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Читать книгу: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I», страница 5

Various
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Il giorno finiva e le artiglierie franco-italiane salutavano la vittoria, su quei campi dove giacevano uccisi mille seicento ventidue francesi, seicento novantuno italiani, duemila trecento ottantasei austriaci; feriti 8530, e prigionieri e scomparsi 1518, tra i francesi, tra i piemontesi feriti 3572 e scomparsi 1258; tra gli austriaci 10,634 e 9290 scomparsi e dispersi.1

L'unico e santo intento di tanto sangue versato era vicino a raggiungersi. Ancora una battaglia sotto Verona e l'opera era compiuta, la giustizia era fatta.

A un tratto, fra quelle speranze, scoppia, come folgore, la pace di Villafranca.

Non indagheremo quanto sulla repentina deliberazione abbian potuto le notizie di Germania, la quale nelle vittorie francesi vedeva un pericolo e una minaccia. La pace sul Mincio evitava forse la guerra sul Reno.

Parve per un momento dovesse l'Italia cedere per sempre al destino avverso. Sulle fulgide glorie di Palestro e di Varese, di Montebello e San Martino, di Magenta e Solferino si stendeva come un velo funereo. Angoscie e lagrime scoppiarono irrefrenate nel Veneto, condannato ancora al servaggio abominato, mentre si alzavano rinnovellati alle prime aure di libertà i più felici fratelli della Lombardia, della Toscana, dell'Emilia.

Quando Napoleone lesse a Vittorio Emanuele i capitoli della pace di Villafranca, questi non si potè trattenere dall'esclamare: «Povera Italia!» Ed avendo l'Imperatore soggiunto: «Ora vedremo quello che sapranno fare gl'Italiani da soli» – «Spero» rispose Vittorio Emanuele «che tutti faremo il nostro dovere.» E lo fecero.

Il conte di Cavour, il quale in un memorando colloquio con Vittorio Emanuele, voleva che il Re respingesse sdegnosamente la pace, si dimise da ministro e al Farini, che annunziava da Modena la sua risolutezza di resistere anche a costo della vita, al ritorno del Duca, egli scriveva: «Il ministro è morto, l'amico applaude alla risoluzione che avete presa.»

Ma sbollita l'ira e calmato il dolore fu lo stesso conte di Cavour, che al principe Girolamo Bonaparte scriveva: «Bénie soit la paix de Villafranca.»

Sacra antiveggenza del genio!

Una nuova vittoria ottenuta con l'aiuto di Francia, avrebbe bensì resa libera Venezia e costituito un forte regno nell'alta Italia, ma avrebbe resa onnipotente nella penisola la supremazia francese, la quale avrebbe rimessi sul trono principi invisi, cacciati per virtù di popolo.

Le mutate contingenze politiche mutavano l'avviamento delle menti italiane, e il concetto dell'unità italiana era rinnovato dagli avvenimenti.

Senza Villafranca non sarebbe stato possibile il magnanimo ardimento del Re guerriero, il quale, invece d'essere la coscienza e il braccio della rivoluzione, avrebbe dovuto rispettare i patti imposti dalla Francia. Senza Villafranca non avrebbe, no, potuto Garibaldi, l'epico cavaliere, rovesciare, con l'aiuto del Piemonte, con il concorso dell'Inghilterra, il governo nefasto dei Borboni, negazione di Dio. Senza la pace di Villafranca non sarebbe stato concesso al Cavour di far parlare l'anima sua entusiasta di cittadino più alto dello spirito prudente e chiuso del diplomatico. Senza la pace di Villafranca finalmente, non avrebbero potuto gli uomini migliori della penisola far risuonare insieme al grido augusto di libertà il tuo santo nome, o Italia!

Roma era ancora schiava, Venezia si dibatteva fra le ribadite catene, Napoli e Sicilia fremevano sotto un giogo abominato, ma restava sempre una grande idea: – l'Italia – un gran sentimento: – l'amor della patria, – reso più tenace, più forte dal dolore delle infrante illusioni. Sì, l'amor della patria, sfavillante più puro nella luce del sacrificio, si ergeva ancora fidente, con tutte le sue forze, sino all'ultimo suo fine, in tutti i suoi modi.

Ora s'era ridestata più risoluta la volontà, s'erano maggiormente accesi lo spirito di sacrificio e l'energia del bene, s'era fatta più stretta quella santa unione d'avvenire, di speranza, di lotte che dovea condurre l'Italia in trionfo «Sovra l'intatto scudo di Savoia.»

Italia e Vittorio Emanuele fu il grido, che risuonò in ogni parte della penisola, unendo i fratelli, chiamando gli avversari alla pugna, facendo dimenticare in quel santo grido tradizioni e interessi regionali, orgogli municipali, secolari nimistà. E le zolle d'Italia rosseggiarono di sangue italiano, a preparare il trionfo del Re. I plebisciti confermarono le brame dei popoli, e il 18 febbraio 1860 s'aperse il primo Parlamento italiano. Dopo un mese, Vittorio Emanuele II, fu, per legge, proclamato Re d'Italia.

Così, o signori, in questi grandi avvenimenti della storia gli uomini che credono dirigerli sono da essi trascinati, e nel fondo del quadro vi è l'eroe oscuro, ignorato, il quale decide di tutto e di tutti ed è la coscienza del popolo, che in certe ore si risveglia e s'impone. Gl'Italiani erano maturi pel grande riscatto nazionale.

Ben poteva l'imperatore di Francia, con i migliori e più alti intendimenti, divisare un'Italia distribuita in nuovi regni, ma omai la coscienza del popolo nostro era così sveglia e vigilante, gli uomini che la dirigevano o la esprimevano, il Re, Cavour, Garibaldi, Ricasoli, Farini, Minghetti ed altri spiriti magni di cotale grandezza, erano così degni d'interpretarla, che qualunque errore o qualunque tradimento della politica si sarebbe trovato il modo di torcerlo a favore della unità nazionale.

Se Napoleone proseguiva la guerra, l'unità si Sarebbe fatta all'ora voluta dalla storia con lui, senza di lui, o contro di lui. Arrestatosi al Mincio, il dolore della delusione fece prorompere anche più impetuoso il bisogno della unità in un popolo come il nostro, rappresentato da statisti come i nostri, i quali in certi momenti accoppiarono le doti degli eroi con quelle dei più fini diplomatici. Il Cavour, nel suo aspro colloquio col Re dopo Villafranca, è un eroe che dimentica i doveri del ministro verso il suo Re. Il Garibaldi, che sulle balze del Tirolo sa fermarsi e obbedire, è un politico istantaneo, che lascia dimenticare per qualche momento l'eroe. E di tutti questi coraggi irreflessivi e di tutti questi accorgimenti santi aveva bisogno la patria per unirsi, anche quando pareva che il cielo e la terra, il papa e Napoleone III contrastassero alla sua unificazione. E pensando a quelle giornate del nostro riscatto, nelle quali nè la nazione, nè gli uomini che la dirigevano commisero errori, quando pareva che tutti i grandi della nostra storia si alzassero dai loro sepolcri per inspirare i vivi, dobbiamo anche essere più indulgenti verso le presenti miserie e meno pessimisti.

Ogni giorno non c'è una patria da creare, ma neppure i languori, gli errori, le colpe dei contemporanei ci tolgono la fede che nei giorni di supremo pericolo non si troverebbero le energie del '59 e del '60. Poichè, o signori, è contrario alla legge della continuità storica, che un popolo il quale, quaranta anni or sono, era composto tutto di veggenti, di diplomatici, di eroi, dovesse oggi essere formato soltanto di queruli, di critici e di mediocri.

Vengano le ore dei grandi pericoli, troveremo l'antica grandezza.

Alziamo tutti gli ideali nostri, e troveremo gli antichi fervori.

La responsabilità maggiore di quest'ora opaca che si attraversa è nella piccolezza degli uomini politici, ma, fuori della vita politica, nelle industrie, nelle arti, nelle scienze, ritroviamo ancora l'Italia del '59 e del '60.

IL RE GALANTUOMO

(1849-1859)
CONFERENZA
DI
DOMENICO OLIVA

Carlo Alberto aveva voluto ritentare la prova: sulla sua anima di re e di patriota, l'armistizio Salasco, l'ultima ed inutile difesa di Milano, le scene di violenza, d'ingratitudine e di follia, da cui eran state bruttate le vie della Metropoli lombarda, pesavano come ricordi d'oltraggi e di sangue.

Tutta Italia fremeva ancora: la Lombardia soggiogata, non doma, pareva pronta alla riscossa: Venezia si teneva libera e si difendeva dall'Austria, e, penetrata dal severo spirito di Daniele Manin, si accendeva alle visioni di guerra e all'estreme speranze: erano in tempesta Toscana, Romagna, Roma, dilaniate da fosche e basse discordie civili, ma non vinte ancora: il re di Napoli s'era disvelato, ma il popolo di quelle contrade favellava pure sempre di libertà e aspettava: la Sicilia, insorta in armi, sfidava il nemico. Era tramontata l'età poetica: non più idillii, non più liete crociate, furore invece: pareva fosse promessa la vittoria alla disperazione, e, se non a vincere, si anelava a morire, a porre sulla strada della reazione trionfante un'Italia sanguinosa e lacera, ultima protesta, ultima vendetta, ultimo incitamento alle ire rinnovellate dei nepoti lontani.

Questa, in generale, la condizione morale e materiale della patria: volgiamo lo sguardo alle condizioni particolari del regno subalpino. Mai, io penso, un re e un popolo affrontarono tanto male un grande cimento, come Carlo Alberto ed il Piemonte, nella incipiente e tristissima primavera del 1849. Reazionari e rivoluzionari spargevano ogni sorta di veleni nella massa della nazione, e fra coloro che dovevano combattere, gli uni affermavano che il Re era tradito, gli altri che il Re era traditore: prezzo del tradimento, l'onore, la sicurezza, la libertà del popolo: predicavano la sfiducia, preparavano la sedizione! Nessuno credeva, la Camera urlava, i ministri non sapevano, il capo supremo dell'esercito era uno straniero ignoto, cui era ignoto persino il suono della nostra lingua; i soldati erano numerosi, ma o troppo vecchi, o troppo giovani, non esercitati o stanchi, non agguerriti, non ordinati: l'aristocrazia pronta al sagrificio, ma nauseata della demagogia o imperante o prossima ad imperare, il clero pauroso di novità, la folla ondeggiante, incerta, immiserita, dolorosa per le recenti sventure, non parata ad affrontare e a sostenere le nuove. Tentavasi così di vincere il vecchio maresciallo Radetzky, chiaritosi l'anno innanzi strenuo e possente capitano, di ricacciarlo nei fortilizi già da lui animosamente difesi, di obbligarlo a darsi vinto, mentre si accampava, certo della vittoria, coi suoi veterani al confine piemontese. Breve sogno e fallace: Ramorino fu sorpreso o si lasciò sorprendere, la nostra destra fu assalita e battuta, ci ritraemmo sotto Novara, minacciati d'essere avvolti e separati dalla metropoli subalpina, come lo eravamo da Alessandria e da Genova.

E ci lasciammo trascinare all'ultimo sforzo, e parve che appunto in quelle ch'erano ore estreme di agonia, la nostra fortuna stranamente potesse risorgere: le schiere affrante, stanche, già percorse dalla indisciplina, male ordinate, peggio nudrite, sentirono che nei cuori e nelle braccia stava per risorgere la virtù antica: fanti, cavalieri, artiglieri, ufficiali, soldati, sotto gli sguardi del Re pallido e impassibile, guidati dal duca di Genova, erto sul cavallo, colla punta della spada rivolta al nemico, respinsero i formidabili assalti degli austriaci, li assalirono a loro volta, e ripetutamente li fugarono: lo inseguimento di quelli che parevano già vinti, chiesto, implorato, supplicato dal duca di Genova, avrebbe fatto forse di Novara una vittoria italiana e forse mutato (chi può dire in qual modo) la storia del nostro paese. Non fu conceduto: tornò il nemico a combattere, tutte le forze imperiali, richiamate, giunsero sul campo: cadevano i nostri generali, gli artiglieri morivano sui pezzi, la pioggia fitta, minuta, incessante snervava i combattenti, l'aria era grigia e tetra e poi scendeva rapida la sera sui vinti che gridando al tradimento abbandonavano le ordinanze, sui gregari che non ascoltavano più la voce dei capi: erano tenebre, orrore, desolazione! Ed armi fratricide e mani rapaci e voglie bestiali si agitavano furiosamente nell'ombra, fra un coro d'imprecazioni, di grida paurose e di bestemmie.

Egli era là, sul bastione di Novara, aspettando senza profferir parola, senza muover ciglio, la palla liberatrice. Non poteva uccidersi, perchè cristiano; poteva morire, perchè soldato, per la mano incosciente ed ignota d'un soldato nemico. E lo ritrassero a forza. Si riebbe, chiese patti al vincitore: gli risposero con imposizioni dolorose e vergognose. E subito si determinò a quel sacrificio che, nell'ammirazione e nella gratitudine di noi nepoti, tanto e tanto innalza la sua figura. Convocati a tarda notte, i figli, i generali, il ministro Cadorna, quanti eran con lui, amici nella cattiva fortuna, in una sala del palazzo Passalacqua, in piedi, presso al focolare che rosseggiava, disse: «Alla causa della indipendenza italiana, io mi sono votato con tutta l'anima mia: per essa volli esposta ad ogni rischio di guerra la mia e la vita dei miei figli. Il Cielo non mi volle arridere, e la sublime vagheggiata mèta per me è per sempre perduta. Comprendo essere oggi la mia persona d'impedimento a conchiudere la pace diventata indispensabile; pace che d'altronde io non potrei sottoscrivere senza disdoro. Non avendo avuta la fortuna di morire sul campo, non mi resta, per la salute del mio paese, che deporre questa corona che posi al cimento per la libertà della patria. Io non sono più vostro Re, o signori, il vostro Re da questo momento è Vittorio, mio figlio.» E, fatto cenno al duca di Savoia di avvicinarsi a lui, gli pose la mano destra sul capo, e ve la tenne un istante, rinnovando quasi un antico rito di consacrazione, che la grandezza della sventura e gli uomini e l'ora facevano solenne. Poi strinse il figlio al cuore e lungamente, poi abbracciò il secondogenito e ad uno ad uno, tutti gli astanti, su cui più che la riverenza potè l'intensa commozione, e non ebbero freno le lagrime: la sala fu tutta singulti e non altro. Fuori, batteva ostinata la pioggia e non cessavano le grida dei feriti e dei morenti.

Volle restar solo coi figli, scrisse alla moglie che non doveva più rivedere e al suo segretario: al nuovo Re disse brevi parole, che così chiuse: «Sopra tutto devi esser sempre fedele ai tuoi giuramenti.»

E partì verso la morte.

* * *

Così cominciava il nuovo regno. Così cominciava il regno d'un giovane, che il popolo e l'esercito conoscevano solamente pel suo valore sul campo di battaglia: nella fantasia della gente egli altro non era che l'eroico soldato di Santa Lucia e di Goito: ma le fantasie in quei tempi eran malate e nei soldati, vinti, non si aveva più fede. Lo dicevano impaziente, lo affermava qualcuno conscio degli errori compiuti. «Dobbiamo ciecamente obbedire a chi ciecamente comanda,» avrebbe gridato un giorno in un impeto di sdegno; e v'era chi gli attribuiva qualche buon consiglio inascoltato. Ciò era poco. I primi uomini che lo avvicinarono, aspettavano ordini, nessuno osava dire una parola.

Volle subito dettare un manifesto ai suoi popoli e lo stese di suo pugno. «Fatali avvenimenti, la volontà del veneratissimo genitore mi chiamano assai prima del tempo, al trono dei miei avi. Le circostanze, fra le quali prendo le redini del governo, sono tali che senza il più efficace concorso di tutti, difficilmente potrei compiere l'unico mio voto, la salvezza della patria comune. I destini delle nazioni si maturano nei disegni di Dio: l'uomo vi debbe tutta la sua opera. A questo debito noi non abbiamo fallito.

Ora la nostra impresa dev'essere di mantenere salvo ed illeso l'onore, di rimarginare le ferite della pubblica fortuna, di consolidare le istituzioni costituzionali. A questa impresa scongiuro tutti i miei popoli: io mi appresto a darne solenne giuramento, ed attendo dalla nazione in ricambio aiuto, affetto, fiducia.»

Poi gli giunge notizia che il maresciallo Radetzky vuol conferire con lui e gli va incontro, da Momo, verso la fattoria di Vignale. Percorreva la strada, guasta dalla pioggia, a cavallo precedendo i pochi seguaci, vedeva contadini pallidi, sparuti, soldati sbandati, qualche carro di feriti e costoro non lo salutavano che con un grido ch'era un lamento: «Pace, pace!» Non rispondeva. Scorse il vecchio Radetzky a cavallo: discese pronto: anche il maresciallo volle affrettarsi a scendere, ma lo impacciavano la tarda età e gli acciacchi, e gli fu mestieri d'aiuto. Quando fu accanto al Re, desiderò abbracciarlo e gli rammentò che amava con tenerezza paterna la regina Maria Adelaide. Così il vecchio, rigido e terribile, si faceva bonario, diceva sorridente di gioie domestiche, cercava cattivarsi l'animo del giovane, e tendeva a una sottile seduzione. «Volete esser mio e vi farò possente: dimentichiamo ch'io sono un vincitore e voi siete un vinto: se ascolterete me sarete come un vincitore, e questo vostro regno oggi tanto battuto e disfatto, in breve diventerà florido e forte. Volete nuovi dominii? Io posso darveli. perchè ora posso tutto. Volete la tutela delle mie armi? Sono vostre. Sudditi ribelli, nemici esterni nulla potranno, finchè saremo uniti. Rinunciate a questa bandiera, che la rivoluzione e i nemici della vostra Casa hanno imposto a vostro padre: innalzate ancora l'antica, che fu rispettata e temuta e gloriosa, simbolo d'onore e di vittoria. Allontanate i perfidi consiglieri che hanno perduto Carlo Alberto e tornate a quelli che fecero i primi anni del suo regno così sicuri e prosperi. Nessun sagrificio domando a voi: Re, state coi Re; soldato, coi soldati. Ascoltate un vecchio esperto della vita e delle battaglie; voi siete giovane, com'è giovane il mio sovrano, siete fatti per conoscervi e per amarvi, vi uniscono vincoli di sangue, contiguità di territorii, l'interessamento di cui gli animi vostri sono compresi per l'ordinato e pacifico avvenire dei vostri popoli. L'Austria oggi sa divinare come un tempo e sosterrà le legittime ambizioni della casa di Savoia. Non volete? Ci volete nemici? Ebbene, potrei offrirvi generosamente patti decorosi e tollerabili: ma rammentatevi che starete solo, fra le passioni irruenti dei partiti, abbandonato da noi e da tutti i principi italiani. Che dico italiani? Da tutti i principi europei. Che ha fatto per voi la Francia? Nulla! Che farà? Nulla! Il vostro piccolo trono sprofonderà fra le tempeste; e se chiederete un giorno l'aiuto nostro, sarà tardi certamente. Pensate, Sire, questa è l'ora del vostro destino.»

«Ho giurato» gli rispose cortese, ma fermo il Re «ho giurato come principe, sto per giurare come Sovrano: ho combattuto per l'Italia e non pochi italiani hanno combattuto al mio fianco. Non posso dimenticare, non debbo dimenticarli, non voglio tradire nessuno. Sono a capo d'uno stato indipendente, e tale voglio sia per l'avvenire. Mi rassegno alla sorte del vinto, ma intorno ai miei doveri non tratto alcun componimento e giudice dei miei doveri sono io solo e li compirò, qualunque cosa compierli dovesse costare a me. A voi vengo per stipulare una tregua, non per stringere alleanza, per guadagnare terre, per crescermi di potenza.»

E come l'altro si faceva ad insistere, il Re negò sempre; negò e nel vecchio si facevano strada meraviglia e rispetto, e quasi la sensazione indefinita che quel giovane stesse per dar principio a un nuovo capitolo di storia. La figura sdegnosa del nuovo Re, le parole di lui chiare e sicure, quell'anima che gli si palesava tutta e che pareva ed era tanto maggiore della sventura, vinsero gl'istinti di prepotenza, l'orgoglio della vittoria, l'odio antico e perenne verso la gente italiana. Contro volontà stava volontà: quella vinceva più vigorosa ed ardita, quella che veramente si volgeva al futuro, mentre l'altra piegava, l'altra su cui pesavano gli anni e le opere, l'altra per cui si curvava il tempo mortale.

In quel colloquio fu fatta l'Italia, e si mostrò per la prima volta l'uomo che l'Italia aveva a lungo invocato.

Fu un istante di vera grandezza; qual meraviglia che ne siano uscite cose grandi? Un attimo d'esitazione, logica ed umana d'altra parte, ci avrebbe perduti. Ma esitazione non era possibile: Vittorio Emanuele incontrava deliberatamente il maresciallo Radetzky, come un Re e un italiano doveva incontrare il nemico. Un magnifico istinto lo aveva fatto forte: nessuna preparazione, nessun consiglio, nessuna esperienza; teneva luogo d'ogni altra cosa la generosa voce del sangue e l'amore della patria.

* * *

Usciva trionfante. E già pensava l'opera. Pensava: «M'ha compreso il generale nemico, mi comprenderanno i miei: io reco loro la bandiera salva, il simbolo e la realtà, tutto quello che si vuole per vivere e per rincominciare.»

Senonchè, quasi alle porte di Torino s'imbatte nel principe di Carignano, che gli reca un messaggio della Regina: e la lettera diceva la esaltazione, la esacerbazione degli animi, la confusione dell'idee e dei propositi, il dolore degli uni, l'avvilimento degli altri, le ire dei partigiani, le cupide voglie, quanto di morboso si sollevava nella metropoli piemontese. La Camera aveva udito leggere da Domenico Buffa una lettera del Cadorna, annunziatrice del disastro e dell'abdicazione di Carlo Alberto: aveva, in un impeto di doloroso entusiasmo, votato al re martire un monumento nazionale; ma poi si perdeva in mezzo alle recriminazioni, alle accuse, alle ingiurie, ai pensieri più folli e più disperati.

Vittorio Emanuele si reca subito a prestare giuramento di fedeltà allo Statuto, e mentre traversa lo spazio che sta fra la reggia e il Palazzo Madama, ove s'era raccolto il Parlamento, vede gran folla e la milizia cittadina in armi; non un grido ascolta, non un viso benevolo scorge, appena gli si rivolge qualche saluto, i più lo guardano senza parlare, senza muoversi, freddi, sospettosi, accorati. Entra nell'aula, sale sul trono, senatori e deputati si levano in piedi, nessuno applaude e pare che sulle labbra di quei dolenti o di quei nemici muoia il benvenuto che si dà sempre ai Sovrani.

Il Re giura, poi parla brevi parole, riafferma la fede sua negl'istituti liberali: dice che il suo giuramento dovrà compendiare tutta la sua vita. Silenzio profondo: non lo acclamano, non lo intendono. Esce, così com'è entrato, col cuore stretto, e per poco non piange di dolore e di rabbia. Gli pareva assai duro, mentre consacrava la sua esistenza al suo popolo e alle più alte idealità del nostro tempo, mentr'era già riuscito a serbare bandiera, statuto, vita libera, indipendenza del Regno, non essere accolto a braccia aperte, a cuori aperti, circondato da quella fiducia di tutti, senza la quale era impossibile accingersi all'opera, nell'opera perseverare, l'opera compiere.

Ma in breve si vince: accoglie i deputati losti, Ceppi, Montezemolo, Lanza, Rattazzi e Mellana, eletti dalla Camera per fargli omaggio. E liberamente esprime il suo forte rincrescimento, con parole tutte vivacità e schiettezza, parole atte a disarmare i prevenuti, a persuadere i peritanti, ad inspirare il coraggio di rispondere franchi a chi si esprime franco. E poichè gli dicono essere l'armistizio quello che crea nel Parlamento diffidenza e peggio, e gli manifestano il desiderio che l'armistizio sia revocato, così replica: «Lor signori deplorano tutto questo ed io lo deploro più di loro: loro desidererebbero che si lacerassero quei patti e si ridiscendesse in campo, ed io lo desidero più di loro. Mi diano solamente un quarantamila buoni soldati, ed io domani rompo l'armistizio e vado a cacciare gli austriaci nel Ticino.» Mentre così diceva, gli fiammeggiavano gli occhi. Uscirono i deputati dalla Reggia rispettosi, ammirando la ingenua fierezza del giovane principe, che veramente li meravigliò come cosa inaspettata: più ingegnoso, più ambizioso, più avveduto degli altri, Urbano Rattazzi forse pensava al futuro primo ministro d'un tal Re e probabilmente fu da quel giorno che a quel Re si votò con devozione profonda, prima segreta, poi manifesta. Ma tornati che furono a Palazzo Carignano, eccoli travolti tra la bufera che v'imperversa: e una bufera pareva trascinasse tutto il paese a ruina ed estrema. Insorgeva Genova, gridando una strana ed effimera repubblica; più non erano finanze, più non era esercito, più non esisteva senso di dovere civile, e il nuovo ministero, creato dopo la catastrofe, si accoglieva dalla Camera ingiuriosamente. Il Delaunay, presidente del Consiglio e generale, si presenta all'Assemblea in assisa militare, colle sue decorazioni e il presidente fra le risa di tutti (colle risa si sfogava l'ira) dice:

– Vorrei sapere chi è quel signore!

– Je suis Delaunay, lieutenant-général.

– Va bene: e in che qualità Ella viene fra di noi?

– En qualité de président des ministres da Roi Victor-Emmanuel.

E poi vòlto alla Camera:

– Messieurs… – egli incomincia.

– Un momento – interrompe il presidente – mi domandi prima la parola. —

E qui nuove risa e ogni sorta di atti di scherno.

Peggio accade quando Pier Luigi Pinelli, ministro dell'Interno, sale alla tribuna per leggere i patti dell'armistizio. «Morte ai traditori!» s'urla d'ogni parte. «No, no; è una viltà, vogliamo guerra a morte, guerra a coltello!.» Per queste furie fu necessità disciogliere la Camera, convocarne un'altra e discioglierla di nuovo, dopo poche sedute, che per primo atto aveva eletto a suo presidente Lorenzo Pareto, uno dei ribelli di Genova, cui il Re era stato largo di perdono. «Ma se io ho dimenticato» diceva il Re e scriveva «essi non dovevano dimenticare.» E fu necessità cangiare il primo ministro, vincere lo riluttanze, le resistenze di Massimo d'Azeglio, convincerlo, spingerlo, obbligarlo quasi ad assumere il potere. E l'assunse, inviso ai reazionari che odiavano il gran signore originale e democratico, l'artista che si faceva pagare i suoi quadri, il romanziere, il giornalista, il ferito di Vicenza, il piemontese ch'era lombardo a Milano, toscano a Firenze, romano a Roma, italiano dovunque; inviso ai rivoluzionari che lo sapevano fermamente deliberato a non dar tregua nessuna alla demagogia, a far politica di conservatore, a fare quella pace coll'Austria, senza la quale non potevasi chiudere l'era delle agitazioni, il periodo dell'anarchia in cui era caduto lo Stato, e che si voleva continuasse.

La verità frattanto, lenta ma certa, cominciava ad aprirsi la via, e un avvenimento doloroso rivelò quale fosse il sentimento del popolo, assai diverso, come spesso accade, da quello che s'agitava negli uomini della politica.

Il Re infermò e così gravemente, che fu mestieri affidare il reggimento della cosa pubblica al duca di Genova, e forte sgomento, forte dolore penetrò nell'animo di tutti e furono istanti d'ansia crudele come se un nuovo male, peggiore d'ogni altro, stesse per piombare sulla patria. S'intuì che la salvezza e la fortuna del Regno eran cose collegate strettamente alla salute e alla vita del Re. Già cominciava a penetrare nei piemontesi e nelle altre genti italiane il pensiero che Vittorio Emanuele era un uomo necessario: «Voi sarete solo» gli aveva minacciato il maresciallo Radetzky: ma era veramente questo esser solo, il grande argomento per cui le speranze sorgevano e andavano a lui. Ovunque i principi violavano gli statuti del 1848, si sottomettevano al vassallaggio austriaco, anzi lo desideravano, anzi lo imploravano, chiusi tutti nelle rinnovate consuetudini d'una tirannide stolta e paurosa, certi, per quanto avveniva fuori d'Italia, che il principio di nazionalità non potesse più risorgere. Ed egli invece, stava solo al posto che aveva eletto, a capo d'un popolo piccolo e vinto, sopra un trono mal sicuro, ripetendo a tutti che aveva giurato e voleva mantenere i giuramenti, affermando ch'era principe italiano e che la sua era bandiera italiana, non isfuggendo gli ostacoli, affrontandoli anzi animosamente con una grande lealtà di parole e di azione unita a una grande e incrollabile fermezza.

Ma mentre appariva questo principio di giustizia nella opinione dei più, si stimò necessario un ultimo atto e solenne per significare il pensiero dei Re e provocare un'indubbia manifestazione del popolo. Con modo inusato nei reggimenti costituzionali, ma legittimato da quella reverenza e da quell'affetto che per tradizione più volte secolare, i popoli subalpini nudrivano verso la Casa di Savoia, legittimato dalla condizione, singolarmente grave, in cui tuttora versava il Regno, legittimato dai pericoli esterni ed interni che parevano minacciare e minacciavano la Monarchia, il Re si volge ai cittadini e chiede loro, con parola amorevole e severa, un atto di buona e patriottica volontà. «Ho promesso salvare la Nazione dalla tirannia dei partiti, qualunque siasi il nome, lo scopo, il grado degli uomini che li compongono. Questa promessa, questo giuramento lo adempio disciogliendo una Camera diventata impossibile: li adempio convocandone un'altra immediatamente: ma se il paese, se gli elettori mi negano il loro concorso, non su me ricadrà oramai la responsabilità del futuro e dei disordini che potessero avvenire; non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro.»

1.Campagne de l'empereur Napoléon III en Italie 1859, rédigée au dépôt de la guerre d'après les documents officiels étant directeur le général Blondel. Paris, Imprimerie Impériale, 1863.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
22 октября 2017
Объем:
100 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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