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Читать книгу: «Dopo il divorzio», страница 11

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– Ho le gambe spezzate, – diceva egli, lamentoso. – E la schiena? Ah, la mia schiena pare sia stata colpita con la scure. Io morrò, io morrò…

La gente usciva sulle strade per vedere il gruppo, ma tutti guardavano in silenzio, come se passasse un funerale, e nessuno seguiva. Gli occhi di Giacobbe si velavano: ad un tratto egli barcollò e s'appoggiò ad Isidoro.

Le donne marciavano, trottavano come puledre; il canto melanconico saliva, spandevasi, dileguavasi come fumo nel freddo silenzio della sera, intorno al suono stridente della cetra, che aveva gemiti di bestiolina ferita abbandonata in una macchia.

Finalmente si arrivò alla casa della piccola vedova; nel focolare di schisto, al centro della cucina, ardeva il fuoco su un mucchio di brage estratte poco prima dal forno. Questo forno, rotondo e vasto, con un buco nel centro della volta per l'uscita del fumo, occupava un angolo della cucina, ed aveva un'apertura quadrata, per la quale poteva benissimo introdursi un uomo. Ebbene, Giacobbe Dejas si curvò ed entrò nel forno tiepido; sull'apertura apparvero le suola ferrate dei suoi scarponi, i cui chiodi consumati brillarono tenuemente al riflesso del fuoco.

Ritte, intorno al focolare ed al forno, le donne proseguirono il loro coro: il barlume rosso-violaceo del fuoco tremolava sulle loro persone, rischiarando i corsetti gialli e le camicie bianche. La boccuccia aperta e rotonda di zia Anna-Rosa pareva un forellino nero sul volto roseo e lucente. Il cieco aveva sentito il fuoco e vi si andava avvicinando a poco a poco, senza smettere di suonare. Arrivato sull'orlo del focolare mise il piede scalzo sulla pietra ardente.

– Zsss… – soffiò Isidoro, – bada che ti scotti, quel ragazzo!

Non aveva finito di dirlo, che il suonatore diede un balzo indietro, scuotendo il piede scottato. Per un momento egli cessò di suonare; tuttavia le donne proseguirono il coro; e pareva che esse, ritte e immobili intorno a quel forno, intonassero un coro funebre intorno ad un sepolcro preistorico.

– Esci – disse ad un tratto la vocina di zia Anna-Rosa.

Dal forno uscirono i grossi piedi di Giacobbe: nello stesso momento la porta si aperse ed apparve una figura nera. Prete Elias. Avvertito del caso egli era corso alla casa della vedova, per impedire almeno che Giacobbe venisse introdotto nel forno: ansava, era rosso, con gli occhi accesi.

Vedendolo una donna strillò; altre tacquero, altre accennarono a proseguire il coro. Giacobbe finì di uscire dal forno.

– Tacete! – impose il prete, con voce ansante. – Non vi vergognate? No?

Allora esse tacquero.

– Andate, egli riprese, spalancando la porta. E tenendola aperta con una mano, assistè allo sfilare delle donne; poi, quando esse furono uscite, si accorse della presenza di Isidoro, ed i suoi occhi si fecero tristi.

– Anche voi! disse con rimprovero. – Ma possibile? Non vedete come avete conciato quel povero uomo? Ma possibile, possibile! – ripetè come fra sè. Poi si animò ancora: – Presto, andate a chiamare il medico! E voi a letto. Avanti!

Giacobbe non chiedeva di meglio; aveva la febbre, il capo gli tremava, gli occhi non vedevano più. Isidoro uscì fuori e s'avviò verso la casa del medico. Si sentiva mortificato; ma nonostante il suo buon senso, la sua saviezza, la sua religione, non poteva spiegarsi che male c'era se si cercava di guarire il morso della tarantola coi canti, i suoni, i riti usati dai padri e dagli avi del villaggio sin dal tempo nel quale i giganti vivevano nei Nuraghes.

Per istrada le donnicciuole si erano sbandate, a gruppi di due o tre, e a bassa voce, nell'ombra, commentavano l'accaduto. Chi la prendeva sul serio, chi criticava il prete: una ragazza molto allegra si batteva le mani sulle anche canticchiando ironicamente:

 
Faladu m'est su tronu,
O mama de ranzolu11.
 

Era la nenia che dovevasi cantare intorno al letto del malato, se non sopraggiungeva prete Elias. Alcune donne s'avvicinarono ad Isidoro; ma egli passò oltre, a lunghi passi, pensieroso: allora tutte se ne andarono, ed intorno alla casa della vedova regnò la sera fredda e verdognola. Le stelle parevano occhi d'oro velati di lagrime.

XIV

La camera ove giaceva Giacobbe Dejas era di un'altezza straordinaria, e così vasta che il lume ad olio non riusciva ad illuminarne abbastanza gli angoli. Bisogna dire però che i mobili erano proporzionati: un guardarobe di legno rosso, sulla parete di fondo, raggiungeva il soffitto, ed aveva alcunchè di grave e pensoso; il letto di legno, attorno ai cui piedi girava una fascia di stoffa giallognola, era alto e maestoso come una montagna. Non so che di misterioso era in quella camera dagli angoli bui e dal soffitto alto e livido come un cielo nuvoloso; la minuscola figura di zia Anna-Rosa vi si smarriva come nell'immensità di una campagna: appena il suo petto arrivava alla sponda del letto.

Giacobbe Dejas sognava, su quel letto immenso. Aveva la febbre a 39 gradi. Gli pareva di essere ancora entro il fosso; ma i due uomini che l'avevano sotterrato continuavano ad accumulare la terra attorno alla sua testa, soffocandolo. Ed egli soffriva immensamente; ma lasciava fare, sperando di guarire più presto se lo sotterravano fin sopra la testa; e la sua testa era prete Elias, sul cui petto s'agitava la coda minuscola d'una tarantola. Nel sogno Giacobbe sentiva un pazzo terrore della morte.

Quando egli era entrato nel forno tiepido, aveva pensato che l'inferno poteva essere un forno acceso, entro il quale i condannati dovevano stare in eterno distesi.

Ora nel sogno gli si riproduceva esattamente quella impressione. Dal fosso, mentre la terra gli si accumulava attorno al viso, ed egli stringeva la bocca per non ingoiarne, vedeva un forno acceso. Era l'inferno. Egli provava un terrore tale che, anche nel sogno, anche nell'incoscienza febbrile dell'incubo, il suo istinto ebbe il bisogno prepotente di percepire che tutto era una illusione dei sensi. E si svegliò; ma svegliandosi provò l'impressione che, se fossero sensibili, dovrebbero provare le pietre in un incendio: sentirsi ardere e non potersi muovere, non poter sfuggire all'orrendo destino. Giacobbe Dejas provò qualche cosa di simile; come se stesse, fatto pietra, entro un mucchio di brage, entro un forno acceso, nell'inferno. E sveglio provò un terrore ancora più feroce di quello sentito in sogno. Diede un grido, un – ooh – sordo e grave, il cui suono lo confortò come una voce umana risuonante presso di lui nell'orrore dell'inferno.

Dalla cucina attigua zio Isidoro, – che era rimasto per aiutare in ciò che poteva la piccola vedova, – sentì quel grido nel sonno ed ebbe paura; si svegliò pensando che Giacobbe fosse morto; balzò su ed entrò nella camera. Avvicinatosi al letto vide il malato coricato supino, con la faccia stranamente allungata, e gli occhi, che sembravano neri, lucenti di lacrime.

– Sei sveglio? – domandò piano piano il pescatore. – Che cosa vuoi?

Gli toccò il polso, avvicinandovi l'orecchio come per sentirne il battito. Subito dopo Giacobbe vide dall'altra sponda del letto il visino di sua sorella, avvolto in un fazzoletto bianco.

Allora accadde una cosa strana: il viso del malato si accorciò, la bocca si allargò, gli occhi si strinsero; e un gemito lungo sibilò nella camera. La piccola donna rivisse in un tempo lontano, quando su quel medesimo letto Giacobbe bambino piangeva; protese quindi le braccia, accarezzò il malato, parlò fra dolce e irritata:

– Siano benedette le sante anime del Purgatorio, che cosa hai, cosa ti senti, fratellino mio?

Isidoro, stupito, continuava a tastare il polso del malato, cercando ora una vena, ora l'altra, e diceva:

– Oh! Oh! Questa è curiosa!

– Ebbene, che hai? Vuoi dirmi che cosa hai? Che cosa ha avuto, dillo tu, Isidoro Pane?

– Ma niente… ma niente… Ha gridato, ecco tutto. Forse ha fatto un cattivo sogno. Ora gli diamo un po' di acqua, ecco. Porta un po' d'acqua. Ecco, ora bevi. Eh, come bevi! Avevi sete? Capisci, è la febbre, ecco tutto.

Bevuta l'acqua Giacobbe, che s'era seduto, si calmò completamente. Egli indossava una vecchia maglia di cotone bianco, che gli disegnava il corpo piccolo, ma robusto; il petto coperto di fitto pelo nero contrastava con la testa e la faccia perfettamente rase. Rimase seduto, curvo in avanti, pensoso, passandosi la mano sana sul braccio malato.

– Sì, – disse ad un tratto, con la voce ansante e lamentosa dei febbricitanti – brutto sogno, ho fatto. Che caldo, San Costantino bello! Un caldo da forca. Ho sognato l'inferno.

– Che idee! che idee! che idee! – disse la sorella con rimprovero.

E zio Isidoro scherzoso:

– E c'era caldo, uccellino di primavera?

Il malato s'irritò alquanto:

– Non burlare, non dire più «uccellino di primavera». Mi fai arrabbiare. Io non lo dirò più, io non mi burlerò più di nessuno. Ascoltatemi, – disse poi, sempre a capo chino, palpandosi il braccio. – L'inferno è una brutta cosa. Io devo morire, e devo dirvi una cosa. Ecco, non spaventarti, Anna-Rosa, tanto io devo morire. E voi lo sapete già, zio Isidoro, quindi ve lo posso dire. Ecco, sono io che ho ammazzato Basile Ledda.

Zia Anna-Rosa spalancò gli occhi, spalancò la bocca, appoggiò il petto al letto e cominciò a tremare convulsivamente.

– Io non sapevo niente! – gridò Isidoro.

Allora Giacobbe sollevò il viso spaventato e cominciò anch'egli a tremare.

– Non mi farete arrestare? – disse, supplichevole. – Tanto io morirò. Lo direte poi? Io credevo che lo sapeste! Che cosa hai, Anna-Rò? Non aver paura, non mi farà arrestare.

– Non è ciò! – disse ella, rimettendosi alquanto. Le era parso ricevere un colpo di pietra sul capo. Ora l'impressione fisica svaniva; ma una cosa misteriosa accadeva entro di lei, come se la sua anima se ne andasse, e ne prendesse il posto un'altra anima che vedeva le cose, il mondo, la vita, il cielo, la terra, Dio, in modo diverso da quello dell'anima fuggente. E tutte le cose vedute dalla nuova anima erano piene di orrore, di oscurità, di caos.

– Io non dirò niente. No. No. Ma io non sapevo niente. Come potevo saperlo? – protestò Isidoro. Egli non sentiva orrore di Giacobbe, anzi ne provava pietà; ma nello stesso tempo gli desiderava la morte.

E subito tutti e tre i personaggi di quel dramma pensarono a Costantino, e questo pensiero non li abbandonò più un istante.

– Còricati, – disse Isidoro, battendo la mano sul cuscino.

Ma l'altro scosse il capo; e riprese, con la sua voce lamentosa e ansante, a volte supplichevole, a volte irritata:

– Io credevo che voi lo sapeste: ah, dunque non lo sapevate? Ah, vero! Come potevate saperlo? Io avevo paura di voi, però: credevo che mi leggeste negli occhi. Ecco, una notte, in casa vostra, mi diceste «puoi essere stato tu ad uccidere Basile Ledda». Io ebbi paura, quella sera. Poi un altro giorno, il giorno dell'Assunzione, qui, in questa casa, voi mi diceste «assassino!» Era uno scherzo, ma io ebbi paura, perchè avevo paura di voi. Ebbene, quando vi proponevo di maritarvi con mia sorella lo faceva sul serio: pensava di legarvi a me.

– Gesù Cristo mio! mio piccolo Gesù Cristo! – gemè la vedova.

Giacobbe la guardò un momento.

– Tu hai paura, eh? Perchè l'ho fatto, tu chiedi? Ebbene, perchè odiavo quell'uomo. Egli mi aveva bastonato. Egli mi doveva del denaro. Ma mi parve di morire quando condannarono Costantino Ledda. Perchè io non ho confessato allora? Voi dite così, voi! Eh, è facile dirlo; ma farlo era impossibile. Costantino è un buon ragazzo, io pensavo: morrò prima di lui, confesserò tutto. E ciò che fece Giovanna Era mi invecchiò di cento anni. Che cosa dirà Costantino quando ritornerà? Che cosa dirà? – ripetè sommessamente, come interrogando sè stesso. – Che cosa faremo ora?

Zia Anna-Rosa chinò la faccia sulla coltre e sospirò: le pareva sognare un orribile sogno.

Ma neppure un istante pensò che dovevasi occultare la rivelazione del fratello. E dopo?

Due cose parimenti orribili al suo cuore dovevano accadere: o la morte di Giacobbe o la sua condanna. Ella non sapeva quale scegliere.

– Ora ci corichiamo e riposiamo: domani penseremo al da farsi, – disse zio Isidoro. E battè nuovamente la mano sul cuscino. Giacobbe tornò a coricarsi supino e sollevata la mano sana cominciò a contare con le dita:

– Prete Elias uno; poi il sindaco, poi… come si chiama, Brontu Dejas. Sì, sì. Appunto lui. Li voglio qui, confesserò a loro.

– A Brontu Dejas? – chiese stupito zio Isidoro.

– Perchè egli più di tutti sarà creduto. Ma prima, tutti mi giurerete sul crocifisso che mi lascerete morire in pace. Io ho paura. Mi lascerete morire in pace, dunque?

– Ma sì! Sta tranquillo, ora. E voi, piccola comare, tornate a letto; riposatevi, dormite, – disse il pescatore con voce tranquilla, accomodando le coperte intorno al malato, che si scopriva sempre, si agitava, scuoteva la testa.

– Ho caldo, – diceva Giacobbe – ho caldo; lasciatemi stare. Come non vi meravigliate voi, zio Sidore? Ah, io rimasi servo per non dar dei sospetti. Ma voi sapevate. Sì, sì, sapevate.

– Non sapevo nulla, ti dico, figlio di Dio.

– E allora perchè non vi meravigliate?

– Perchè? – disse l'altro con voce grave. – Nel mondo ne succedono tante! Son cose del mondo. Ebbene, sta coperto e cerca di dormire.

La vedova, che pareva non avesse ascoltato quanto i due uomini avevano detto, sollevò il viso. Ed il piccolo viso s'era fatto giallo, pieno di rughe; pareva che tutti gli anni passati placidamente senza poter solcare quel volto, avessero preso la rivincita in un attimo.

– Giacobbe, – disse la donnina, – non ci sarà bisogno di testimoni. Non ci sarà bisogno di chiamar nessuno. Non basterò io?

Egli si sollevò ancora e guardò Isidoro. Isidoro guardò lui, ed entrambi dissero:

– È vero.

Dopo di che una gran calma parve spandersi nella camera giallognola e misteriosa. Il malato tornò a stendersi sul letto, tacque, si calmò, si assopì; anche la vedova acconsentì ai consigli di zio Isidoro ed andò a coricarsi. La faccia grave del guardarobe rossastro tornò a dominare pensosa nella penombra, ed il soffitto color nuvola gravò sul silenzio della camera come sopra una campagna deserta. Le cose tutte, calme, impassibili, parevano ripetere le parole di zio Isidoro:

– Cose del mondo!

Il medico condotto di Orlei, dottor Puddu, era una specie di bestia grossa e gonfia. Un tempo anche egli aveva avuto grandi ideali; ma la sorte lo aveva sbalzato in quel paesello solitario, ove la gente raramente ammalava, ed egli s'era dato a bere, prima di tutto per scaldarsi, – essendo egli meridionale, – poi perchè i liquori ed il vino gli piacevano immensamente. Ora egli era, oltrechè alcoolizzato, completamente incretinito, tanto che neppure gli abitanti di Orlei lo stimavano.

Giacobbe Dejas si lamentava di un dolore al fianco e dottor Puddu gli cauterizzava la mano ferita dalla tarantola, e gli diceva con voce rauca:

– Stupido. Non si muore di queste cose. D'altronde, se muori tu è come muoia un asino.

Zia Anna-Rosa lo guardava con ira e brontolava. Era diventata collerica, la povera donnina; si arrabbiava con tutti, tranne che col malato. E come sembrava vecchietta, ora! Dopo quella notte, il suo visetto era rimasto giallo e rugoso; non pareva più quello.

La rivelazione del fratellino l'aveva cambiata in modo strano, fisicamente e moralmente. Ella si chiedeva, con profondo stupore, come mai Giacobbe aveva potuto uccidere un uomo.

– Egli! Egli che era allegro e mansueto come un agnello. Come mai, animuccie sante del Purgatorio? Eppure nostro padre non era un ladrone, no; era un uomo di Dio, sempre allegro e così scherzevole che quando un amico si sentiva di malumore cercava la sua compagnia.

La donnina s'inteneriva pensando al vecchio padre defunto; ma, ecco, un'orrenda nuvola le oscurava la mente, e tutto il suo visetto si raggrinzava per l'orrore di un terribile pensiero:

– Che anche il vecchio allegro, il vecchio santo, avesse anch'egli commesso qualche delitto?

Non c'era più da fidarsi di nessuno, nè dei vivi, nè dei morti, nè dei vecchi, nè dei fanciulli. Poi zia Anna-Rosa piangeva, si batteva il petto col piccolo pugno, si pentiva dei suoi dubbi orrendi; e andava presso il malato, ed il malato, col suo viso solcato dalla sofferenza fisica e gli occhi pieni di spavento, che pareva supplicassero la morte di risparmiarlo, le destava una grande, infinita pietà, una tenerezza materna, un dolore senza nome.

Egli era più che mai il suo fratellino, così raggomitolato sull'immenso letto; così spaventato, così rimpicciolito dal male; e mentre tutte le cose, tutte le persone, e persino i morti più sacri, e persino i fanciulli innocenti, destavano in lei dubbi atroci, diffidenze amare, rancori profondi, egli solo, egli solo le destava pietà, tenerezza, amore, e una dolcezza struggente e calda come la cera accesa. Ed intanto doveva vederlo, lo vedeva morire, e doveva desiderargli la morte; e curandolo con tenerezza attenta, doveva desiderare che i medicamenti, che le cure, che tutto fosse inutile. E questa morte, questa cosa orribile che ella doveva desiderare al suo «fratellino», oltre il dolore profondo per sè stessa, doveva recarle un'altra cosa più orribile ancora: la denunzia del delitto.

Ma ciò che era più triste di tutte queste cose, per zia Anna-Rosa, era che il malato s'accorgeva dei sentimenti di lei.

Infatti, al terzo giorno della malattia, Isidoro portò con gran mistero una medicina prestatagli dal sagrestano. Questa medicina era composta d'olio d'oliva entro cui avevano galleggiato tre scorpioni, un centopiedi, una tarantola, un ragno, un fungo velenoso: guariva qualsiasi puntura. Zia Anna-Rosa unse subito la mano gonfia e livida del malato: ed egli lasciò fare, guardando attentamente la mano, ma poi disse con voce calma:

– Perchè mi curi, Anna-Rò? Non vuoi tu che io muoia?

Ella si sentì spezzare il cuore.

– Fatto anche questo! – disse poi Giacobbe, guardando Isidoro. – Ma se io non morrò, come farete voi?

– Dio ci penserà; sta tranquillo.

Egli tacque un poco, poi disse: – Andrete assieme dal giudice?

– Cosa?

– Dal giudice. Ora fa freddo, però: il viaggio è lungo. Ebbene, Anna-Rosa, non viaggiare a cavallo, sai? Va in carrozza, a Nuoro.

– Per che cosa? – ella chiese, irritata, fingendo non comprendere.

– Ebbene, per il giudice, ecco!

Ella lo sgridò, poi uscì in cucina e pianse amaramente.

– Ecco il tuo olio, – disse ad Isidoro, quando egli uscì per andarsene. – Potevi fare a meno di portarlo. Quando verrà prete Elias?

– Egli verrà stasera.

– Sì. Bisogna che Giacobbe si confessi. Il tempo vola, egli sta male. Stanotte non ha chiuso occhio. Ah, – disse poi, – egli mi sembra un uccellino ferito.

– Sono venuti i Dejas? – chiese l'altro.

– Sono venuti. Madre e figlio; anzi Brontu è venuto due volte. Sì, vengono, vengono tutti; ma a che serve ciò? – diss'ella con disperazione. – Non possono dargli nè la vita nè la morte.

– Son buone e cattive entrambe, per lui, – disse Isidoro, avvolgendo accuratamente nel suo fazzoletto rosso la bottiglina dell'olio.

– E per tutti – rispose la donna.

Poco dopo venne il medico, avvolto in un paletò stretto, col colletto unto. Egli era già ubbriaco; sbuffava, sputava di qua e di là, e qualche volta anche sopra sè stesso; e dalle labbra livide gli scaturiva un alito vaporoso, puzzolente di acquavite. Tuttavia si allarmò per lo stato di Giacobbe.

– Che cosa diavolo hai? – gli chiese rudemente. – Il fianco? Il fianco? Hai diavoli al fianco! Vediamo un po'.

Rigettò le coperte, scoprì il fianco velloso di Giacobbe, lo palpò, vi mise su l'orecchio.

– È un corno! Sei viziato come una creatura, – disse, ricoprendolo in malo modo. Ma quando zia Anna-Rosa lo accompagnò fino alla porta, egli si rivolse e la fissò.

– Donnina, – le disse, – fatelo adunque confessare perchè egli ha la polmonite.

Sull'imbrunire Giacobbe si confessò. Poi fece chiamare la sorella e disse:

– Anna-Rò, anche prete Elias verrà con te, dal giudice. Andrete in carrozza perchè fa freddo.

Infatti fuori nevicava: un barlume biancastro, di una infinita melanconia, penetrava ancora nella grande camera misteriosa, il cui soffitto sembrava un cielo grave di nuvole.

Prete Elias guardò zia Anna-Rosa, alla quale egli voleva un gran bene perchè rassomigliava alquanto a sua madre: ella s'era fatta ancora più piccina, tutta nera nella penombra triste del crepuscolo nevoso, e chinava la faccia, vergognosa del delitto del suo «fratellino». Prete Elias capì istintivamente tutto il dramma eroico di quella povera anima, e mentalmente la benedisse.

11.M'è calato un fulmine,O madre del ragno.  Vedasi il fascicolo III, anno I, della Rivista delle tradizioni popolari italiane. Roma, Forzani e C., 1894.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
11 августа 2017
Объем:
220 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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