuovi studi continuarono e continuano ad apparire ottimi lavori di storia economica fondati in primo luogo sulle fonti archivistiche, basti pensare a titolo di esempio a un fondamentale lavoro di storia economica di un collega statunitense R.A. Goldthwaite, The Economy of Renaissance Florence, apparso recentemente anche in edizione italiana per i tipi di Il Mulino.25 Come vorrei ricordare un libro di storia economica che io ho molto amato quello di Steven Marcus, Engels, Manchester e la classe lavoratrice, tradotto in italiano da Luca Fontana e apparso per i tipi di Einaudi nel 1980; lavoro ove le fonti principali sono quelle letterarie, come i testi di Charles Dikens, Thomas Carlyle, Cyrus Redding e tanti altri letterati che trattano delle coke towns e delle condizioni di vita dei lavoratori.26 Anche io, a volte, nei miei studi, ho preferito privilegiare il ricorso a fonti apparentemente non di natura economica, ossia quelle di natura cronachistica, letteraria e iconografica, volendo studiare delle tematiche di storia economica, in quanto mi è parso che le stesse, pur nell’ovvia mediazione culturale dei vari autori, permettessero di indagare in maniera più complessiva sul determinarsi e concretizzarsi di modi comportamentali, direttamente connessi a tematiche economiche, sociali e politiche, che nel corso del tempo si sono venuti affermando. Ma ripeto sono pienamente convinto che lo storico non possa né debba mai utilizzare una sola fonte nei propri lavori, ma sempre una pluralità delle stesse da mettere a confronto e da sottoporre a una serrata analisi critica.

Se gli storici economici nella maggior parte dei casi hanno da decenni ormai abbandonato il Medioevo come arco cronologico delle proprie analisi, va sottolineato che al contrario molti medievisti puri hanno dedicato larga parte dei propri studi a tematiche economiche, come ad esempio il commercio, la banca, la struttura e la vita nelle campagne e negli aggregati umani, ecc. Ma va ancora una volta posto in luce che anche se questi lavori, pur di grande interesse, hanno determinato una svolta nella medievistica italiana e internazionale, grazie proprio all’arricchimento che agli stessi è stato dato dall’apporto dell’indagine su fonti economiche e quantitative, a tutt’oggi può notarsi nei singoli autori una carenza di formazione teorico-economica.

Vorrei concludere affermando che io, pur essendo stato a volte critico con le nuove tematiche e impostazioni della storia economica –basti far riferimento alla mia relazione nel citato convegno datiniano dedicato a Dove va la storia economica?, e al mio contributo al dibattito nel convegno Le iterazioni fra economia e ambiente biologico nell’Europa preindustriale secc. XIII-XVIII27 e pur avendo ormai raggiunto la veneranda età di 75 anni, mosso dalla mia consueta curiosità sono molto attratto da questi studi condotti con una metodologia così distante da quella che avevo appreso e che ho cercato di utilizzare nei miei lavori. Trovo che nel variare del tempo e dei bisogni della società, anche in ambito culturale, questi nuovi metodi e approcci possano essere di grande utilità, anche se io certo ormai non riuscirò mai a effettuarne.

1 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, con Prefazione di J. Le Goff, Torino, Einaudi, 2006, p. 7. Sulle fonti della storia si vedano le sempre magistrali pagine di J. G. Droysen, Istorica. Lezioni sulla Enciclopedia e Metodologia della Storia, trad. di L. Emery, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1966, pp. 63-87.

2 L. Febvre, Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi, 1976. Per Febvre, la storia è «lo studio scientificamente condotto delle diverse attività e delle diverse creazioni di uomini di altri tempi, colti nel loro tempo, entro l’ambito delle società estremamente varie e tuttavia comparabili fra loro». In proposito cfr. anche C. M. Cipolla, Tra due culture. Introduzione alla storia economica, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 37.

3 La citazione è tratta da C.M. Cipolla, Tra due culture, cit., p. 20.

4 L. Einaudi, Lo strumento economico nell’interpretazione della storia, in «Rivista di storia economica», 1936, p. 156.

5 C.M. Cipolla, Tra due culture, cit., pp. 20-22.

6 J.A. Schumpeter, History of Economic Analysis, New York 1954, tr. it. Storia dell’analisi economica, Torino, Bollati Boringhieri, 1959, p. 16.

7 M. Foucault, Tecnologie del sé, in Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, a cura di L.M. Martin, H. Gutman e P. H. Hutton, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 13.

8 P. H. Hutton, Foucault, Freud e le tecnologie del sé, in Un seminario con Michel Foucault, cit., p. 134.

9 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 20-21 di Passato e presente; annotava lo stesso Gramsci nel VII dei «Quaderni»: «Il processo di sviluppo storico è una unità nel tempo, per cui il presente contiene tutto il passato e del passato si realizza nel presente ciò che è “essenziale” […]. Ciò che si è “perduto”, cioè non è stato trasmesso dialetticamente nel processo storico, era di per se stesso irrilevante, era “scoria” casuale e contingente, cronaca e non storia, episodio superficiale, trascurabile, in ultima analisi».

10 M. Bloch, Apologia della storia, cit., p. 7, nota 1.

11 C. M. Cipolla, Tra due culture, cit., p. 37.

12 F. Braudel, Scritti sulla storia, con Introduzione di A. Tenenti, Milano, Mondadori, 1973, p. 62.

13 A. Smith, Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ed. it. con Introduzione di A. Graziani, Torino, UTET, 1965, p. 283.

14 F. Braudel, Scritti sulla storia, cit., pp. 62-63. Il testo era apparso in edizione francese a Parigi per i tipi di Flammarion nel 1969. Annotava sempre Braudel: «A prima vista, il passato consiste in questa massa di piccoli fatti, alcuni clamorosi, altri oscuri e indefinitamente ripetuti, quegli stessi da cui la microsociologia, o la sociometria, sul piano dell’attualità, traggono il loro quotidiano alimento (e vi è anche una microstoriografia). Ma questa massa non costituisce tutta la realtà, tutto lo spessore della storia su cui la riflessione scientifica possa lavorare in modo soddisfacente. La scienza sociale ha quasi orrore dell’avvenimento, e non senza ragione: il tempo breve è la più capricciosa, la più ingannevole delle durate». Ibidem, p. 61. Lo stesso Braudel, parlando di studi incentrati su singoli elementi e su spazi e tempi limitati, nel suo studio dedicato a «Il secondo Rinascimento» aveva scritto: «Questa massa di studi e di conoscenze può risultare alla fine fastidiosa. Troppi particolari si accumulano, che è necessario superare, ponderare, ricondurre al loro significato, quando ne abbiano. Troppi particolari, ossia fatti di cronaca, avvenimenti anche notevoli, biografie anche esemplari. Perché solitamente un’erudizione attiva ma frammentaria ci offre proprio questo tipo di fatti alla rinfusa. Ogni particolare restituisce a suo modo, ma solo per un istante, uno spazio, un tempo che bisognerebbe padroneggiare con precisione». F. Braudel, Il secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie, con Presentazione di M. Aymard e trad. di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1974, p. 8.

15 Si vedano a titolo di esempio G. Porisini, La proprietà terriera nel comune di Ravenna dalla metà del XVI secolo ai giorni nostri, Milano, Giuffrè, 1963; id., Il contenuto economico dei rogiti notarili di Ravenna, Milano, Giuffrè, 1963; C. Rotelli, La distribuzione della proprietà terriera e delle colture ad Imola nel XVII e XVIII secolo, Milano, Giuffrè, 1966.

16 In proposito rinvio a un mio breve intervento in una tavola rotonda organizzata dalla Società degli storici italiani dell’economia a Bologna nel marzo del 1991, apparso in «Proposte e ricerche», 27 (2/1991), pp. 147-154, con il titolo Il ruolo dell’economico negli studi sul Medioevo oggi. Riflessioni brevi e appunti per una discussione; al mio contributo La storiografia economica relativa all’età medievale in Italia (1966-1989), apparso nel volume da me stesso curato Due storiografie economiche a confronto: Italia e Spagna, dagli anni ‘60 agli anni ‘80, Milano EGEA, 1991, pp. 75-125; e anche alla mia relazione Vecchie e nuove sensibilità nella storiografia economica italiana: le tematiche, in Dove va la Storia economica? Metodi e prospettive secc. XIII-XVIII, a cura di F. Ammannati, Firenze, Firenze University Press, 2011, pp. 25-37 (Fondazione Istituto internazionale di Storia economica «F. Datini» Prato, Atti della «Quarantaduesima Settimana di Studi», 18-22 aprile 2010).

17 W. Kula, Problemi e metodi di Storia economica, Milano, Cisalpino Goliardica, 1963, p. 89. Dello stesso W. Kula si veda Storia ed economia: la lunga durata, in La storia e le altre scienze sociali, a cura di F. Braudel, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 206-233, il testo era già apparso in «Annales E.S.C.», XV (1960), n. 2, pp. 294-313.

18 C.M. Cipolla, Gino Luzzatto o dei rapporti tra teoria e storia economica, in «Ricerche economiche», 1979, poi in M. Finoia, Il pensiero economico italiano, 1850-1950, Bologna, Cappelli, 1980, p. 629.

19 J. Chesneaux, Du passé faisons table rase? A propos de l’histoire et des historiens, Paris, Librairie François Maspero. 1976, pp. 33, 53.

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