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Читать книгу: «Mater dolorosa», страница 16

Gerolamo Rovetta
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XXIII

Lalla e il Vharè s’erano data l’intesa di ricongiungersi a Borghignano nella prima domenica di giugno. In quella sera, per solennizzare la festa solita dello Statuto era stato disposto un gran concerto di beneficenza al teatro dell’opera. Lalla vi sarebbe intervenuta, Giacomo pure, e così si sarebbero incontrati naturalmente, senza che Giacomo dovesse correre il rischio di aspettare due o tre giorni per non destar sospetti, con una visita troppo sollecita in casa Della Valle.

Era la prima volta che accadeva al Vharè di fare un viaggio per celebrare la festa dello Statuto e per assistere ad un concerto di beneficenza. Egli, per altro, quantunque fosse il primo a riderne in cuor suo, godeva assai tutte quelle sensazioni intime e misteriose: gli pareva di ritornare giovine e di ricominciar allora la vita con una nuova provvista di poesia. La diva, infatti, che si era accorta del suo raffreddamento, aveva accettata una scrittura per l’estero, e Giacomo ne sentì più sollievo che dispiacere; le cose lunghe diventano serpi, e quell’amore filarmonico durava da tre anni, il che vuol dire nove stagioni d’opera all’incirca, e col repertorio limitato del contratto, egli ormai aveva fatto un’indigestione di Preziosille e di Azucene!… Poi la nuova passioncella di Giacomo era piena di tirannie gelose e prepotenti. L’amore schietto, sincero, che gli si donava con prodigalità spensierata, lo aveva sempre lasciato libero, padrone di sè; invece quella voluttà, avara, paurosa, piena di reticenze e di restrizioni, lo preoccupava e lo dominava continuamente. Giacomo di Vharè non aveva un’idea esatta dell’onore e nemmeno della virtù; perciò confondeva la civetteria degli atteggiamenti ingenui e fanciulleschi cogli scrupoli del dovere e della verecondia.

In buona fede, egli pensava fra sè e sè che gli avveniva allora, per la prima volta, di amare una donna e di poterla stimare: e quell’uomo cinico, beffardo, corrotto, che al mondo aveva una sola religione sincera, un solo affetto che non fosse una colpa, la memoria di sua madre, per la prima volta, accanto a quella memoria santa e adorata, collocava un’altra immagine di donna: la figuretta gentile della cara bambina.

La presenza del marchese di Vharè al gran concerto di Borghignano non fu l’avvenimento meno importante di quella memorabile serata. I commenti furono innumerevoli, variate e fantastiche le interpretazioni. Gli uni assicuravano che il marchese, rovinato completamente, era venuto a Borghignano per la liquidazione definitiva del suo patrimonio; gli altri giuravano invece ch’egli aveva vinto a Monte Carlo somme favolose, e che appunto tornava in patria, sempre amante delle novità, per pagare i propri debiti. Chi lo faceva ammogliato segretamente colla diva Soleil, e chi lo fidanzava ad un’americana arcimilionaria, la quale voleva metter su casa a Borghignano, per darvi grandi pranzi e grandi feste nel carnevale.

Tutti, però, gli furono d’attorno, con dimostrazioni di simpatia e di rispetto; e fra le strette di mano e le larghe scappellate, i – buoni provinciali – lo squadravano da capo a piedi, con una maraviglia curiosa e pettegola. Il maggiore dei fratelli Tangoloni de Lastafarda, che ci teneva molto a darsi l’aria del viveur consumato nelle orgie e nelle bische, mentre, invece, tutta la sua dissipazione si riduceva nella perdita di qualche partita al bigliardo od al tresette, lo prese sotto il braccio e lo accompagnò nel palchetto dei nobili, affettando con lui una dimestichezza da compagnone, e l’erre aristocratica. Lì dentro, non gli lasciarono prender fiato, ma in due o tre, toltogli di mano il cappello, a viva forza lo trascinarono nel camerino, dove, tutti insieme, gli offrirono thè, vino, dolci e sigari. Fortunatamente, a sollevarlo da quello zelo soverchio, capitò in buon punto il presidente del teatro, un vecchietto lindo, lindo, tinto e profumato come una saponetta, che volle condurlo sul momento a visitare i ristauri del palcoscenico, e la nuova rampa del gaz, fatta costrurre apposta sul disegno di quella della Scala di Milano.

Quel buon vecchietto vagheggiava un’idea ch’era ad un tempo il sogno della sua vita e l’orgoglio della sua carica: ottenere, per una stagione d’opera, la diva Soleil al teatro di Borghignano. Per questo motivo faceva la corte al Vharè, e sentiva per lui un misto di invidia e d’ammirazione.

Quando ritornò nel camerino dei nobili, il Vharè cominciò a lodare le innovazioni del palcoscenico, la ricchezza dell’illuminazione, la bellezza e il buon gusto delle signore di Borghignano, e notò che i cori erano meno stonati dei cori dell’Apollo. – Insomma, voi altri qui a Borghignano – concluse – sapete far le cose per bene. Si direbbe di essere in una piccola capitale!… – Allora ricominciò l’assalto col vino, coi sigari e col thè. Giacomo ebbe anche l’amabilità di trovare il thè delicato e il vino squisito. Il direttore-economo del palchetto, sensibilissimo agli elogi, si fece avanti, per raccontargli che il vino lo aveva comperato all’ingrosso, tenendolo in serbo per le varie occasioni; che lo aveva pagata un franco e cinquanta al litro, mentre Tangoloni de Lastafarda, quando era economo lui, prendeva del Bordeaux nazionale, a due lire la bottiglia, che invece di cavare la sete, bruciava la gola. I giovani bontemponi a questa scappata sghignazzarono; il marchese (lo chiamavano tutti marchese, anche i più accaniti nel contrastare a Giacomo l’autenticità del titolo) sorrise appena, vedendo che lo scherzo non era stato bene accolto dal Tangoloni; poi, continuando a parlare colla sua verbosità facile ed elegante di teatri, di politica, di Monte Carlo, si avviò nel palchetto, seguito sempre dalla brigatella, e colla scusa di voler sentire l’Ave Maria di Gounod, che l’orchestra aveva appena incominciata, si mise a filare con Lalla. Il Tangoloni e gli altri, approfittarono del momento per esaminarlo di sottecchi, studiandone il taglio dell’abito e il nodo della cravatta. Il Vharè portava i capelli corti, all’inglese; e il giorno dopo il parrucchiere dei lions di Borghignano aveva da tagliare una decina di zazzere!…

Giacomo si sentiva di buon umore, ed era contento di Borghignano ed anche di quei giovanotti. Pareva che la duchessina, dal suo palchetto, diffondesse una luce che gli tingeva tutto color di rosa. Egli l’aveva veduta subito, appena entrato in teatro; ma, per un senso quasi di timidità, in lui affatto nuovo, aspettò qualche momento prima di fissarla col cannocchiale.

Lalla, seduta in faccia a Prospero Anatolio, voltava le spalle all’orchestra: tutta bianca, avvolta nei veli e nelle trine, spiccava dal palchetto, come sul fondo scuro d’un quadro. Senza adornamenti al collo e alle orecchie, senza un nastro, senza un fiore, senza neppure una gemma nel caratteristico disordine dei capelli biondi, volgeva attorno quei suoi occhi cangianti, come il colore del mare, con una tranquillità soave. Eppure quantunque il giro del suo sguardo avesse una meta prefissa, non si fermava punto al palchetto del Vharè, ma passava via lentamente, per ritornare un’altra volta, rifatto un altro giro, coll’orbita determinata di una stella. Quando vide Giacomo apparire nella barcaccia dei nobili, con quell’aria elegante che lo faceva somigliare ad un principe che viaggiava incognito, Lalla non arrossì, non si turbò affatto, non si lasciò sfuggire dagli occhi uno di quei lampi fugaci che tradiscono l’amore, ma adagio adagio, cominciò a giocherellare col ventaglio chiuso, segnale convenuto per avvertirlo di non andarla a salutare in palco quella sera: poi lo aprì e lo richiuse tre volte, indicandogli con quest’altro avviso che l’indomani lo aspettava a casa; tutto ciò, ella fece, senza mutare d’una linea il suo atteggiamento raccolto, composto, sempre colla testina bassa, con alcun che di verginale e d’immensamente dolce nell’aspetto. Ella sembrava un essere etereo, vaghissimo, che non respirasse dalla bocca socchiusa l’aria calda, pesante della sala, ma solo quella musica divina dell’Ave Maria che le alitava intorno mesta come un lamento, appassionata come una preghiera.

Il Vharè, che dopo il primo cenno del ventaglio si era fatto un po’ pensieroso, al secondo si tranquillò di nuovo. Certo Lalla, potendolo ricevere in casa il giorno dopo, preferiva quella visita ai saluti diplomatici in teatro; e siccome egli capiva bene, che non avrebbe potuto visitarla la sera in palco e l’indomani subito in casa, senza commettere un’imprudenza, così l’approvò contento, col cuore in gioia.

Vicino al palchetto della contessa Della Valle c’era quello della duchessa d’Eleda, La mamma, lo dicevano tutti, si conservava bene, ed era ancora bella, più bella della figliuola, la quale, in compenso, era generalmente più simpatica. Maria, pallidissima, era di un’eleganza severa, matronale: – se pure destava l’ammirazione, fermava, agghiacciandolo, qualunque desiderio.

– La d’Eleda è sempre uno splendore! – esclamò ad un tratto il Vharè.

– Sfido io, – rispose un socio della barcaccia, che ci teneva a fare il freddurista – si conserva nel ghiaccio!

– Io però preferisco la Della Valle, – interruppe un terzo; – non è una bellezza come sua madre, ma è assai più piccante.

– Voi, caro Vharè, dovete averla conosciuta a Roma?

– Sì, andavo da lei, il sabato sera.

– Aveva parecchi adoratori, dicono?

– Abbastanza, perchè non si potesse sospettare di nessuno.

– Guardate la duchessa, com’è pallida, – osservò il più giovane dei Lastafarda. – Ho paura che sia vero ciò che mi ha raccontato mio fratello.

– E che cosa ti ha raccontato?…

– Che ha un principio di mal sottile.

– Se lo ha davvero, è tanto sottile che non si vede, – sghignazzò il freddurista dopo di averla fissata anche lui col cannocchiale.

Il Vharè guardò nuovamente Maria; ma non era più tanto pallida: vicino a lei discorreva, seduto, il conte Giorgio Della Valle. Giacomo, vedendolo appena, non pensò ad altro, si alzò, e salutati e ringraziati gli amici della barcaccia, andò diffilato verso il palco della d’Eleda.

Da uomo pratico, non voleva che gli scappasse l’occasione d’incontrarsi con Giorgio in un terreno neutro e così di rompere il ghiaccio, per il suo ritorno inaspettato.

La duchessa accolse il Vharè colla cortesia un po’ fredda che le era abituale; Giorgio, invece, gli dimostrò una sostenutezza molto significante; ma, tuttavia, il Vharè non si perdette d’animo; cominciò a discorrere di Gounod, di Borghignano, della crisi ministeriale, rivolgendosi ora a Prospero Anatolio, ora alla duchessa, senza mai parlare direttamente con Giorgio, per non essere costretto a notare la sua freddezza.

Solamente quando Giorgio si alzò per congedarsi, egli lo pregò di presentare i suoi omaggi alla contessa Della Valle.

Giorgio gli rispose con un grazie, con un leggero inchino, e uscì.

Intanto, Prospero Anatolio che alle prime parole del Vharè sulla crisi ministeriale si era sprofondato, sospirando, ne’ più gravi pensieri, non ebbe agio di notare il contegno di suo genero, e Maria… povera Maria!… era così commossa, da non capire quello che le dicevano gli altri, e quasi, da non sapere nemmeno ciò che agli altri rispondeva lei stessa. Il cuore le batteva forte, con violenza dolorosa; brividi ghiacciati le correvano per le ossa, mentre una fiamma calda le bruciava la faccia. La sala del teatro, che pareva un vasto selciato di teste, e la curva dei palchetti luccicanti come punti bianchi, gialli, verdi, le giravano d’attorno con vertigine affannosa.

Il malumore del conte Della Valle, quantunque dagli altri due inavvertito, a Giacomo, in sulle prime, riempì l’animo di dubbi e d’inquietudini; ma poi pensò, che se fossero successe novità, Lalla non gli avrebbe certo fatto segno di andare da lei l’indomani, e per questo si acquetò interamente. Terminato lo spettacolo, senza aspettare l’uscita della duchessina dal teatro, si avviò verso casa: un quartierino mobiliato ch’egli teneva a pigione, e che durante le sue lunghe assenze affidava alla custodia d’un vecchio servitore di sua madre.

L’indomani, alle due, il marchese di Vharè domandava al portiere dei Della Valle, se la contessa era in casa, e se poteva riceverlo.

– È in casa di certo, ma non so se riceve.

– Andate a vedere.

Il portiere uscì nella corte e suonò un campanello, che fece spuntare la testa d’un servitore alla vetrata della galleria del primo piano.

– La padrona riceve? – gli gridò il portiere.

– Non so. Bisogna domandarlo ad Andrea.

Il portiere andò in cerca di Andrea, il quale ne chiese alla cameriera e finalmente, dopo un quarto d’ora, il Vharè fu accompagnato e introdotto dalla contessa.

– Se ogni volta che io vengo da lei – pensava Giacomo nel salire le scale – si mette sossopra tutta la casa, sarà più prudente che venga lei da me!…

Passò per un lungo quartiere, dove le sale dai mobili e dagli arazzi antichi si succedevano le une alle altre, larghe, alte, silenziose. I vetri delle finestre e le gelosie ermeticamente chiuse, le tendine calate, impedivano all’occhio del visitatore di notare i capolavori d’arte colà dentro raccolti.

A Giacomo pareva di attraversare un androne buio, interminabile, spirante un’auretta fresca e profumata. D’un tratto il servo si fermò, e sollevando con la mano la tenda di una portiera, inchinandosi fe’ cenno al Vharè di accomodarsi in un salottino dove c’era ancora più buio che nelle altre sale. Giacomo entrò, ma poi si fermò su due piedi, aspettando che gli occhi si abituassero nell’oscurità. Allora un’onda odorosa lo avvolse, e mentre udiva ancora il passo del servitore battere chiaro e secco, a mano a mano che si allontanava, sul pavimento intarsiato delle sale, sentì dappresso il fruscìo di una veste e proprio di contro a sè distinse la bianca personcina di Lalla che, allungate le braccia, gli allacciava il collo, fissandolo amorosamente, il capo arrovesciato, mentre i capelli le cadevano sul volto, sulle spalle, e coprivano le mani di Giacomo, che la tenevano sollevata.

Così, avvinti l’uno all’altra, Lalla camminando all’indietro, Giacomo accompagnandola un po’ curvo, strascicando co’ piedi, per ischivare le vesti, si avvicinarono ad un piccolo canapè e vi caddero insieme, a sedere.

– Finalmente sei qui!… – disse Lalla con un filo di voce insinuante, chinando, abbandonando il capo sul petto di Giacomo, che senza dir nulla, respirava appena, colla bocca immersa nei capelli biondi odorosi.

Tacquero lungamente: lei tranquilla, felice, fremendo dal corpicciuolo esile, flessuoso, scosse di voluttà, compendiate in un lungo sospiro; Giacomo pallido, commosso, fatto timido e rispettoso da un abbandono così ingenuo e così sicuro.

Fu Lalla a parlare per la prima: Giacomo le rispondeva soltanto con monosillabi, quasi inintelligibili. Quello della cara bambina era un discorrere sommesso e appassionato; era un’anima che traboccava tutta in un’altra anima.

Intanto, la vista abituandosi là dentro a poco a poco, vi si diradavano le tenebre. Già si distinguevano benissimo alcune pianticelle di gardenie, poste sopra due sgabelli dorati, di fianco all’uscio, che lentamente chinavano la testina bianca, per udire che cosa mai si dicevano quei due, così a bassa voce. Si scorgevano i tulipani, di cui era fitto un panierino, collocato fra le tende nel vano della finestra, allungare il collo; i garofani sbocciare dalla curiosità; le azalèe, raccolte in una coppa di bronzo sopra una colonnetta, in uno degli angoli del salotto, aprire, per ascoltar meglio, i loro petali vermigli, mentre da una coppa intarsiata, che pendeva giù dal soffitto, una campanula indiscreta si abbassava allungandosi, più delle altre, per intendere quel linguaggio nuovissimo, che, nel silenzio profondo della stanzetta, mormorava misteriosamente come le note di un’armonia lontana. Ma tutti quei fiori freschi e fragranti, testimoni e complici ad un tempo di quelle ebrezze, non riuscivano a capir nulla. Soltanto un giglio il quale aveva perduto un simbolico candore dell’innocenza, per farsi rosso come il mantello del diavolo, pettegolo, sfacciato, ghignando e mostrando dalla bocca enorme spalancata la sua linguetta viperina, contava ad un mazzo di petunie che que’ due, seduti là, così vicini, facevano all’amore.

– Come ti voglio bene, Nino mio! – diceva Lalla. – Ho pensato sempre a te, sai, continuamente, in tutti questi giorni. Quando ti allontani da me, mi sembra che tu ti porti via la mia anima, qui dentro, in questo taschino, sul cuore; – e Lalla scherzava colle dita in un taschino del gilet di Giacomo. – Allora me ne vado tutta sola nella mia camera, e sto per ore ed ore sdraiata in una poltrona, fingendo di dormire per non essere seccata. Ma non dormo affatto, sai, no; chiudo gli occhi per vederti. Se tu sapessi come ti vedo bene, col tuo bel viso serio e pallido; come ti vedo bene certe volte, col tuo sorriso cattivo, ma che a poco a poco diventa dolce, melanconico, diventa carino carino… così, come adesso!… Mi piaci tanto così, e mi sento tanto felice, perchè mi sembra di essere io quella che ti fa diventare più buono. – Che cosa sono io, per te?… Dimmelo. Giacomo la guardava sorridendo, e taceva sempre.

– Ditelo subito, subito! – E Lalla aggrottava le ciglia in tono imperativo, con una grazietta incantevole.

– Sei il mio angelo.

– Non hai detto – angelo – alle altre?… mai?… mai, Nino mio?

– No… ma…

– Che cosa ma?

– Volevo dire che… lo saresti un po’ più, se tu lo fossi un po’ meno. Mi spiego?

– Sta zittino… subito!… non si dicono queste brutte cose! – Le pareti hanno le orecchie e gli occhi, qui dentro: badaci.

– Ascolta, cara! l’appartamento è così lungo… mezz’ora prima si sentirebbe camminare sui parquets, se capitasse qualcuno.

– Se capitassero visite!… Ma la Giulia? il papà, che è in casa nostra tutto il giorno? la mamma? (se lo sapesse, sai, colla sua severa morale, Dio Dio che spavento!…) e Giorgio?… Possono entrare improvvisamente da una porticina segreta, che ti farò vedere nella stanza qui appresso. E… ci sta bene, pare, quella porticina, se no, lei non avrebbe giudizio!

– A proposito di… di tuo marito: ieri sera ci siamo incontrati, nel palco della duchessa, e l’ho trovato molto sostenuto con me. Che cos’ha?

– Non gli sei simpatico, te l’ho detto, e, siamo giusti, non ha tutti i torti. Non gli sei simpatico, no, no, no! Ti tollera per un riguardo alla mamma, dice lui, ma, in fondo, credo che gli manchi il coraggio d’impormi di metterti alla porta. Oggi è andato in campagna, tornerà stasera e, spero, non saprà che sei venuto, così potrai ritornare più presto. Volevano che ci andassi anch’io in campagna; ma mi sentivo poco bene – per andare in campagna, s’intende! – Non ho detto bugie però, sai, la testa mi doleva davvero, – Quando iersera a teatro t’ho fatto segno col ventaglio di venir qui, sei stato contento?… Sì?… davvero davvero?… Fosti ben poco gentile, sai: dovevi almeno mandarmi un bacio, per ringraziarmi! Come sarebbero rimasti sorpresi, di’, se ti avessero veduto colla tua serietà diplomatica a mandarmi un bacio dal palchetto!… – E Lalla, a questa idea, che le pareva molto ridicola, rise di cuore, coll’allegria schietta di una bambina senza pensieri e senza rimorsi.

– Ma se… se non… se quell’altro non c’è?… Allora?… – Giacomo, distratto, non ascoltava bene ciò che Lalla gli diceva.

– C’è la Giulia, t’ho detto, e poi, da un momento all’altro, aspetto la mamma; anzi c’è da stupirsi che non sia ancora venuta. A proposito, dimmi la verità, ma la verità vera, non t’è mai saltato in mente di far la corte alla mamma?

– No, mai.

– Giura!

– Giuro.

– Che bel fiascone avresti fatto! – E Lalla, battendo il palmo della manina sulla bocca aperta si pose a dirgli la baia.

– Lo credo; ma non ho mai pensato di tentare.

– Perchè?…

– Perchè… non so, è una bella donna, pure…

– Oh! certo, più bella di me, non è vero?

– Tu mi piaci molto di più!

– Perchè ti piaccio di più?

– Perchè mi fai sentire nel cuore, nel sangue, ciò che non provo affatto vicino ad una donna bellissima, anche più bella di te.

– Che cosa ti faccio, sentire, Nino?

– Sei terribile!… non credi, Lalla?

– Cattivo!…

– E la Giulia, dunque, anche qui come a Roma? Sempre fra i piedi.

– Sempre.

– Quando è arrivata?

– L’altro giorno.

– Che seccatura! Ci fosse almeno un cane che la sposasse!

– Adesso si tenta esplorando la provincia; ed io devo godermela a tutto pasto.

– Perchè ti accomoda!

– Sei carino!… Sono io, vero, che comanda? Oh, se potessi fare a modo mio, almeno un giorno!… – E Lalla sospirò con la rassegnazione della vittima.

– Tu, per altro, avresti potuto liberartene con qualche scusa.

– Non sei contento di me?

– Niente affatto. – Così dicendo, Giacomo si alzò imbronciato, lasciando Lalla sola sul canapè e andò a guardare alla finestra.

– Vedi, come sei? – mormorò Lalla, con una vocina piena di lagrime. – Vedi come sei? Io mi ero fatta una festa pensando di stare un’ora con te – io e te, soli, finalmente! – dopo tanti giorni che non ci vedevamo; ho preparato quest’ora, tutta nostra, con mille noie, con mille artifizi, che tu bene sai quanto mi costino, col mio carattere… Ero così contenta, così allegra, e tu adesso… guasti tutto! Ma, per altro, mi vendicherò, non dubitare! Avevo una bella cosa da dirti, e invece, non te la dirò, ecco, perchè sei proprio cattivo, cattivo, cattivo!

Giacomo non potè resistere, – con Lalla non sapeva lottare – e allora, pensando che per una volta nella vita si può essere anche ragazzi, a prezzo di tante e così nuove seduzioni, ritornò a sedersi vicino a lei.

– Sentiamo.

– No.

– Che cos’ha da dirmi?

– Nulla. – Adesso era Lalla che faceva il muso; un musino incantevole.

– Parla, andiamo; sarò buono, sono buono; a costo di essere… un imbecille!

– No… No!… Vada… Vada all’estero, raggiunga la diva; quella non ha scrupoli, e non lo rende ridicolo!

– Perdonami!… Ti domando; perdono!… Che hai da dirmi?… – Lalla tenne ancora il musino, per un momento, ma poi fissò Giacomo, sorrise, gli si avvicinò di nuovo e passando un braccio sotto quello di lui, colla testina bassa, gli disse pianino pianino, giocando con una mano colla catenella dell’orologio del Vharè:

– Mi confesso, non è vero?…

– Sì… sì…

– Ebbene… quando ti ho lasciato a Roma ho pensato fra me: adesso bisogna fare un esperimento… Sai bene?… il rimorso…

– E che hai pensato?

– Ho pensato: se in questi giorni sento di poter vivere sopportabilmente, senza di lui, se riesco qualche volta a dimenticarlo, a non averlo sempre così vivo dinanzi agli occhi, allora.... allora quando egli arriva a Borghignano, non mi lascio più vedere.

– Brava; benissimo!

– Mi confesso, dunque devo dire tutta la verità. – Allora pregherò Giorgio di condurmi via l’estate senza dir dove; Giacomo pure mi dimenticherà, ed io potrò ritornare buona, potrò ascoltare i consigli della mamma e potrò vivere senza rimorsi. Pur troppo invece…

– Invece?…

– Invece ho capito che…

– Che cosa?

– Ho capito di volerti più bene… di quanto credevo! Giacomo la serrò stretta sul cuore: Lalla si allungò, quasi strisciando, e gli baciò la bocca.

Erano i primi baci ch’ella gli dava; ma adesso non aveva paura di lui, sapeva di dominarlo bene e ci si arrischiava. Di più, Lalla, sentiva ancora sulla propria bocca il contatto delle labbra viscide di Pier Luigi e le pareva, così, di cancellare quell’impressione disgustosa. In quei giorni si era anche facilmente persuasa che il bacio non era poi questo gran peccato, se uno zio non si peritava di darne alla moglie di suo nipote.

Cominciarono gli addii: Giacomo sarebbe ritornato tre giorni dopo, se quell’altro non ne avesse saputo nulla: già lei, onde prevenire le domande, si era abituata a contargli sempre chi c’era stato a farle visita; e perciò, anche se ne dimenticava qualcuno, non era questo – un mentire!

Prima che il Vharè se ne andasse, prima di mandarlo via ebbe un altro trasporto di tenerezza e di abbandono:

– Vedi, Nino, – gli diceva, – se tu lascerai che io ti ami sempre così, senza voler urtare contro certe mie idee, allora ti vorrò ancora più bene, e te ne sarò riconoscente con tutta l’anima!… Di’, Nino, non siamo più tranquilli, più contenti, più felici?… Il poter pensare l’uno all’altro senza arrossire, è pure una gran consolazione, sai? E poi, per me, vedi, c’è un’altra cosa che mi consola, che è una grande parte del mio amore, quella di non essere costretta a rinnegarlo dinanzi a Dio! Se tu sapessi la gioia che io provo quando prego per te e se… se invece… capisci?… allora non potrei più pregare e certo qualche grande sventura ci colpirebbe, forse… sarebbe tutto scoperto… e non potrei vederti mai più!… E tu?… Tu non preghi, non è vero?…

Giacomo sorrise, ma si sentiva un po’ commosso.

– Tu non pregheresti nemmeno per me?… Tu non credi?… Cattivo! Come sarei beata, orgogliosa, se un giorno potessi riuscire a farti credere!

Il marchese di Vharè uscì da quella casa ringiovanito. Gli pareva che gli fosse tornata la gioventù del cuore, e si sentiva la coscienza soddisfatta per aver risparmiata quella donna. – Aveva tanto candore e gli era tanto cara!… Certo che… un giorno o l’altro… non voleva essere ridicolo; ma perchè si sarebbe affrettato a distruggere tutto l’incanto di quell’abbandono lento del cuore e dei sensi che, a poco a poco, avrebbero vinta la ragione… e il timore?… Alla fine poi non poteva lamentarsi; progressi ne avevano fatti!…

Era proprio vero che la duchessina a Borghignano amava molto di più, o amava meglio, il Vharè, di quanto non lo amasse a Roma. Ma se a Roma il marchese di Vharè non rappresentava che un episodio della vita elegante di Lalla, a Borghignano, invece, ne formava l’argomento principale. In quella sua vita quieta tranquilla, senza distrazioni, Lalla ricordava Giacomo più spesso, lo vedeva in quel mondo meschino, lillipuziano, apparire ancora più diverso e più attraente degli altri. Per tutto ciò, ella gli voleva anche più bene o, per lo meno, credeva di volergliene di più. E poi, a Borghignano, la duchessina si annoiava, e quando una donna sbadiglia, il diavolo, dice un proverbio spagnuolo, le entra per la bocca e le va diritto sino al cuore.

Lalla era di gusto fine, delicato; aveva il temperamento e i nervi aristocratici; per ciò, la corruzione profonda, ma raffinata, del marchese di Vharè, si rivestiva agli occhi suoi di nuove attrattive al confronto delle marachelle democratiche e trivialucce dei giovani – provinciali – di Borghignano, le quali consistevano nell’andare a cena colle coriste e le ballerine sudice e sbilenche, nell’ubriacarsi rumorosamente col vino da fiasco o colla birra, nel rovinarsi, a poco a poco, ai tavolini delle trattorie e colle carte nostrane, senza il lusso e l’effetto drammatico di una bella catastrofe rumorosa.

A Borghignano il fior fiore dell’aristocrazia mascolina era rappresentato dai fratelli Tangoloni de Lastafarda, che godevano molto credito ed erano molto invidiati perchè si vestivano a Milano, perchè avevano amici a Milano, perchè partivano per… o arrivavano da Milano, ogni altro giorno. Erano sempre insieme, questi due. vestivano collo stesso taglio e colle stesse stoffe dello stesso colore, all’inglese, ed erano cretini, tutti e due, alla Nazionale. Il più giovane certo, aspettando il suo turno, faceva intanto da moretto al maggiore. Il maggiore dei Tangoloni diceva una qualche spiritosaggine? Il minore correva a ripeterla nei salotti e nei palchetti. Il maggiore faceva la corte ad una signora?… Il minore, in segretezza, spifferava la gran notizia a tutta Borghignano, e spesse volte, per l’onore della famiglia, aggiungeva di suo. Tangoloni seniore parlava col prefetto? Allora Tangoloni iuniore andava raccontando al club e al caffè: – mio fratello discorrendo col prefetto lo ha consigliato a… – oppure: – il prefetto, trovandosi con mio fratello, gli ha confidato che… – e così via, di seguito. Del resto i Lastafarda erano ricchi, di buona nobiltà, e a Borghignano dittatoreggiavano senza accordare punto costituzioni; e il novellino, che stava lì lì, titubante e desioso per ispiccare il primo volo nel bel mondo, doveva sottostare al noviziato, entrare nel seguito dei Lastafarda ed aspettare che uno dei due fratelli lo prendesse a braccetto trattandolo() col – tu: – fatto, codesto, col quale a Borghignano, dalla mattina alla sera, si passava dalla plebe all’aristocrazia, dalla gente ordinaria alla compagnia dei nobili.

Un altro astro di primo ordine era rappresentato dal marchese di Toscolano, nobile come Bajardo, spiantato come San Quintino; costui non aveva che una passione, ma sfrenata, quella dei cavalli. Passione divisa, del resto, da tutta l’aristocrazia genuina o assimilata di Borghignano, che sapeva a memoria la vita ed i miracoli di tutte le rozze sfiancate che passavano sotto i brum. Il marchese di Toscolano aveva un cavallo solo, in scuderia, e gli aveva messo nome Adamastor, mentre sarebbe stato meglio battezzarlo Bortolo o Pasquale, per la sua andatura lenta e monotona, che gli dava l’aria pacifica e rassegnata d’un vecchio impiegatuccio a milletrecento, che trotterella, curvo e striminzito, da casa all’ufficio.

Il Toscolano non faceva nient’altro, in tutto il giorno, che visitare le varie scuderie degli amici, e così, qualche volta, dalla corte passava al piano nobile a salutare le signore, sempre con gli sproni agli stivali, i calzoni scamosciati, lo scudiscio in mano e, tutt’intorno, un puzzo da mozzare il fiato.

Il marchese aveva poi un’abitudine, che ingenerava molta confusione: i cavalli, i cocchieri e le signore chiamava soltanto col nome di battesimo: Adamastor, Dirce, Vandalo, Fanny, Sandro, Cecco, Toni; l’Ippolita, la Jenny, la Norina.

Un altro bell’originale era Gianni Rebaldi, un omaccione sulla cinquantina, con una gran zazzera bionda, ritinta, spaccone scempiato, e sussurrone fastidioso, coll’aggiunta di una velleità seccante, quella di ostinarsi, col mezzo secolo in groppa, a voler fare il ganimede e il giovinottino che cerca moglie.

Gianni Rebaldi aveva trascorso a Bologna la prima e la seconda gioventù, divorandosi tutto il patrimonio fino alle ultime briciole e, adesso, a Borghignano, coll’aiuto delle signore, ripristinava, per suo proprio conto una specie di diritto d’asilo. Egli sfuggiva dalle persecuzioni dei creditori insediandosi, per mezze giornate, in un salotto o in un altro, discorrendo delle avventure di Bologna, delle feste di Bologna, delle signore di Bologna, tutto di Bologna, accapigliandosi sovente coi due Lastafarda, i quali pretendevano, invece, che a Milano, soltanto a Milano, vi fosse tutto il bello e tutto il buono del mondo.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
500 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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