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Читать книгу: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I», страница 2

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Il medesimo è da faro col Petrarca, che nell'anarchia dei tribuni, dei signori e dei condottieri, fra la quale è condannato ad andare peregrinando tutta la vita, non lascia precisare affatto il suo sistema politico, perchè le sue speranze si fissano ora in Cola di Rienzi, ora nell'Imperatore Carlo IV, ora in Roberto d'Angiò, ora in Luchino e Galeazzo Visconti, e, mancati tutti a un per volta i suoi idoli, finisce esso pure nell'idillico:

 
Io vo gridando: pace, pace, pace;
 

il consiglio purtroppo più inutile da dare ai discendenti di Abele e Caino.

Chi può negare che uomini così grandi, rientrando in sè stessi, abbandonandosi alle proprie aspirazioni e speculazioni, non contemplino e non profetizzino ideali di redenzione della patria, superiori a quelli di tutti i loro contemporanei? Ma da questo al collegarli con ciò che è accaduto nel tempo nostro ci corre, e a furia d'interpretazioni arbitrarie ed anacronistiche si rischia di non comprenderli e svisarli del tutto.

Molto più moderno è certamente il Machiavelli, ma anche con lui si oltrepassa, si violenta il senso genuino dei fatti contemporanei, quando si afferma che pur d'ottenere l'unità d'Italia avrebbe magari accettato per re d'Italia Valentino Borgia. Leggete il libro del Villari e vedrete che Valentino Borgia non è pel Machiavelli il personaggio reale, che deve fare l'unità d'Italia, bensì il tipo, che con alcune delle sue qualità personali gli inspira il concetto, che occuperà poi tutta la sua vita e dominerà in tutti i suoi scritti, il concetto cioè d'una scienza di Stato separata e indipendente da ogni considerazione morale. Il Machiavelli fa per tal guisa del Valentino un personaggio ideale, ma del Valentino vero giudica come merita e l'ha per un furfante matricolato, degno figlio di Papa Alessandro, di cui giudica egualmente. Tant'è che della meschina catastrofe del Valentino in Roma, il Machiavelli, che era allora in Roma esso pure, non si dà quasi per inteso. In conclusione, mentre si usciva appena dall'anarchia medioevale, l'unità, a cui egli mira, è quella dello Stato, non quella della nazione. Perciò i suoi delenda Carthago sono il feudalismo, i soldati di ventura, il potere politico delle corporazioni d'arte, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato, in cui ravvisa, e con ragione, l'ostacolo insuperabile dell'unificazione dell'Italia. In questo senso, se si vuole, il Machiavelli è profeta, in quanto cioè l'unità organica di uno Stato farà l'unità italiana, e di uno Stato opposto al Papa, libero dalla sua ingerenza, non quello cioè, su cui, come sul regno di Napoli, il Papa esercita giurisdizione feudale e di cui si è sempre valuto per gettarlo fra i piedi a chiunque pur di lontano accennasse ad una impresa italiana.

In seguito, che Eustachio Manfredi alla nascita d'un figlio di Amedeo II di Savoia canti in un sonetto:

 
Italia, Italia, il tuo soccorso è nato;
 

che Traiano Boccalini e Alessandro Tassoni scrivano con sentimento patrio contro la tirannide spagnuola, che questo sentimento riecheggi nei versi di Fulvio Testi, del Filicaia e di tanti altri sta benissimo ed è giusto che loro rendiamo la lode e la gratitudine, che meritano. Ma s'hanno a vedere in ciò i prodromi dell'unità italiana compiutasi fra il 1860 e il 1870?

Meno che mai mi pare di scorgerli nelle ambizioni di qualche signore o principe che tentò in Italia slargare la sua signoria o il suo principato. Mastino della Scala corre da Verona sino quasi alle porte di Firenze, ma ivi è fermato dalle forze unite di Firenze e di Venezia, e giuoca in questa impresa tutta la potenza della sua casa. Gian Galeazzo Visconti pare vicino a diventar padrone di quasi tutta Italia, ma se la piglia con Firenze, e una morte repentina sbarazza la gloriosa città di questo terribile nemico; Ladislao di Napoli tenta uguale impresa ed una morte molto opportuna la tronca anche a lui, il che facea dire a quella linguaccia del Machiavelli: «la morte fu sempre più amica ai Fiorentini che niuno altro amico e più potente a salvarli che alcuna loro virtù».

Comunque, finite così, queste imprese non provano nè pro nè contro la tradizione unitaria o federale.

Altro è di Valentino Borgia. Il romanzo francese del Blanquet ha però un bel titolarlo roi d'Italie, ma che vuol egli in sostanza? Egli mira a fondare la dinastia dei Borgia in un regno dell'Italia centrale, e forse a rendere ereditario il papato. Il progetto era grandioso; non dico di no. Era l'ultimo perfezionamento del nepotismo politico pontificio; ma troppo in opposizione colla costituzione stessa del Papato e colle condizioni dell'Italia da poter riescire e non riescì, nonostante l'energia diabolica e la mancanza di scrupoli dei due uomini, il Papa e il Duca Valentino, che cercarono d'attuarlo.

Resta la Casa di Savoia, la cui fortunata ambizione fino ad Emanuele Filiberto, che fissa la capitale a Torino, non si sa da qual lato delle Alpi inclinerà. In appresso è già molto ch'essa possa bilanciarsi con una abilità ed un coraggio singolare fra Francia e Spagna e tra i due contendenti ingrandirsi. L'indizio maggiore dei suoi futuri destini sta nella grandezza dei suoi disegni e dei suoi propositi e, direi quasi, nella sproporzione stessa, che è fra questi e le sue forze e l'estensione del suo territorio. Ma più che tutto sta nell'aver l'armi in mano e nell'adoprarle sempre, nel valor militare e nella stretta unione fra principi e popolo. Affinchè però comincino ad avverarsi per essa i vaticinii dei pensatori, degli uomini di Stato e dei poeti, e gli oroscopi che le predicono:

 
La tua stirpe dall'Alpi native
Scender deve cogli anni e col Po,
 

bisognerà aspettare che una coscienza nazionale spenta nei tre secoli di servitù, si sia rifatta in tutto il popolo italiano, e che la meteora napoleonica passi; bisognerà aspettare che dopo essere stato il Piemonte travolto esso pure nella reazione, l'eccesso di questa susciti in Carlo Alberto il misterioso Amleto vendicatore; bisognerà aspettare che la rivoluzione italiana si svolga e che, colle insurrezioni del 1820 e 21 sia decisa irrevocabilmente la rivalità delle due monarchie italiane e risolto in modo definitivo che la direziono della rivoluzione debba esser presa dal nord, anzichè dal sud della penisola.

Allora accadrà questo fatto straordinario che per due volte l'Italia stessa si offre ai Savoia, nel 1831 per bocca di Giuseppe Mazzini, repubblicano unitario, che si dichiara disposto a rinunciare alla repubblica, purchè Carlo Alberto faccia l'unità d'Italia e gli dice: «a questo patto siamo tutti con voi; se no, no;» nel 1856 per bocca di Daniele Manin, repubblicano federale, che, rinunciando alla federazione e alla repubblica, dice a Vittorio Emanuele colle medesime parole: «fate l'unità d'Italia e siamo tutti con voi; se no, no».

Stringo oramai il mio discorso. Nella storia d'Italia, precedente alla Rivoluzione francese, non c'è, non ci può essere tradizione nè unitaria, nè federale. La coscienza stessa della nazione s'era spenta nella servitù, e chi la rifece fu la Rivoluzione francese, precorsa in Italia dal moto filosofico, che agita i pensieri e i sentimenti, soprattutto nell'alta e nella media classe, e, per dir solo della sua aziono più largamente diffusa e sentita, col Parini e l'altra moralità della sua satira ritempra l'uomo, e coll'Alfieri e il fremito di ribellione della sua tragedia, invoca per quest'uomo, da lui già rinnovato in sè stesso, una patria e la libertà. Questi sì, o signore, che sono i veri precursori!

La scossa, che l'Italia riceve dall'invasione francese nel 1796, è sgarbata, violenta e provoca fiere e sanguinose reazioni nelle plebi, ma mercè sua la rivoluzione italiana incomincia, e a traverso mille diverse vicende ora felici, ora infelicissime, non si fermerà più per settantaquattro anni sino al suo pieno trionfo.

Dopo le meravigliose vittorie del Bonaparte, se muovendo dai congressi di Modena e Reggio del 1796 per la federazione Cispadana, voi passate ai Parlamenti della Cisalpina e alla Costituente di Lione, da cui esce per la prima volta dopo tanti secoli uno Stato di nome italiano «è una continua ascensione (dicono gli editori degli atti della Cispadana) verso l'ideale della patria unita». Se non che pei repubblicani francesi l'Italia non è se non una conquista da sfruttare, e allora il contrasto (è una bella e profonda considerazione di Augusto Franchetti) il contrasto fra le promesse di redenzione universale della filosofia e le opere ladre degli invasori, fra la proclamazione dei diritti dell'uomo e l'applicazione, che i francesi ne fanno in Italia, forma per la prima volta in Italia un'opinione, che si fa strada prima negli animi più eletti, poi nei vari ordini della cittadinanza, che cioè non bisogna più vagellar sempre dietro a concetti universali, come già la Chiesa e l'Impero ed ora la repubblica democratica, ai quali la storia degli Italiani fu un continuo olocausto, bensì pensare finalmente ad avere anche noi una patria unita e indipendente dallo straniero.

Per raggiungere questo fine sorgono a contrapposto, gli uni degli altri, sistemi unitari e federali tanto nella letteratura politica, quanto nelle sètte cospiratrici e nei successivi moti rivoluzionari del 1815, del '20, del '21, del '31, del '45, del '48 e del '49.

Se si vuole dunque una tradizione unitaria o federale nella storia d'Italia, essa incomincia dopo l'invasione francese del 1796 e già per opera di molti valenti scrittori (di Augusto Franchetti e di Carlo Tivaroni principalmente) ne furono notate e raccolte diligentemente tutte le più minute testimonianze, monarchiche e repubblicane, anche all'infuori della grande letteratura politica, che precede e accompagna i nostri tentativi rivoluzionari.

Ma quei sistemi unitari e federali non varcano i limiti del libro, dell'opuscolo o delle ispirazioni individuali di patriotti e di poeti. L'unica applicazione del sistema unitario monarchico è nel regno napoleonico, ma incompiuta e dipendente dallo straniero.

Contuttociò valse a ridarci il sentimento d'una grande e regolare compagine di governo, valse a ridarci colle armi le virtù e le abitudini militari spente ovunque, salvo in Piemonte, ed i ricordi di quel breve sogno di redenzione italiana non perirono più.

Quanto al sistema federale, l'esperimento più prossimo alla realtà è nella rivoluzione del 1848, ma non potè oltrepassar mai una lega doganale fra Roma, Piemonte e Toscana, mentre la federazione politica, con una Dieta permanente in Roma sotto la presidenza del Papa, si trascinò in vani tentativi, progetti e negoziati senza conclusione, dai primi ministeri liberali di Pio IX alla missione Rosmini in Roma, al ministero Alfieri in Piemonte, al congresso federativo promosso in Torino da Vincenzo Gioberti e al ministero di Pellegrino Rossi.

La liquidazione finale del sistema federale monarchico avviene, secondo me, quando il Rosmini, che già avea concordato un disegno di confederazione, in cui assegnava alla Dieta residente in Roma l'ufficio di dichiarare la guerra, quietando così gli scrupoli, che aveano prodotta la defezione di Pio IX, quando il Rosmini, dico, fu sconfessato del Ministero Piemontese e gli fu ingiunto di chiedere soltanto qual contingente il Papa potesse dare alla guerra. Il Rosmini si ricusò di fare questa domanda, ma ecco eccitati di nuovo nella Corte di Roma e nel Papa tutti gli antichi sospetti contro l'ambizione piemontese, ed ecco ita in fumo ogni idea di federazione. La riprese Pellegrino Rossi, appena fu ministro di Pio IX, ma fermo nell'idea che per allora non si dovesse ripigliare la guerra e che in ogni caso non si potesse pensare a far senza l'aiuto del re di Napoli, osò includerlo nel progetto, e questa pure, fra le tante, fu una delle cagioni della sua tragica fine.

Il Rosmini invece, benchè persuasissimo della propria sconfitta, seguì il Papa a Gaeta e la persecuzione, che colà ebbe a soffrire il grand'uomo, e l'abbandono codardo in cui Pio IX lo lasciò, sono uno degli scandali più ignobili dalla reazione, che ormai imperversava. Il sistema federale monarchico finisce per sempre così.

Non ebbe molto più lunga fortuna il sistema, unitario repubblicano del Mazzini. A lui, Triumviro in Roma nel 1849, se anche pensò ad attuarlo, mancò il tempo, e se anche avesse potuto superare le ripugnanze del Guerrazzi in Toscana, quelle del Manin in Venezia e il fatto che Carlo Alberto e il suo fedele Piemonte stavano già di nuovo e da soli in campo contro l'Austria, la necessità sopravvenuta subito della difesa di Roma contro i Francesi, non gli permise neppure di tentare.

Pure la Repubblica in Roma era così gloriosamente caduta, che un po' di questa gloria ridette nuovo vigore al programma del Mazzini.

Ma la libertà mantenuta in Piemonte dopo Novara e i tentativi vanissimi del 1853, che determinarono tanti abbandoni dell'apostolo incorreggibile, compiono altresì la liquidazione finale del sistema unitario repubblicano.

Del sistema federale repubblicano quasi non occorre parlare, giacchè esso non fu mai che l'ubbia di qualche solitario, il Cattaneo, Giuseppe Ferrari e pochi altri, ai quali, nella genialità grande dell'ingegno, questo ordinamento pareva o più conforme all'indole nazionale nella terra classica delle città o più atto ad assicurare ai popoli, se non altro, una modesta felicità. Un sogno, che ne vale un altro!

A tutto si contrappose l'egemonia piemontese, che non poteva avere altro risultamento se non questo dilemma: o finis Italiae, o unità nazionale sotto la monarchia di Savoia. In tale concetto, attuato con ardimento, fortuna e ingegno senza pari dal Conte di Cavour, gli Italiani si unirono, appunto perchè era nuovo, appunto perchè in antitesi diretta con tutta la storia passata, appunto perchè liquidate tutte le forme rivali, era rimasto il solo possibile.

Il trionfo d'una rivoluzione non si consegue che piegando colla persuasione o dominando colla forza del numero le energie indisciplinate, che disgregate possono poco o nulla e divengono irresistibili solo allorquando, o persuase o costrette, fanno gruppo ed impeto tutte ad un segno. Così fu in Inghilterra nel 1688, così fu in Francia nel 1789, così fu in Italia nel 1859 e '60.

Dinanzi a così nuovo spettacolo, il federalista repubblicano, Giuseppe Ferrari, deputato al primo parlamento italiano e storico delle secolari e implacabili antinomie italiane, guardandosi attorno e vedendo che strana varietà d'uomini, provenienti da tante vecchie scuole e da tanti partiti politici si accingeva nel 1860 a proclamare l'unità italiana, ammoniva i colleghi: badassero; esser essi vittime al certo d'una fatale illusione e star per commettere un errore così madornale, che ci avrebbe tutti condotti a Dio sa quali disastri.

Gli rispose Marco Minghetti (anch'esso un convertito recente all'unità) che forse il Ferrari si credeva ancora al tempo dei Guelfi e Ghibellini, dei Visconti, degli Sforza o del Duca Valentino e che in verità lo storico illustre gli somigliava uno di quei sette dormienti della leggenda, che, svegliatisi dopo cinque secoli, nè più intendevano gli altri, nè gli altri loro.

«Può darsi che io abbia dormito,» replicava a un dipresso il Ferrari, «il sonno magico della scienza; ma mi svegliò il cannone di Magenta e di San Martino, e allora m'informai o seppi dipoi che una grandissima novità stava per accadere, l'unità italiana sotto la monarchia di Savoia. Fate pure! Ma siete voi ben certi che l'Italia sia uscita del tutto dalla profonda e torbida notte della sua storia, e del tutto mutata, da quella di prima? Altrimenti, siete voi che dormiste, che dormite ora più che mai, e il vostro destarvi sarà ben peggio del mio. Vi potrà succedere, vale a dire, non di destarvi al pari di me in un'ora di vittoria, ora divina per tutti, ma se non proprio nell'ora infame del disastro e del pentimento, in quella ben più demoralizzante delle illusioni, che si dileguano, degli sconforti, che opprimono, e delle speranze, che cadono ad una ad una».

Siamo proprio in quest'ora, o signore! E se le forze conservatrici della monarchia liberale, che han fatta l'unità della patria, se ne staranno ancora inerti e discordi, e tutte le forze dissolventi, e apertamente o copertamente nemiche, si lascieranno invece agir sole ed in piena impunità, potrà avverarsi ben peggio del pronostico di Giuseppe Ferrari ed il problema della storia d'Italia ritornerà al punto, da cui il programma unitario (questa novità, questa gloria della nostra Rivoluzione) pareva averlo tratto per sempre.

GLI EROI DELLA RIVOLUZIONE

CONFERENZA
DI
FRANCESCO S. NITTI
L'Italia è la terra degli Eroi.

Molte volte negli anni della adolescenza io ho copiato questo aforisma nei quaderni di calligrafia. E pure nella preoccupazione del rotondo e del gotico, dei profili e dei chiaroscuri, la mia mente inesperta si chiedeva: e perchè dunque l'Italia è la terra degli eroi?

La storia che ci è stata insegnata nelle scuole medie, quando non è un'arida successione di nomi e di date, è una successione di matrimoni, di congiure e di morti. Ogni tanto, in questa storia, che è d'ordinario molto nojosa, appare l'eroe: l'uomo che personifica tutta un'epoca, l'uomo il quale fa ciò che tutti gli altri uomini dovrebbero fare. Nei piccoli trattati, dalla storia di Grecia e di Roma alla rivoluzione francese e ai moti per la liberazione d'Italia è breve il passo: e nella mente rimane tutta una confusione. Il popolo giace sotto la tirannia di un solo, cui nessuno osa ribellarsi; l'eroe liberatore interviene a tempo. Un colpo di pugnale o una congiura vittoriosa fanno ciò che la folla non sa fare. Qualche volta è un paese intero che soggiace allo straniero, e n'è liberato per l'opera eroica di un solo.

E poichè i matrimoni, le date, le genealogie de' regnanti non c'interessano, noi ricordiamo soltanto i nomi e le azioni degli eroi: essi personificano per noi tutto un tempo: e la mente inesperta mette insieme gli eroi di Salamina e di Maratona, gli Orazii (o infidi!), i Fabii, Cesare, Bruto, gli eroi della rivoluzione francese, Garibaldi e i nostri.

La concezione di Carlyle, in realtà, non è che la concezione dei fanciulli delle nostre scuole: l'umanità che progredisce, che si emancipa per mezzo degli eroi.

«Secondo io la intendo (ha scritto Carlyle) la storia universale, la storia di quanto l'uomo ha compiuto sulla terra, è, in fondo, la storia dei grandi uomini, che quaggiù lavorarono. Quei grandi furono gli informatori, i modelli e, in largo senso, i creatori di quanto la massa generale degli uomini riescì a compiere o a raggiungere; tutte le cose che vediamo compiute nel mondo sono propriamente l'esteriore materiale resultato, la pratica attuazione e incarnazione di pensieri, che albergarono nei grandi quaggiù inviati: la loro storia potrebbe giustamente considerarsi come l'anima della storia di tutto il mondo.»

Non vi è niente di meno vero.

Quegli uomini i quali a noi pare che abbiano guidato il mondo, sono stati essi medesimi l'espressione di bisogni di società e di popoli determinati. Gli stessi uomini che ci sembrano più fuori e al di sopra del loro tempo, ne sono stati quasi sempre il prodotto. Noi non possiamo concepire Garibaldi nelle circostanze attuali: farebbe egli l'ostruzionismo? sarebbe egli contro? quali idee avrebbe sul regime doganale? si occuperebbe di che cosa? Se Napoleone fosse nato in India o in Cina che cosa sarebbe stato? Nulla forse. Quella vita che è stata uno dei più grandi fatti storici, sarebbe rimasta un piccolo fatto biologico, la nascita e la morte di un individuo tra le migliaia di milioni di uomini passati da allora per il mondo.

Gli uomini più insigni, i più forti e i più grandi non sono dunque qualche cosa al di fuori degli altri esseri: ma essi sono coloro i quali riescono a rappresentare l'anima collettiva, o il bisogno di una minoranza più audace e più forte.

La storia eroica quale noi insegnamo e quale noi abbiamo imparata, rassomiglia, in certo modo, a una geografia che si occupi solo della descrizione delle montagne. La più grande parte della superficie terrestre è occupata da grandi pianure, da colline ondulate: le immense montagne rappresentano una minima parte, e ancora sono per la vita degli uomini meno importanti.

Le alpi nevose rimangono nei nostri occhi più dell'infinita pianura: pure è quest'ultima che costituisce grandissima parte della superficie in cui viviamo.

«Così i dettagli della storia ci sfuggono. L'umanità, nel suo lungo viaggio, non ha conservato che il ricordo di alcuni precipizi, dimenticando la continuità monotona delle pianure felici che ha traversato. Noi siamo una folla immemore e ingrata: più sensibile ai sogni che ai successi, così nel passato come nel presente. Il successo, perchè la folla lo noti e lo ricordi, deve essere accompagnato da un cataclisma.»

Ma la storia vera, quella che val più la pena di penetrare, è la storia collettiva: la storia delle grandi masse umane, dei grandi aggregati di cui noi indaghiamo solo alcune espressioni e non sempre le più felici.

È una specie di pigrizia di mente quella per cui noi vogliamo spiegarci la storia mediante le opere di alcuni uomini: quand'anche furono grandissimi non poterono esser tali che per contingenze particolari, e perchè interpetrarono bisogni collettivi o sentimenti in formazione.

L'eroe silenzioso, come dice Carlyle, l'eroe che vive di sè stesso e dalla sua anima ricava tutto, non è mai esistito nè esisterà mai.

Ma l'ammetterlo dà a noi una debolezza: poichè ci fa rassegnare a una specie di fatalismo buddista. Tante volte noi diciamo in un momento difficile: manca l'uomo. E attendiamo l'uomo provvidenziale. Anche adesso, nelle difficoltà dell'Italia presente, che sono prova del suo sviluppo, anche adesso, noi ci chiediamo se tutto non finirebbe se avessimo un uomo. E bene: l'uomo è in noi stessi: è in ognuno di noi, e quando vorremo trovarlo noi lo ritroveremo.

Se non esistono uomini che vivano fuori e sopra il loro tempo – è noto che colui il quale ha trovato l'espressione di superuomo, Federico Nietsche, ha finito, povero ueber mensch in un manicomio quelle teorie che vi pareano nate dentro – vi sono però uomini i quali riescono a compiere opere straordinarie, e a fare ciò che la folla non riesce nè meno a concepire.

In questo senso vi sono gli eroi.

Quando un paese è soggetto a dominazione e la folla si rassegna, vi è un uomo che si ribella solo o con pochi: se egli non ha quasi speranza di vincere, se egli fa ciò che la moltitudine crede folle, egli è veramente un eroe. E allora o che il suo sangue sia lievito di rivolgimenti futuri, o ch'egli stesso vinca, nell'un caso e nell'altro è sempre un eroe.

Ma l'eroe in questo senso non è che la espressione di un male: cioè della bassezza collettiva. I popoli che hanno nella civiltà moderna maggior numero di eroi, sono quelli che hanno una più grande depressione.

L'eroe è colui il quale osa da solo ciò che moltissimi altri dovrebbero fare. Se la folla si rassegna vi è chi si immola. Egli è dunque l'eroe, cioè la espressione altissima di un bisogno ideale di un paese depresso.

Più la massa è depressa, più la coscienza collettiva è bassa, più il sentimento del dovere individuale è debole, più grande è il numero degli eroi e spesso più grande è il loro eroismo. Quanti eroi nella Grecia, quanti nella rivoluzione nostra, quanti nella Turchia odierna! Quanti sono che tentano nel silenzio e nel dolore, quanti per un solo che vince o vincerà soggiacciono!

Ma un paese ove l'educazione popolare è elevata, un paese ove la coscienza collettiva si è formata, dove tutti fanno il loro dovere, non ha eroi.

Gl'Italiani si rassegnavano alla servitù: e tanti eroi si sacrificarono per destarli dal sonno. Vi fu chi andò a morire in una impresa disperata, come Pisacane; chi come Garibaldi tentò un'impresa fortunata e arditissima. Felici o infelici per il risultato, la loro anima era sempre immensa.

Ma in un paese ove la educazione delle masse si è formata, ove ognuno ha il sentimento della responsabilità sua, l'eroe non è possibile.

Nelson è stato un grande marino e Moltke un tattico grandissimo. Ma il vincitore di Trafalgar che vedeva e prevedeva, che avea ai suoi ordini marinai fieri, devoti, era egli un eroe? Ed è stato forse un eroe Moltke?

Il sommo condottiero dei tedeschi era uno scienziato. La sua faccia scarna e seria di «chimico matematico» corrispondeva ad un uomo che guadagnava le battaglie in fondo al suo studio con l'algebra.

Il paese ove tutti fanno il loro dovere, il paese ove la solidarietà è grande, non ha eroi: può avere grandi tecnici, grandi condottieri, politici avveduti, uomini insigni per scienza: non ha eroi.

L'eroe è come la montagna che non sorge dalla scorza terrestre, se non avendo intorno valli profonde: i paesi di montagna sono pieni di valli fonde: vi è l'estrema altezza e vi è l'abisso.

I paesi che più contano eroi non hanno raggiunto che un debole grado di sviluppo e di solidarietà.

L'Italia, nel tempo della sua depressione, ha avuto grandissimo numero di eroi: appunto perchè il valor sociale della folla era scarso. Ora noi valiamo di più e può darsi che manchino alcune cime, poichè mancano pure gli abissi.

E i tentativi più eroici sono partiti sempre dall'Italia meridionale, dove appunto la coscienza collettiva era meno alta e dove la natura stessa del paese permetteva concepire alcuni piani audacissimi e sperare nella riuscita di essi.

* * *

La leggenda dei quaranta normanni, che sbarcati in Salerno conquistarono il reame di Napoli in pochi giorni, non è così inverosimile se a tanti secoli di distanza furono possibili tentativi come quelli di Ruffo e di Garibaldi.

Garibaldi che con pochi uomini sbarca in Sicilia e traversa quasi senza colpo ferire, fino al Volturno, un regno che avea centomila soldati, pare quasi una leggenda: una leggenda cui non crederemmo se non ne avessimo conosciuti gli attori.

Ebbene, il fenomeno della spedizione dei mille va studiato in rapporto a tutta la storia del passato. Spedizioni come quella dei mille per la libertà o per la reazione, per la unità o la difesa del vecchio regime, tante se ne son tentate!

In 61 anni, cioè, dal 1799 al 1860, dal cardinal Ruffo a Garibaldi gli eroi i quali hanno con pochissimi audaci tentato nel Mezzogiorno imprese cui la ragione si ribella, sono stati tanti!

Noi non ammiriamo che i vincitori; anzi noi non vediamo che il successo finale. Se Pisacane fosse riescito qualche anno prima e non avesse lasciato la vita ai piedi del colle di Sanza, noi lo glorificheremmo ora sì come Garibaldi.

Se i due fratelli Bandiera nel tentativo quasi folle per sublime eroismo, non fossero stati trattenuti nella triste terra di Calabria, poco dopo lo sbarco, i loro nomi sarebbero passati alla storia circondati di ben'altra aureola che quella del martirio infelice.

Dal tentativo che un cardinale di Santa Chiesa, Fabrizio Ruffo, fece con successo completo di ridare al suo re tutto un regno da cui era fuggito, e di ridarglielo scendendo in lotta con pochi uomini, fino al tentativo di Garibaldi è una serie di tentativi eroici: di cui assai lungo sarebbe il dire, se non bastasse ricordare le sedizioni di Morelli e Silviati, e le spedizioni dei Bandiera e di Pisacane.

In fondo, l'itinerario di Ruffo è stato la guida per i tentativi posteriori.

Nel 1799 il re Ferdinando I era dovuto fuggire in Sicilia (la fuga fu poi per la sua famiglia quasi una istituzione) e lasciare Napoli a piccolo esercito francese. La repubblica partenopea era stata proclamata, e il re, perduto lo Stato continentale, si era ricoverato nella Sicilia.

Ora, il tentativo di riprendere con le armi regie le province insorte, pareva quasi disperato.

Se non che un cardinale di curia che parea più esperto nel giuoco che nell'arte militare, concepì un piano arditissimo. Un piano così ardito, che pare quasi temerario, se si pensi soprattutto che chi lo tentava non era uomo d'armi.

Il cardinale Fabrizio Ruffo, dunque, decise di partire dalla Sicilia e senza nessun esercito riconquistare al re il regno. Partì con pochi fedeli, sbarcò a Bagnara ch'era suo feudo; pochi contadini furono il primo nucleo del suo esercito.

Il suo piano era semplice.

Egli sapeva che nel Mezzogiorno, grande era l'odio fra le classi medie e le plebi rurali, e volea smuovere queste ultime a favore della monarchia e del re. Volea smuoverle eccitandole contro la borghesia: i giacobini appartenevano alle classi medie, il popolo non avrebbe tardato a trasformare ogni proprietario in giacobino.

Era la guerra sociale in favore del legittimismo e della reazione.

Il cardinale Ruffo è stato descritto come un ribaldo. Egli era migliore del suo re e della sua riputazione: egli fu sotto tutti gli aspetti un eroe.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
22 октября 2017
Объем:
100 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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