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Читать книгу: «Dopo il divorzio», страница 10

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– Che tu sii benedetto, Isidoro Pane, è vero che tu vuoi ammogliarti?

– Andate là! Andate là! – rispose bonariamente il pescatore.

– Ah, voi non volete ammogliarvi? – gridò Giacobbe, strappando coi denti ancora forti un pezzo d'arrosto che teneva con ambe le mani. – Siete un animale immondo. Ecco, germana mia, egli ha delle amanti.

– Questo non lo credo.

– Che tu mi veda in cielo se mento. Sì, egli ha delle amanti che gli succhiano il sangue…

La donna e Isidoro risero, – un riso da creature innocenti, – comprendendo che Giacobbe accennava alle sanguisughe.

Il servo cominciò a tagliuzzare la carne col suo coltello affilato, tenendola fra i denti e la mano sinistra, e dicendo che sembrava l'orecchia del diavolo tanto era dura. E quei due, ora che avevano cominciato, ridevano per ogni piccola cosa. Giacobbe, però, non rideva: non sapeva perchè, ma il buon umore di due ore prima era passato.

– Dopo vi condurrò a vedere il mio palazzo: fra giorni sarà finito e se volessi affittarlo avrei già gli inquilini. Ma io non l'affitto. No: andrò ad abitarlo io.

– Tu lascerai il servizio, dunque?

– Io lascerò il servizio, sì. Fra poco. Ho lavorato abbastanza. Sono quarant'anni che lavoro, sapete? Sì, quarant'anni. Nessuno dirà che ho rubato i denari coi quali vivrò la vecchiaia.

– Tu ti ammoglierai?

– Poh, chi mi vuole? Io stesso sputerei la donna giovine che mi accettasse. E vecchie non ne voglio, no. Bevete, Isidoro Pane.

– Tu mi farai ubbriacare? Ebbene, sì, è festa. Alla salute degli sposi.

– Di quali sposi?

– Di Giacobbe Dejas e di Bachisia Era! – disse il pescatore, che diventava allegro.

Giacobbe fece atto di gettarglisi sopra. – Io vi accoppo! – gridò, con gli occhietti verdi d'ira.

– Ah! Ah! Ah! Assassino!

– Silenzio, sss… non son cose da dirsi, – disse zia Anna-Rosa.

Giacobbe bevette due bicchieri di vino e cominciò a ridere un po' forzatamente, guardando la sorella e il pescatore.

– Ecco, maritatevi voi due! Isidoro Pane, mia sorella è ricca; eppoi non vedi come è fresca? Sembra una bacca di rosa selvatica. Dicono che ella abbia trovato un'erba meravigliosa e ne faccia un decotto che tiene fresca la pelle.

– Che Dio ti benedica; tu sei così curioso! – disse la donnina.

– Sì, maritatevi. Io voglio. Mia sorella è ricca. Ciò che è mio è suo, perchè io morrò prima di lei. Non so perchè, credo che morrò presto: credo che debbano ammazzarmi…

– Va là; è il vino che oggi comincia ad ammazzarti…

– Fratellino mio, che dici tu? Per le animuccie del Purgatorio, cosa dici tu? – esclamò atterrita la sorella.

– Tu non hai nemici, – osservò il pescatore. – Eppoi perisce di ferro soltanto colui che di ferro ha ferito.

– Io ho ferito, – rispose Giacobbe, con accento grave, affondando la bocca in una fetta d'anguria: – quante creature innocenti! Ah, voi non capite? Pecore e agnelli! – poi sollevò il viso, rorido del roseo sangue dell'anguria, e rise.

Dopo andarono a veder la casa nuova: era ad un piano, oltre il terreno; in tutto quattro camere vastissime, una cucina e una stalla, ma ciò bastava perchè Giacobbe, e tutti quelli del paese, la chiamassero palazzo.

– Ecco questo, ecco quell'altro, – diceva Giacobbe, additando ogni buco; ed il suo viso liscio, senza sopracciglia, ridiventava gioviale.

– Prendetevi mia sorella per moglie, – ripeteva. – Questa casa sarà sua…

– Tu mi deridi, – rispose il pescatore; – perchè sono povero tu mi deridi.

Egli camminava timidamente sul pavimento di legno; Giacobbe invece batteva il tacco ferrato, compiacendosi a destar l'eco nelle grandi stanze vuote, odorose di calce fresca.

Un momento i due uomini si affacciarono ad una finestra, il cui davanzale di pietra ardeva al sole: e siccome la casa stava in alto, apparve la visione del paesello bruno, come un mucchio di carboni spenti, sotto il velo verde degli alberi; la pianura gialla, le grandi sfingi d'un grigio violaceo dritte sul cielo ardente. La campana della chiesetta suonava, suonava, e nella quiete del meriggio, azzurro e ardente come fiamma, quel suono saltellante, fra di pietra e di metallo, pareva venir da lontano da lontano, dal cuore di quelle sfingi, ove un gigante spaccapietre lavorasse annoiato e sonnolento.

– Perchè dunque non volete sposare mia sorella? – riprese Giacobbe, affacciato goffamente al davanzale. – Questa casa sarà sua, questa sarà la camera da dormire; qui, in questa finestra, vi potrete affacciare, uccellino di primavera, potrete fumare la pipa…

– Io non fumo. Lasciami in pace, – disse Isidoro con impazienza, poichè le parole del servo cominciavano a fargli male.

– Io non scherzo, vecchia lucertola, – proruppe Giacobbe. – Ma voi siete così pezzente che non potete neppure pensare che io non scherzo.

– Senti, – disse Isidoro, – oggi tu mi hai dato da mangiare, e per così poco vuoi spassarti alle mie spalle. Ebbene lasciami tranquillo, se vuoi che io ti resti grato.

Giacobbe lo guardò fisso, si mise ancora a ridere e gli disse:

– Andiamo a bere, ora.

Uscirono: Giacobbe s'avviò alla bettola, ma Isidoro non volle seguirlo, dicendo che doveva recarsi in chiesa.

Il servo andò alla bettola e vi trovò Brontu ed altri che giocavano alla morra con le braccia tese nervosamente, gridando i numeri con quanto fiato avevano in gola.

Prima delle cinque, ora nella quale doveva cominciare la processione, tutti erano ubbriachi. Giacobbe lo era più di tutti; pure s'arrogò il dritto di prender sotto braccio il padrone, sembrandogli che Brontu dovesse di momento in momento cadere. Poi invitò tutti quelli che si trovavano nella bettola ad andar nel suo palazzo per veder la processione.

Poco dopo le grandi stanze vuote risuonarono di voci rauche, di risate incoscienti e di passi malfermi; le finestre si spalancarono e si riempirono di visi barbuti, rossi, selvaggi.

Giacobbe e Brontu s'affacciarono alla finestra dove s'era appoggiato il pescatore: il sole era calato, ma il davanzale restava caldo; e sotto e davanti la visione del paesello, della pianura e delle montagne, appariva solcata da ombre sempre più allungantisi.

– Cu cu – gridò Brontu, arrotondando e sporgendo gli occhi.

Tutti lo imitarono, gridando a chi più poteva; le stanze echeggiarono, la strada si popolò di curiosi, ed in breve una battaglia di pietruzze, di sputi e di male parole si ingaggiò fra gli ubbriachi delle finestre e gli ubbriachi della via. Ma improvvisamente si fece silenzio. S'udiva una cantilena grave e melanconica avvicinarsi: ed ecco una doppia fila di fantasmi candidi apparve in fondo alla strada, e sull'aria azzurra brillò una croce argentea.

Gli uomini della strada si attaccarono in fila al muro, i visi delle finestre si abbassarono; tutti gli astanti si tolsero la berretta.

Uno dei confratelli vestiti di bianco – per lo più erano ragazzi, ai quali, finita la processione, si davano tre soldi e una fetta d'anguria, – picchiò alla porta della casa nuova e passò oltre. Gli altri, che venivano dietro, lo imitarono.

– Che voi siate maledetti, – disse Giacobbe, sporgendosi dalla finestra, – maleducati! E vanno alla processione! – Voleva sputare su loro, ma Brontu gli disse che non conveniva.

Ed ecco lo stendardo di broccato verdolino con cento nastri variopinti e il bastone dorato: ed ecco la Madonnina Assunta nel suo letto portatile, con gli occhi chiusi, con la veste coperta di collane e d'anelli che parevano collane ed anelli dell'età del bronzo, vigilata dai piccoli angeli verdi.

Ai quattro lati camminavano, oltre i portatori, quattro uomini in tunica bianca, con quattro bambini vestiti da angioletti, quattro graziose creature, due bionde e due brune, che chiacchieravano fra loro, gridando per intendersi. Uno, solleticato sotto il ginocchio dall'uomo che lo portava, rideva contorcendosi, con un'ala penzoloni.

Giacobbe, Brontu, i compagni, piegarono le ginocchia e si fecero il segno della croce, guardando con tenerezza i quattro bambini.

Anche questi guardarono in su; uno riconobbe un suo zio alla finestra e gli gittò un confetto rosso che ricadde sulla strada.

Prete Elias ed il piccolo sacerdote nuorese, vestiti di broccato e di merletti, pallidi e belli al riflesso delle stoffe preziose che indossavano, con le mani giunte e il viso composto, cantavano in latino.

– Che il diavolo ti fori la saccoccia, ecco quell'immondezza di Isidoro Pane, – disse Giacobbe, agitandosi – ecco, sembra il padrone della processione! Io lo sputo.

– Ferma! – impose Brontu.

Giacobbe raschiò per richiamare l'attenzione del pescatore, ma costui non sollevò neppure gli occhi. Egli intonava le preghiere e la folla rispondeva ad una sola voce.

Una massa di popolo variopinto riempì la strada, mentre la croce argentea dileguavasi sullo sfondo: uomini a capo scoperto, teste calve lucide di sudore, capelli neri unti, capelli neri ricciuti e lanosi, – teste di donne coperte da grandi fazzoletti di lana fioriti, – un fondo nero a macchie gialle, a righe rosse, a chiazze verdi, – il candore delle camicie sui petti delle donne, – volti rosei, – mani rosee, – occhi scintillanti, – labbra che si muovevano, – poi un vecchio zoppo, – una donna con due bambine, – tre vecchie, – un fanciullo con un fiore giallo in bocca, – riempirono la strada, – s'allontanarono, – dileguarono coll'ondulare melanconico e grave della cantilena orante. Un gatto mostrò le sue zampine, poi sporse il visetto bianco dai grandi occhi azzurri, poi saltò e guardò sul muro in faccia alla casa di Giacobbe.

– Troppo tardi! – gli disse Brontu, facendogli un cenno di saluto.

Tutti cominciarono a ridere e urlare: Giacobbe li pregò di andarsene, e siccome gli amici non l'obbedivano, finse scacciarli con un bastone sporco di calce. Allora quegli uomini fieri, robusti, selvaggi, cominciarono a correr qua e là per le stanze, per la scala, spingendosi per le spalle, rotolando, gridando, producendo un chiasso infernale, ridendo come bambini; e proseguirono il giuoco anche nella strada, dopo che Giacobbe ebbe chiuso a chiave la porta del suo palazzo: poi, tutti assieme, ritornarono nella bettola.

Brontu ed il servo rientrarono a casa sull'imbrunire, sostenendosi a vicenda.

Zia Martina stava nel portico, sola, con le mani sotto il grembiule: recitava il rosario. Vedendo i due uomini non si mosse, non disse nulla, ma scosse leggermente il capo, stringendo le labbra come per dire:

– Siete belli davvero!

– Dov'è Giovanna? – gridò Brontu.

– È da sua madre.

– Ah, da sua madre? Dalla vecchia arpia? È sempre là, maledetta!

– Non gridare, figlio mio!

– Io grido, perchè sono in casa mia! – egli urlò. E voltosi verso lo spiazzo cominciò a gridare: – Giovanna! Giovanna!

Giovanna apparve sulla porta della casetta e si avviò attraverso lo spiazzo con un'aria spaventata; ma a misura che ella si avvicinava, il suo viso prendeva un'espressione di sprezzo e di disgusto.

Giunta davanti ai due uomini, li guardò con uno sguardo d'odio: Giacobbe rideva fra sè e sè; Brontu aveva le orecchie rosse per l'ira.

– Che hai? una colica? – disse Giovanna.

– Può darsi che gli venga più tardi! – esclamò Giacobbe.

Brontu mosse convulsivamente le labbra, ma non riuscì a dir nulla, e l'ira gli passò come era venuta, senza ragione.

– Ecco, ti voglio con me… – balbettò, – oggi non ci siamo veduti per nulla… Cosa facevi da tua madre? Chi c'era?

– Nessuno, per l'anima mia! Chi vuoi che venga da noi? – diss'ella con pungente amarezza.

– Può venire San Costantino… aaa daarvi unaaa poesiaaa… – canterellò Giacobbe, con le labbra bavose. – Ah, tu non l'hai visto San Costantino? Ebbene, ecco come è pazzo Isidoro Pane: non la vuole… non la vuole… eeee…

– Zitto tu! – disse zia Martina. – Ed intanto l'ovile rimane abbandonato! Così tu fai gli affari del padrone? Ah, razza maledetta! Ladroni! – Giacobbe si alzò, pallido, rigido: Giovanna ebbe paura che egli si gettasse contro la vecchia, e le si pose davanti.

Giacobbe tornò a sedersi, senza aprir bocca; ma egli aveva destato tale terrore in Giovanna, che la giovine rimase vicina alla suocera in atto di difesa.

Allora toccò a Brontu prendersela con la madre.

– Che modi son questi? – le disse, – voi trattate la gente come… come… fossero bestie… tutti. Oggi, oggi, sì, oggi era festa. E se colui s'è voluto ubriacare? Cosa ve ne importa?

– Io sono ubriaco di veleno! – disse Giacobbe.

– Sì, di veleno! E anch'io! – riprese Brontu. – Oramai sono stufo; sono stufo di madri, di mogli, di… di… tutto, ecco. Io me ne vado, ecco. Vado a stare nel suo palazzo. Dopo tutto siamo parenti, e… e…

– E dillo dunque! – urlò Giacobbe. – Tu conti sulla mia eredità! Ah! Ah! Eh! Oh!

Ricominciò a ridere, un riso urlante, per dir così, che destava orrore. Ed anche Brontu si mise a ridere; e voleva imitare il servo, ma il suo sghignazzare pareva l'urlo d'una bestia allegra nel mese di maggio.

Allora Giovanna ebbe di nuovo paura: paura del buio incipiente, della solitudine che gravava sullo spiazzo, della compagnia di quei due uomini che il vino rendeva simili alle bestie, violenti e spregevoli. E le parve che la scomunica fosse caduta su tutti loro; sul servo che rivoltavasi ai padroni, sul figlio che insultava la madre, su lei, Giovanna, che li odiava tutti.

Zia Martina s'alzò, entrò in cucina ed accese il lume: Giovanna la seguì e preparò per la cena. Cenarono tutti assieme, e per un po' stettero tranquilli; anzi Brontu cominciò a raccontare come aveva visto la processione dalla finestra del palazzo di Giacobbe, facendo sorridere zia Martina per le pazzie che diceva, e volle accarezzare la moglie.

Ma Giovanna aveva il cuore colmo di fiele. Per lei la festa era passata più triste delle altre giornate; aveva lavorato, non era stata in chiesa, non s'era neanche cambiata di vesti; e nel solo momento che s'era permessa di recarsi nella casetta dove aveva tanto sofferto, ma dove pure aveva intensamente goduto, la avevano richiamata a urli, come si richiama un cane al canile.

Respinse quindi le carezze di Brontu, e gli disse ch'era ubriaco. Giacobbe ricominciò a ridere, ed il suo riso maledetto irritò viepiù Giovanna, viepiù offese Brontu. Costui gridò:

– Perchè ridi, cane rognoso?

– Potrei risponderti che la tua rogna è molto ma molto peggiore della mia. Però… però… voglio dirti che rido… ecco… rido perchè ne ho voglia.

– Allora rido anch'io.

– Castigati!8 – disse Giovanna con sprezzo. – Fate schifo.

Allora Brontu proruppe: non ne poteva più.

– Che hai? – chiese a Giovanna, con voce sorda. – Si potrebbe saperlo? Mi stai rompendo le tasche, sai? Io ti carezzo e tu mi insulti? Dovresti baciar la terra dove io poso i piedi, invece! Hai capito?

Giovanna diventò livida.

– Perchè? – disse con voce sibilante: – non basta che io sia la serva, qui?

– Sì, la serva. Resta dunque la serva. Che vuoi altro, femmina?

Gli occhi obliqui di Giacobbe scintillavano. Giovanna si alzò, e ritta, livida, tragica, vuotò tutto il veleno che aveva nell'anima, ingiuriando il marito e la suocera: li chiamò aguzzini, minacciò di andarsene, di ammazzarsi; maledisse l'ora che era entrata in quella casa, urlò rivelando il debito verso la sorella di Giacobbe.

Allora il servo ricominciò a ridere fra sè e sè, mormorando paroline di comico rimprovero contro la sorella: ad un tratto però tacque, cupo in viso, vedendo la figura nera di zia Bachisia apparir nel vano della porta.

Ella aveva udito sua figlia urlare nel silenzio della notte serena, ed era venuta.

– Ecco, – disse zia Martina, perfettamente calma, – vostra figlia diventa matta, a quanto pare.

Brontu, rientrato in sè, annaspava l'aria e faceva cenni alla suocera perchè si avanzasse e calmasse Giovanna; e zia Bachisia si avanzò; ma ecco Giacobbe saltar in piedi, tutto d'un pezzo, col viso contratto come una maschera d'odio.

– Via di qui! – gridò puntando l'indice verso la porta.

– Sei tu il padrone? – chiese zia Bachisia, non senza ironia.

– Via di qui! – egli ripetè, e siccome zia Bachisia avanzava sempre, le corse addosso.

Ella scappò: il servo uscì nel portico e si sedette. Si sedette e volle ridere ancora; ma, cosa strana, invece di ridere si mise a piangere convulsivamente, senza lagrime.

XIII

Il tempo continuava a passare; il cielo e la natura mutavano secondo la volontà delle stagioni, ma non mutavano aspetto le persone e le cose del paesello. In inverno Giovanna diede alla luce una bambina rachitica, livida, che piangeva sempre. Venne da Nuoro, appositamente per tener a battesimo la povera creaturina, il dottor Porru, o dottor Pededdu come continuavano a chiamarlo.

Quando egli arrivò, in carrozza, tutto intabarrato che pareva un fagotto, col visino roseo sorridente, molte persone corsero a vederlo. Egli distribuì saluti e sorrisi quanti ne vollero; a varii amici di Brontu, andati ad incontrarlo, disse di averli veduti a Nuoro, di che essi si compiacquero assai: uno però disse di non esserci mai stato.

– Fa lo stesso, – rispose il piccolo avvocato, – ci verrai anche tu.

Era un brutto augurio, perchè per lo più quegli uomini andavano a Nuoro per affari di giustizia; tuttavia l'amico di Brontu si compiacque.

Quando zia Bachisia vide l'avvocato, ritornò nella sua antica idea ch'egli assomigliasse ad una magìa; e quando il giovane si tolse il tabarro, lo scialle e le altre cose che lo involgevano, la vecchia cliente gli disse che s'era ingrassato assai.

– Questo è niente! – egli disse: e tutti risero come matti.

Il battesimo fu fatto con gran pompa. Forse unica volta in vita sua, zia Martina aveva slargato i cordoni della borsa, facendo venire da Nuoro vini e dolci squisiti; ma la notte non dormiva, ed il giorno viveva in ansiosa attenzione, per la paura che qualcuno toccasse la roba.

Il giorno del battesimo Giovanna si alzò ed aiutò la suocera a fare i maccheroni per il pranzo d'uso: poi tornò a letto, ma vi rimase seduta, appoggiata ai cuscini, con la coperta fino alla cintola, e dalla cintola in su vestita della camicia e del corsetto da sposa. Aveva anche la cuffia di broccato ed il fazzoletto da sposa; era un po' esangue, ma bella, con gli occhi più grandi del solito.

Nella camera fu apparecchiata la mensa, per la quale zia Martina trasse dall'arca le tovaglie di lino che non avevano più visto la luce dopo che erano state acquistate.

Il battesimo si fece verso le undici, una mattina freddissima e nebbiosa. Dal cielo candido cadeva, intorno intorno al paesello, un fitto velo bianco; le straduccie erano deserte, sparse di pozzanghere agghiacciate che sembravano frantumi di vetro sporco: un silenzio indescrivibile regnava sullo spiazzo davanti la casa dei Dejas, dove il mandorlo disegnava la venatura nera dei suoi rami nudi sul candore vaporoso della nebbia.

Ma d'un colpo lo spiazzo si animò; una torma di monelli infagottati in pelli e stracci, con certe cuffie rosse frangiate, con vecchie scarpe più grosse dei corpicini dei personaggi che le calzavano, si sparse per lo spiazzo; qua e là apparvero gruppi di persone, specialmente di donnine freddolose che starnutivano, tossivano e puzzavano di fumo e di fuliggine.

Apparve il corteo del battesimo.

Precedevano due bambini che sostenevano con grave importanza due ceri intorno ai quali fiammeggiavano dei nastri rossi. Poi veniva una donna che teneva fra le braccia la neonata, coperta da scialli e da un drappo di broccato verdolino simile allo stendardo di San Costantino. E poi il padrino, col suo pastrano e lo scialle bianco e nero dal quale emergeva il visetto roseo, inalterabilmente beato. La madrina, una delle figlie di zia Martina, giovine altissima dal viso lungo lungo, che pareva un'ombra di persona nell'ora del tramonto, doveva curvarsi per parlare col padrino. A fianco veniva Brontu, sbarbato, felice. Dietro seguiva un gruppo di parenti ed amici, che camminavano a passo di marcia, producendo uno scalpitìo da cavalli: ed in ultimo, freddolosa, con un vassoio sotto il braccio e le mani entro le spaccature della gonna, di tanto in tanto tirando fuori la lingua per leccarsi un umor acqueo che le calava dal naso livido, veniva la servetta della madrina.

I monelli fecero ala al corteo, aspettando, guardando avidamente il padrino. Anch'egli cominciò a guardarli, sorridendo, salutandoli comicamente.

– Da bravi, da bravi! Che cercate, animalucci invernali?

– È zoppo! – disse un ragazzo.

– Sta zitto; altrimenti non dà nulla.

Il corteo passava; il viso dei ragazzetti s'allungava: alcuni s'irritavano, altri stavano lì lì per piangere.

– Zop… – cominciò a gridare uno, ma non finì. Il padrino aveva lanciato in aria un pugno di monetine di rame. Tutti i monelli si gettarono sopra le monete, urlando, aggruppandosi, incalzandosi, pestandosi, cadendo per terra, travolgendo la servetta che cominciò a imprecare ed a distribuire calci e pugni più numerosi delle monete. La pioggia di rame ed in conseguenza l'assalto dei monelli, che crescevano sempre più di numero, proseguì fino all'arrivo del corteo alla chiesetta, dove prete Elias aspettava, scambiando qualche parola col sagrestano vestito di rosso.

Costui aveva paura che prete Elias, con la sua nota indulgenza, accompagnasse a casa la neonata, mentre nel paesello usavasi far ciò solo quando i genitori del battezzando erano uniti anche col vincolo religioso; e lo incitava ad esser severo con Brontu Dejas, coi padrini, con tutti.

– La vossignoria, – diceva, – non accompagnerà certo a casa la bambina. No. È quasi una bastarda; non deve ricevere onori.

– Va a guardare se giungono, – disse il prete.

– Non si vedono, no. La vossignoria non andrà?

– E tu andrai? – chiese il prete con un fine sorriso.

– Il mio è un altro affare: io vado per avere i dolci, non per fare onore a quella gentaglia.

Poco dopo arrivò il corteo, e la cerimonia cominciò: la bambina, appena le fu denudata la testolina calva e rossa, cominciò a piangere con un belato di capretto rauco: il padrino teneva il cero acceso e sorrideva, cercando di rammentarsi bene il Credo, perchè Giovanna l'aveva scongiurato di recitarlo coscienziosamente onde il battesimo riuscisse valido.

Quasi tutti i monelli erano penetrati in chiesa, producendo un brusìo da topi; scacciati silenziosamente dal sagrestano uscivano e rientravano. La servetta col vassoio e la donna che aveva recato la bambina sedettero sui gradini di un altare, aspettando ansiose la mancia del padrino.

Finita la cerimonia, data la mancia, rivestita la bambina, fuvvi un momento di inquieta attesa per parte di Brontu e degli amici. Prete Elias era andato in sagrestia a spogliarsi: sarebbe egli tornato? avrebbe accompagnata a casa la bambina?

Egli non tornò. Ed il corteo se n'andò alquanto melanconico, seguìto dal sagrestano trionfante, al quale Brontu aveva una pazza voglia di dare, invece dei dolci, una buona dose di calci.

La gente s'affacciava per vedere il corteo, e molti visi, specialmente di donne, sorridevano con malignità non vedendo il prete. Puh! pareva un battesimo da bastardo.

Giovanna, sebbene non aspettasse il sacerdote, si fece ancor più esangue quando il corteo invase la camera; e baciò tristemente la bambinuccia violacea, sembrandole che funerei augurii gravassero sulla povera creaturina.

– Ho ricordato il Credo dalla prima all'ultima parola, – disse il padrino. – Allegra, comare mia! La vostra bimba sarà un portento, alta come la madrina, e allegra come il padrino!

– Purchè sia fortunata come il padrino! – mormorò Giovanna.

– Ed ora a tavola! – esclamò il giovine avvocato battendo le mani. – Un bellissimo uso, questo, parola d'onore: bellissimo.

Battè ancora le mani, come si battono per richiamare i bambini; e subito tutti si misero a tavola, davanti ai maccheroni, ai quali seguì un magnifico porchetto arrostito che esalava aroma di rosmarino.

Pochi giorni dopo un avvenimento strano, però non insolito, succedeva ad Orlei.

Vicino alla casa di Isidoro Pane c'era un antico concio che il tempo aveva quasi pietrificato; strane erbe pallide, steli d'un verde quasi bianco, gramigne melanconiche lo coprivano; sembrava un rialzo qualunque e non esalava più odore.

Una sera sull'imbrunire, Isidoro Pane, mentre preparava la cena, udì del chiasso dalla parte del rialzo, – chiamiamolo così – e s'affacciò alla porticina per guardare.

Il crepuscolo era freddo, verdognolo e luminoso. Un gruppo di persone, per lo più donne, nere sull'aria limpida, s'avanzava verso il rialzo, suonando e cantando. Isidoro capì di che si trattava e andò incontro al gruppo. Le donne, una ventina tra vecchie e giovani, cantavano a mezza voce e con tono saltellante eppur melanconico, una bizzarra canzone, o meglio uno scongiuro contro il morso della tarantola, accompagnate dal suono monotono d'uno strumento primitivo, chiamato serraia, specie di cetra con la cassa formata da una vescica di maiale secca.

Un giovinetto mendicante, pallido e cieco, stranamente vestito con abiti da donna laceri e sporchi, suonava il bizzarro strumento.

Altri tre uomini si distinguevano nel gruppo, ed in uno di essi, dal volto acceso e febbricitante, con una mano fasciata, Isidoro Pane riconobbe Giacobbe Dejas.

Il pescatore si avanzò, si mischiò al gruppo, toccò con un dito la mano fasciata del servo, mentre Giacobbe lo fissava con occhi pieni di profondo terrore.

– Hai paura di morire? Per un morso di tarantola? che, che! – disse zio Isidoro sorridendo.

Le donne cantavano sempre: erano sette vedove, sette maritate e sette ragazze. Tra le vedove c'era la sorella di Giacobbe, che gli veniva a fianco, rosea e fresca nonostante il grave dolore che la opprimeva; la sua vocina sottile e stridente come il canto d'un grillo emergeva, saltellante, fremente, al di sopra di tutte.

– Egli sta male, – disse piano ad Isidoro uno degli amici che accompagnavano Giacobbe.

– Ah! – esclamò il pescatore, facendosi serio.

Le donne cantavano sempre questo strano scongiuro:

 
– Santu Pretu a mare andei,
Ses jaes nde li rughei;
E li rispondent Deu:
It' às, Pretu meu?
– A ssu pè m'at datu mossu,
A ssu coro, a ssu dossu.
– Lea s'ispina trista,
E ponebila pista,
E ponebila tres dies
Chi Petru sano sies.
Tarantula 'e panza pinta,
Chi fattesit fiza istrinta,
Fiza istrinta fattesit,
Una pro monte nde lassesit;
Una pro monte, una pro bbacu,
Mòlthu m'àsa e mòlthu t'àpo9.
 

Intanto il gruppo s'era avvicinato al rialzo; i due uomini, che erano armati di zappe, cominciarono a scavare un fosso, e Isidoro rimase vicino a Giacobbe, fra le donne che cantavano e il cieco che suonava.

Giacobbe taceva e guardava l'opera dei due amici: Isidoro invece fissava il malato; gli sembrava un altro, tanto era cambiato, col viso rosso, infiammato, solcato da una espressione di sofferenza nervosa, e i piccoli occhi, già così furbi, sotto le sopracciglia nude, velati da una puerile paura della morte. Finito l'ultimo verso, le donne ricominciavano dal primo, e il suono della strana cetra ripigliava il motivo stridente e monotono, che assomigliava al ronzio di molte api volanti.

Aliti di vento gelato venivano dal lucido occidente, passando come lame taglienti sul volto delle persone radunate sul rialzo: il cielo era d'un azzurro violaceo, ma calava e stendevasi verdognolo come un lago dove il sole era scomparso. Una tristezza immensa riluceva nel freddo crepuscolo, sull'altipiano già nero, sul paesello nero, su quel gruppo di persone nere che compievano un rito superstizioso con fede da selvaggi idolatri10.

I due uomini scavarono il fosso con alacre ardore; la terra veniva su nera, mista d'immondezze fracide, di cocci, di stracci: i due scavatori se la rigettavano sui piedi, sulle gambe; salivano sul mucchio, si curvavano sempre più, ansavano, sudavano, mentre le donne cantavano e il cieco suonava.

Scavato il fosso, Isidoro e zia Anna-Rosa, la cui boccuccia non cessava di aprirsi rotonda per emettere quel sottile e dolente canto di grillo, aiutarono il malato a togliersi il cappotto; poi lo presero per mano e lo condussero vicino al fosso. Egli vi saltò dentro d'un colpo. Spingendola con le mani, i due scavatori rimisero la terra entro il fosso, e Giacobbe rimase sotterrato con la testa in fuori.

Allora, intorno a quella testa, che pareva spiccata da un corpo e deposta per terra, su quel rialzo di immondezze, dove le erbe tremavano al vento come pervase da un brivido di angoscia, sotto il cielo immensamente triste, accadde una scena indescrivibile. In un attimo, mentre uno degli scavatori s'asciugava la fronte passandovi il braccio, e l'altro batteva le mani per togliere la terra che vi era appiccicata, le donne si disposero in cerchio attorno alla testa di Giacobbe, e fecero un giro di danza cantando sempre il loro scongiuro. Il cieco suonava, pallido, impassibile, con gli occhi bianchi rivolti ad un vuoto orizzonte. Tutto ciò durò cinque minuti, dopo i quali le donne cessarono di ballare, disfecero il cerchio, ma continuarono a cantare. I due uomini e Isidoro si gettarono per terra, e con le zappe e con le mani, in pochissimo tempo, dissotterrarono Giacobbe. Egli risorse, con le vesti piene di terra, il collo e il viso pavonazzi. Era tutto sudato e disse che gli era parso di soffocare. Si scosse tutto e introdusse un braccio, poi l'altro, nelle maniche del cappotto pórtogli dalla sorella.

– Ebbene, tu non morrai, uccellino di primavera! – gli diceva Isidoro, scherzando. Ma l'altro rimaneva cupo: il vento freddo gli aveva gelato il sudore, ed ora il suo viso s'era fatto pallido e i denti gli battevano forte. S'avviarono alla casa di zia Anna-Rosa, e Isidoro, che aveva completamente scordato la sua cena, seguì la strana compagnia.

– L'hai tu uccisa? – chiese al malato, ricordandosi che chi uccide la tarantola col dito anulare conserva la virtù di guarirne il morso col solo tocco dello stesso dito.

– No, – disse Giacobbe. Poi, fra il suono della cetra ed il canto delle donne, con poche parole incisive raccontò la sua disgrazia. – Io dormivo. Sento una puntura, come di vespa. Mi sveglio sudato. Ah, mi aveva punto; mi aveva punto la tarantola vile! La vidi io con questi occhi; ma era sul muro, già lontana. Ah, che il diavolo ti morda, mala femmina! E son tornato. Sentite, io ho paura di morire. È da tanto tempo che ho paura di morire.

– Noi morremo tutti, quando sarà giunta l'ora, – disse gravemente Isidoro.

– Sì, morremo tutti, – confermò uno degli amici. Ma ciò non confortò Giacobbe Dejas.

8.Scemi.
9
San Pietro al mare andò,Le chiavi dentro gli caddero;E gli risponde Dio:– Che hai, Pietro mio?– Al piè mi ha morsicato,Al cuore, al dorso.– Prendi la spina triste  (ispina trista o santa, della quale si fece la corona di N. Signore: le foglie di questa pianta in Sardegna sono dal popolo usate per medicamenti)
E mettitela pesta,E mettitela tre giorni,Talchè, Pietro, sii sano. —Tarantola del ventre dipinto,Che fece figlia stretta,Figlia stretta fece,Una per monte ne lasciò,Una per monte, una per valle,Ucciso m'hai e t'ho ucciso.

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10
  C'è un principio scientifico in questa strana usanza di sotterrare in un concio o di introdurre in un forno tiepido i morsicati dalla tarantola, il cui veleno produce una specie di intossicamento che si può scacciare facendo sudare abbondantemente il malato. Il sotterramento, i cattivi odori provocanti la nausea, il caldo del forno, fanno senza dubbio sudare il malato, ma il popolino, dimenticato il principio scientifico per la superstizione, converge in male ciò che forse un tempo riusciva in bene. Il caso qui riprodotto mi fu narrato come realmente avvenuto e pur troppo non unico.
G. D.

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Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
11 августа 2017
Объем:
220 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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