Читайте только на ЛитРес

Книгу нельзя скачать файлом, но можно читать в нашем приложении или онлайн на сайте.

Читать книгу: «Mater dolorosa», страница 13

Gerolamo Rovetta
Шрифт:

XXI

L’ultimo mese, prima del matrimonio, lo passarono tutti uniti a Santo Fiore, dove si era fissato di celebrare le nozze, per isfuggire ai pettegolezzi ed alle noie di Borghignano.

Il Della Valle aveva preso in affitto, per quell’autunno, il villino del marchese di Vharè, i cui affari andavano sempre di male in peggio, e che adesso da Monte Carlo era passato a Roma per far la corte ad una celebre contralto dell’Apollo.

In quanto a Lalla, poveretta, appena arrivata in campagna fece un gran piangere: a Santo Fiore la aspettavano due tombe recenti: quella del vecchio Ambrogio e quella di Musette.

– Già, essa lo aveva preveduto – diceva fra le lacrime, – che Musette sarebbe morta di crepacuore e che bisognava essere ben crudeli per volerla separare dalla sua padroncina!… Povera Musette! tanto buona, tanto cara, tanto intelligente e… – non ci fu verso, anche Giorgio dovette mostrarsi malinconico in memoria della cagnetta.

Ma nemmeno Ambrogio fu dimenticato dalla signorina, anzi ordinò a don Vincenzo un ufficio di gran lusso per suffragare l’anima del vecchio servo; ma poi capitarono a Santo Fiore la Giulia e Pier Luigi, e Lalla ebbe in tal modo uno svago benefico.

Anche Maria aveva sperato di ottenere dai nuovi ospiti un po’ di sollievo: era tanto, era profondamente infelice! aveva sempre gli sposi da sorvegliare; Maria doveva essere sempre fra quei due che si volevano bene e che non nascondevano il loro amore, nè la loro felicità; doveva essere testimonio ai loro colloqui, alle loro tenere carezze.

L’uomo di cui essa era innamorata, lo vedeva farsi sempre più bello e più nobile sotto l’influenza di un amore, che rendeva lei sciagurata e Giorgio beato. Maria non cercava e non voleva miss Dill. Quando c’è una madre, spetta a lei sola quella delicata sorveglianza: era il suo dovere.

Don Gregorio, vedendola intristire, lui che da tanto tempo leggeva sicuro nel segreto di quel povero cuore, tentava di confortarla; ma anche le parole del santo vecchio riescivano inefficaci. Egli conosceva il male, ma non conosceva chi ne fosse la cagione; e molte volte, senza saperlo, invece di alleviarlo, lo incrudeliva. Anche miss Dill le era sempre d’attorno piena di svenevoli tenerezze, di complimenti, di riguardi; ma incapace di un sentimento vero, con tutte quelle smancerie false, esagerate, la importunava senza giovarle.

Oh! la miss aveva fatto un cambiamento assai notevole! La scaltra si era cattivato il favore di Lalla e di Giorgio per ottenere che, morto Ambrogio, lasciassero lei a Santo Fiore, governante di palazzo, e così godersi un avvenire tranquillo e sicuro; una grassa reggenza, per la quale avrebbe regnato in perfetta e dolce armonia colla santa Chiesa.

E oltre tener d’occhio i due giovani innamorati, Maria aveva ben altri incarichi e incombenze che le straziavano l’anima, mentre aveva pure la forza di mostrarsi sempre tranquilla e impassibile. Doveva pensare lei al corredo di Lalla, dalla veste candida di raso seminata di fiori d’arancio, fino alle comode vestaglie della giovine mammina, fino alle camicie così civettuole e provocanti della notturna toeletta; camicie finissime, dalle trine e dai ricami trasparenti, con ricchi nastri o rosa o azzurri, sotto le quali Maria vedeva la sua figliuola bella, palpitante, abbandonarsi all’uomo che lei stessa le invidiava con una gelosia tremenda, sentendo nella propria carne che uno solo di quei baci sarebbe bastato a farla morire di piacere e di amore.

Dovea pensare a tutto, anche al nido dei due colombi, come lo chiamava scherzosamente Pier Luigi. Doveva pensare agli arredi della loro camera… alle spesse cortine dell’alcova… ai guanciali colle guarnizioni di pizzo, alle coltri di seta antica, damascata, agli stemmi, ai monogrammi delle lenzuola…

Prospero Anatolio non si dava di ciò alcun pensiero, lasciava ogni cura alla moglie scusandosi col dire che ella era una benedetta donna, che si sarebbe arrabbiata se lui avesse voluto aiutarla. In verità, il duca Prospero si seccava assai tutte le volte che doveva incomodarsi per gli altri; e siccome si divertiva pochino anche a fare il terzo fra i due fidanzati, così, sulle prime, passava quasi tutto il giorno a Borghignano dove, piangendo a calde lacrime la morte di Vittorio Emanuele alla Costituzionale e quella di Pio IX al Vescovado, era riuscito a farsi nominare dai liberali moderati presidente della loro Associazione e, finalmente, coll’aiuto della Prefettura e degli amici del Della Valle, anche sindaco effettivo.

Ma poi, ad onta del pieno trionfo, venuta la contessina di Rocca Vianarda a Santo Fiore, il duca Prospero cominciò a mostrare molta predilezione per la campagna.

Le fresche, le rosee esuberanze della Giulia gli facevano girar la testa, e tanto più che, in quanto alla moglie, adesso che l’aveva riavuta, gli era tornata indifferente. Sua moglie… non era una donna, era una statua di ghiaccio!… Ma la co-contessina!… Egli le stava sempre vicino, e con una scusa o coll’altra, le metteva sempre le mani addosso. Si godeva a sentirla parlare, si divertiva al suo continuo movimento, e la faccia tonda e scialba del vecchio diventava accesa, quando lei si buttava a ridere di qualche motto un po’ libero di Pier Luigi, con quel suo riso schietto di fanciulla sana, che mostrava i bei dentini minuti e bianchi.

Fra quei due vecchi, la Giulia non pativa di soggezione e, per averne ancor meno, li chiamava appunto i suoi papà. Scherzava, saltava, faceva il chiasso con loro; si lasciava toccare, si lasciava stringere, appoggiandosi al loro braccio, buttandosi loro addosso, con tutto l’abbandono, nel bisogno di espandersi, di sfogare l’esuberanza della propria vitalità.

Si godevano d’accordo, tutti e tre sempre insieme. Anche Pier Luigi, che adesso, col matrimonio di Lalla, sapeva bene dove avrebbe potuto mettere a posto la pupilla, si sentiva più sollevato, ed era sempre di buon umore. Però avevano risolutamente rifiutato di sorvegliare il tenero gru-gru degli sposini. Che! C’era la duchessa colla sua aria grave e severa, creata apposta per far la parte di carabiniere. Essi non ne volevano sapere. – Non ci trovavano gusto, non ci trovavano – e meno di tutti la Giulia, che forse ci soffriva anche per un po’ d’invidia. Invece passavano gran parte del giorno e tutta la sera, chiacchierando fra loro in sala, sul terrazzo, o di fuori, nei lunghi viali del parco, i due vecchi bambinescamente gelosi l’uno dell’altro, per le preferenze che la Giulia, scherzando, accordava ora all’uno, ora all’altro, facendo insieme la partita al domino, voltandole le pagine della musica, mentre andavano in estasi, quando suonava; insegnandole, con molta malizia di concetto e di esecuzione, a giuocare al bigliardo, oppure conducendola sull’altalena in giardino, che le avevano fatto costrurre appositamente.

La Giulia vi montava su, in piedi, tenendosi ben stretta colle mani alle corde, mentre Pier Luigi e Prospero Anatolio, l’uno da una parte e l’altro dall’altra, spingendola tratto tratto, la facevano ondeggiare. Lei, colle ginocchia, si serrava addosso le sottane, ma non ci riusciva del tutto; e quei di sotto la potevano adocchiare due dita più su del collo del piede, mentre si chinavano aspettando il momento buono per dare la rispinta.

I due vecchi daddoloni crepavano dalla fatica, ma tenevano duro. Il conte da Castiglione, stringato, imbottito in un abito grigio da giovinotto, traballante, con una lunga e larga ciocca di capelli ingommati, che ad ogni scossa gli si rizzava sulla nuca, scoprendogli una fetta pelata di cranio; e Prospero Anatolio col respiro affannoso, gli occhietti bigi, luccicanti, il faccione raso, madido, vestito coll’inseparabile abito nero, lungo e largo. E in mezzo a loro, come un’eco lontana dei vent’anni rimpianti, quella creatura bella e rigogliosa passava e ripassava con vicenda misurata dal cigolio degli anelli che tenevano le corde sospese dentro la spranga di ferro; passava e ripassava ritta, balda, sicura, i capelli che le fremevano sulla fronte e le svolazzavano liberi, dietro le spalle; passava e ripassava respirando dalle nari dilatate, con la bocca semiaperta e le pupille socchiuse, quell’aria fresca e profumata della campagna che le accarezzava la faccia, che le sibilava nelle orecchie, ch’ella sentiva in tutto il molle abbandono del suo corpo, come un’ondata di voluttà lenta e tranquilla.

Lalla, civettina sempre, era seccata un po’ anche da quella corte, che dai due vecchi veniva prodigata alla Giulia, e quantunque ne ridesse col suo innamorato, pure lo lasciava qualche volta solo con la mamma per turbare un pochino il trionfo dell’amica. Ricordava bene il desiderio curioso di Pier Luigi e gli faceva credere di essere quasi tentata di salire sull’altalena; e allora prendeva le due corde colle mani, stuzzicando il frollo ganimede col bagliore delle braccia nude, che uscivano dalle maniche larghe dell’abito, ma poi lo piantava sul più bello e invece di salire in piedi sull’altalena vi s’inginocchiava appena, fermandosi subito dopo la prima spinta. Le sue, per altro, erano apparizioni brevi e assai rare. In quell’ora, di solito, Lalla andava a fare una gita in carrozza colla mamma, con Giorgio e colla miss, E fu in una di queste scarrozzate che Maria fu a un punto di tradirsi, e proprio per un altro capriccio di Lalla. Il cocchiere, che sceglieva lui le passeggiate a suo talento, quel giorno era andato a finire verso il Poggio dei Platani.

Maria, a poco a poco, era rimasta sedotta e vinta dai cari ricordi che quei luoghi le suscitavano intorno; a poco a poco, si era obliata in essi interamente e fantasticando correva col pensiero assai lontano, in un altro mondo, nel mondo del suo cuore e delle sue memorie tormentose a un tempo e dilette. Pensando a quel mattino, di tanti anni addietro, quando lì, dal Poggio dei Platani, aveva veduto Giorgio passare per l’ultima volta, e confondendo le angoscie di quel tempo con quelle che presentemente soffriva, le pareva, allora, di essere stata felice.

La felicità, spesse volte, non è altro che un ricordo di sventure più lievi.

Giorgio era allora libero… aveva la patria sola nel cuore… non vi serrava dentro Lalla, sua figlia!… Ed ella, ella stessa, in una solitudine cara, tranquilla, rispettata, coll’intima compiacenza della ottenuta vittoria, poteva abbandonarsi all’affetto di un ideale che la consolava e che le concedeva pure qualche ora di riposo e di conforto. Quella mattina… quando aveva veduto Giorgio passare così rapidamente, quando anche il più lontano frastuono del convoglio era cessato, quando credette che non lo avrebbe riveduto mai più, nella solitudine così vasta, così profonda che l’avvolse, aveva sofferto assai, aveva pianto lungamente, affannosamente; ma come erano diverse le lacrime che le sgorgavano allora dal cuore da quelle che oggi le si serravano strozzate nella gola!… Quelle almeno le poteva ricordare senza rimorso, e queste invece…

– A voi, duchessa Maria, non rammenta nulla il Poggio dei Platani? – scappò da un momento all’altro a domandare il conte Della Valle coll’aria distratta… tanto per dire qualche cosa. La testa l’aveva proprio nei piedi, coi quali accarezzava e stringeva lo scarpino di Lalla, complice l’angusta oscurità della pedana. – Vi ho veduta qui l’ultima volta a cavallo, mentre io passavo per andare a Venezia… lo rammentate? Era di buon mattino e con voi mi pare ci fosse anche…

– No, non lo rammento; – e Maria, che s’era sentita la faccia diventar prima pallida, poi accesa, rispose confusa, con una stretta al cuore senza poter riuscire a padroneggiarsi, rispose quel – no – seccamente, aspramente.

Allora fu la scarpettina di Lalla che toccò il piede di Giorgio. Il conte alzò gli occhi: la fanciulla lo fissava con un’espressione ch’era tutta un punto interrogativo.

Ma nè l’uno nè l’altra, per quante domande si facessero a quel modo, non potevano intendersi; anzi Giorgio sapeva benissimo che tutt’altra doveva essere la sua interpretazione da quella data dalla fanciulla al – no – così strano e inesplicabile di Maria. Egli dubitava di essere stato imprudente ricordando quell’episodio alla duchessa, perchè… perchè in quella tal mattina l’aveva sorpresa fuori di casa, a cavallo, in un’ora sospetta, sola sola col marchese di Vharè. E un’altra volta, malgrado suo, un sospetto assurdo, mostruoso, ma avvalorato da inesplicabili circostanze, il sospetto che fra il marchese e Maria ci fosse stato qualche legame assai più intimo di un’amicizia superficiale, lo turbò a un tratto, e vivamente.

Sì, era un sospetto mostruoso, assurdo, egli lo credeva, voleva crederlo: ma, e allora, perchè quel pallore?… Perchè quella confusione?…

Lalla, naturalmente, spiegava in un modo ben diverso il contegno della mamma: già le pareva di aver notato che la mamma non fosse entusiasta come il babbo a proposito del conte Della Valle. Ma sotto quella freddezza ci doveva essere qualche cosa di oscuro e ingarbugliato che la fanciulla, da sola, non riusciva a sciogliere. Intanto, come spiegare l’intimità che c’era sempre stata fra Giorgio e sua madre, fra i Della Valle e i Santo Fiore, con tutti gli anni trascorsi, non solo senza vedere il conte in casa d’Eleda ma senza ch’ella mai, nemmeno di volo, ne sentisse parlare, ne udisse a pronunciare il nome?

Perchè?… Per qual ragione? Chi poteva saperlo?…

– Certo qualche mistero; c’era un mistero. Certo la mamma aveva qualche cosa nel cuore che voleva nascondere… – E Lalla, spinta dalla curiosità, volle mettere Maria sul punto di scoprirsi… di tradirsi forse!

La carrozza correva via rapidamente, lungo una stradetta deserta e silenziosa, quella stradetta che passava poco lontana dal sagrato, e che Maria aveva fatta a piedi con don Gregorio, la sera stessa della sua partenza da Santo Fiore.

Tacevano tutti nella carrozza. Non si udiva che il trotto regolare e serrato dei cavalli e, di tanto in tanto, il colpo secco, sonante d’un ferro che batteva contro un ciottolo e lo spionciare acuto, improvviso del fringuello messo in fuga.

Lalla, seduta, vagamente raccolta colla breve personcina in un cantuccio del landò, alzava gli occhi timidamente appassionati, negli occhi di Giorgio; e in uno di quei taciti ricambi di tenerezza, quasi volendo concludere un pensiero nel quale allor allora s’erano intesi tutti e due: – Fra qualche giorno – disse al suo fidanzato – sarò… saremo… sarò sua moglie, e lei, – qui abbassò timidamente gli occhi lunghi e vellutati, ma voltandoli in modo da poter osservare anche Maria – e lei, ancora, non ha dato un bacio alla nostra mamma!

– Ben volentieri! – esclamò subito il Della Valle che, desiderando rimediare alla scappata di poco prima, si era alzato mezzo dal sedile, colle braccia protese verso la duchessa.

Maria si rizzò con un grido, ma notando lo stupore di tutti, si calmò subito e mormorò, rivolgendosi a Lalla: – Sai pure che le scene drammatiche non mi garbano. – Poi stese la mano a Giorgio e gliela strinse sorridendo.

Nessuno fiatò; ma desiderarono tutti che quella passeggiata finisse presto.

– Certo, certo, il mio Giorgio non è molto simpatico alla mamma – pensava Lalla in cuor suo. – Ma… perchè?…

E lo stesso perchè il Della Valle, mortificato, chiedeva inutilmente a sè medesimo:

– Che sia stato il Vharè a ispirare nell’animo della duchessa tanta avversione e tanta diffidenza contro di me?…

Il conte Eriprando, che ormai non si poteva più muovere a cagione della gotta che lo tormentava, non fu presente a Santo Fiore per la cerimonia nuziale. Il parentado vi fu rappresentato invece da una marchesa genovese, cugina di Prospero Anatolio; una vecchia quasi cieca e sorda, che non faceva altro che sorridere scioccamente. Tuttavia, quantunque il matrimonio si celebrasse in famiglia, Prospero() Anatolio non volle perdere l’occasione di stringere qualche influente legame; i testimoni furono scelti fra i pezzi grossi delle due Camere, e dovevano arrivare in pompa magna, il giorno stesso della firma e della benedizione.

La duchessina, intanto, avea fatto precedere il giorno solenne da una novena rigorosissima, con digiuni ed esercizi spirituali; il tutto ordinato e disposto da don Vincenzo, che sfoggiò per l’occasione un camice nuovo con ricami e pizzi di gran valore: un regalo della piissima miss.

Pareva quasi che Lalla non fosse alla vigilia di maritarsi, ma che all’indomani dovesse pronunziare un voto monastico: vestiva sempre di nero, nascondendosi la faccia con un velo fittissimo, restando molte ore in chiesa, o ginocchioni a pregare, o seduta a leggere l’uffiziolo, non mangiando altro che legumi; senza frutta, senza dolci. Giorgio quasi non le poteva più dire nemmeno una parola, e gli era proibito anche di stringerle la mano, senza contare ch’egli pure, volere o non volere, dovette confessarsi di tutti i suoi peccati e comunicarsi… cosa che egli fece una mattina, quasi di nascosto, in camera di don Gregorio.

In sulle prime, Giorgio aveva tentato di opporsi a quelle prepotenze; ma Lalla si mostrò inflessibile, e così a mano a mano, un giorno per non disgustarla, un altro perchè era un po’ malatina, egli terminò con fare sempre tutto quanto desiderava e voleva la capricciosa.

La cerimonia della comunione di Lalla fu solenne: anzi più solenne che commovente. La chiesa era affollata come un teatro; e fra le autorità si vedeva in prima linea il signor Domenico, il quale teneva d’occhio attentamente il duca d’Eleda quando si sedeva, si alzava, o s’inginocchiava, per fare subito altrettanto.

C’erano tutte le fanciulle della Dottrina Cristiana, presiedute dalla Veronica che aveva scritto, per l’occasione, un’ode, in poesia, nella quale encomiando le pie virtudi della nobile donzella e le larghezze sue al tempio, ai mendichi e ai grami le augurava che fossero:

Pegni d’immenso gaudio

Che dura eterno ognor.

La signora Veronica non era punto mutata: secca, striminzita nell’abitino nero, stinto, di seta gros, aveva sempre il fegato avvelenato dalla gelosia contro l’Ottavia, che adesso le contendeva vittoriosamente l’effetto erotico dei vergissmeinnicht sul vice pretore.

La duchessina rimase genuflessa sulla viva pietra dell’altare tutto il tempo che durò la funzione, e quando don Vincenzo le avvicinò la sacra particola alle labbra; era tanto commossa che pareva venisse meno da un momento all’altro.

Rientrata in casa, ritrovò don Gregorio che l’aspettava; era lui che all’indomani doveva celebrare le nozze. Lalla, vedendolo, gli si gettò subito fra le braccia, poi volle per forza inginocchiarsi di nuovo, per essere benedetta anche da don Gregorio.

– Sì, sì; che il Signore sia con te, figliuola mia, – mormorò il buon vecchio, accarezzandole i capelli colla mano tremante; – sempre con te, e ti conceda perennemente quella felicità che oggi ti trabocca dal cuore. Ma non dimenticare che noi tutti, su questa terra, abbiamo una missione da compiere, e che ci attende un – al di là – inesorabile. Sii sposa affettuosa e sommessa; e se un giorno il Signore volesse porre alla prova la tua costanza, il tuo coraggio, la tua cristiana rassegnazione, devi ricorrere fiduciosa a tua madre; essa non avrà che a cercare nella sua vita per confortarti e per edificarti coll’esempio di virtù sante e modeste.

La voce di don Gregorio, a questo punto, fu rotta da un singhiozzo. Piangevano tutti: Maria stringeva Lalla fra le braccia, convulsamente, coprendola di baci e di lacrime, e offrendo a Dio quello strazio del proprio cuore, purchè Iddio la ricambiasse con altrettanta felicità per la sua figliuola.

L’emozione di Lalla era grande, indescrivibile, e già si temeva che ne potesse soffrire anche la sua salute, quando fortunatamente, per distrarla in buon punto, arrivò un facchino della stazione, con una cassa sulle spalle.

Era l’abito da sposa della duchessina, che arrivava fresco fresco da Parigi.

La Giulia che lo aspettava da due giorni, appena vide il facchino colla cassa sulle spalle, battè le mani con un grido di contentezza e corse subito in cerca di Lalla.

Lalla, che pure ci aveva il cuore sospeso, prima ancora che Giulia glielo dicesse, indovinò che si trattava dell’abito e se ne andò di corsa dietro alla cugina senza più badare, senza salutare nemmeno don Gregorio. Poi colla Giulia, miss Dill, la Luigia, la Nena e colla marchesa di Genova, che si trovava avvolta, presa, spinta da quella folata di ragazze, senza capire un ette di ciò ch’era avvenuto, Lalla seguì Lorenzo, che adesso portava lui la cassetta sulle spalle. Tutte insieme facevano grandi profezie sul taglio e sulle guarnizioni e discutevano animatamente a proposito del giorno in cui il vestito doveva essere stato spedito da Parigi.

– Sì, doveva essere il giorno, precisamente, in cui era arrivata la Giulia a Santo Fiore. – No, no, non poteva essere. – Era possibile. – Non era possibile. – In conclusione, andavano tutte d’accordo nel riconoscere che madame Fanny era un portento, una donna sublime. – E l’ampio scalone, perchè Lorenzo doveva portare la cassa nella camera di Lalla, risonò allora tutto pieno, assordato da quel chiacchierìo, da quella grande contentezza così giovanile e chiassosa.

Lalla fece mettere la cassa in piena luce, sotto la finestra; poi inginocchiandosi per terra accanto a Lorenzo, si provò per aiutarlo, graffiandosi le manine delicate. Lorenzo piano piano, con molto garbo, ma con una lentezza che urtava i nervi, prima colla tenaglia levò i chiodi più grossi, poi; adagio, ne sollevò il coperchio: quand’ebbe finito. Lorenzo fu addirittura buttato da una parte, e allora Lalla, la Nena, la Giulia e la Luigia, delicatamente, levando uno dopo l’altro i larghi fogli di carta bianca che erano stesi sull’abito, lo scoprirono nel suo intatto splendore. Lalla era diventata rossa, cogli occhi sfavillanti: la Luigia preso l’abito per la fodera della vita lo teneva sollevato, disteso, mentre colle dita dell’altra mano, dando alla veste certe scossettine vibrate, precise, ne faceva meglio risaltare la freschezza e l’eleganza. Giulia era in ammirazione, la Nena rimaneva estatica, miss Dill, inforcati gli occhiali sul naso, approvava gravemente, ma con convinzione, e la vecchia marchesa, che stava in disparte e che proprio bene non lo poteva vedere, esclamava tratto tratto: – O l’è na vea maavegia; o l’è na vea magnificenza!

– Quando ci sposeremo, Nena, farò arrivare da Parigi, anche per voi, un bel vestito come questo! – scappò a dire, strizzando l’occhio, quel burlone di Lorenzo. Ma non era il momento di perdersi a ridere: c’era troppo da fare. Lorenzo fu mandato via, e Lalla provò subito il vestito. Si spogliò in fretta, e intanto, finchè la Luigia le teneva sollevata la sottana perchè Lalla l’infilasse passandovi sotto col capo, risero tutte allegramente, vedendo quella sposina che, mezzo svestita, in gonnella corta, pareva ancora più piccolina: – pareva una Giovanna d’Arco in miniatura!…

L’abito le andava a perfezione, ma… ma davanti, sul petto, le faceva una piega di traverso, che non avrebbe dovuto esserci: una piega della quale madame Fanny non aveva forse tutta la colpa. – Giulia sorrise maliziosamente, e si accarezzò colle mani il seno rotondo e palpitante sotto la giacchettina di maglia scura.

– Bisognerebbe tirarlo un po’ su; stringerlo di spalle – disse la Nena alla Luigia, fissandola per farle capire dov’era il difetto, ma senza spiegarsi di più, per non mortificare la padroncina.

– Avete un bel dire voi; ma io non mi arrischio…

– Non conviene – esclamò Giulia. – È cosa tanto di poco! – Allora, dopo lunga e seria discussione, si concluse di non toccarlo.

Lalla non disse mai una parola, aveva capito dov’era il difetto e pensava che, vestendosi all’indomani, avrebbe rimediato da sè.

In casa d’Eleda si pranzò, quel giorno, più presto del solito: prima dell’Ave Maria bisognava essere in chiesa per la Novena. Nemmeno Pier Luigi ci voleva mancare. Se gli piacevano le belle donnette, non era una ragione per essere eretico. E poi egli assisteva sempre con vero piacere alla conversione del sinistro nipote – il quale si avvicinava a grandi passi verso il centro, si avvicinava, e da rosso scarlatto s’era fatto d’un bel viola canonico, inondato com’era continuamente dallo sguardo azzurro della sua Lalla… dallo sguardo!

Ritornarono a casa tristi e muti. Nessuno aveva il buon umore delle altre volte: era quello un momento troppo serio e solenne.

Giorgio aveva poi un’altra ragione di essere melanconico: la grande felicità che abbatte e che sgomenta quasi come un gran dolore. Egli sentiva tutto ciò, e la sua tristezza era ben naturale; e Lalla che lo sapeva, a tratti faceva pure la mesta, quantunque forse, per il suo spirito di contraddizione, quella sera avesse addosso l’argento vivo ed una voglia matta di correre e di saltare. Durava una gran fatica a star ferma, e fra uno sguardo tenero e una paroletta dolce al fidanzato, usciva sotto il portico a ridere colla Giulia, o passava in tinello a dare ordini alla Nena. Ma prima di uscire dal salotto abbracciava la mamma sospirando, oppur stampava un bacione sonante sulle guancie del babbo, come per dire all’uno e all’altro: – A voi due vorrò sempre un gran bene.

Nel tinello s’incontrò una volta con Frascolini padre, che era venuto al Palazzo apposta per fare il suo dovere. Il pover’uomo pareva invecchiato di dieci anni: curvo, sfinito con una tossaccia di cattivo augurio. Era stata quella testa matta del suo figliuolo a ridurlo a quel modo; ma lui testardo, non lo voleva confessare, e così soffriva peggio, struggendosi dentro, senz’avere uno sfogo. A Lalla quell’incontro non fece nessuna impressione: solamente le ricordò Sandrino, e sentì un impeto di sdegno. Pure seppe frenarsi e gli domandò conto della sua salute, della vendemmia, dell’Amministrazione comunale, e anche di quel cattivo mobile che lo faceva disperare… e tutto ciò senza mai un tremito nella voce, sempre tranquilla, sempre disinvolta.

Alla Nena, invece, ch’era lì presente, batteva il cuore tanto forte che pareva le volesse saltar fuori dal corsetto.

– No, di quel… – signore là – non ho nessuna notizia, nè mi curo di averne – borbottò il vecchio; ma l’impeto d’ira finì con due lacrime che gli gocciolarono dagli occhi.

Lalla non pensò nemmeno, nè il vecchio avrebbe sospettato, che la causa prima di quella sventura, di quella rovina potesse essere lei, e: – Bene, bene – gli disse – speriamo che ogni cosa si accomodi per il meglio e che ritorniate ad essere tutti felici. Il Signore avrà voluto provarvi, ma vi consolerà presto. Sperate nella sua bontà! – E lasciò che il povero vecchio, commosso da tanta degnazione, le baciasse la mano singhiozzando.

Quando la duchessina rientrò in sala, Prospero Anatolio e il Della Valle davano le disposizioni per l’indomani. Il Della Valle sarebbe andato lui solo alla stazione, incontro ai testimoni: erano quattro commendatori, due della Camera alta, due della Camera bassa, e avevano appena telegrafato che sarebbero giunti col primo treno.

I saluti furono quella sera più espansivi ed eloquenti del solito. La melanconica tristezza che aveva durato fino allora si dissipò e l’effusione trattenuta proruppe in uno scambio di promesse, di proteste, di strette di mano e di abbracci cordialissimi. Giorgio, prima di andarsene a casa, offrì il braccio, insistentemente, alla duchessa Maria, e volle accompagnarla fino sull’uscio della sua camera; non c’era un pretesto plausibile per rifiutare; Maria accettò il braccio e si avviò col Della Valle su per le scale.

Quando furono nel salottino che precedeva la stanza da letto, Giorgio si fermò e non lasciò che Maria entrasse subito colla Luigia, ma facendole dolce violenza la trattenne per una mano.

– Prima di salutarvi stasera, permettetemi un’altra parola; permettete che io vi domandi perdono ancora una volta, se negli anni addietro, senza saperlo, vi ho procurato qualche dispiacere. Siate buona. Maria, lasciatemi la certezza che voi non serbate nessun rancore contro di me; lasciatemi la certezza che accettandomi come vostro figlio, voi non vi rassegnate all’altrui volontà, ma lo fate spontaneamente col pieno consenso del vostro cuore.

– Sì, sì… con tutto il cuore. – Maria ebbe ancora la forza di frenarsi. – Con tutto il cuore… Non dubitate dei miei sentimenti. Invecchiando… mi sono mutata e… mutata in peggio. Sono diventata anche… un po’ meno… meno espansiva; ma vi sarò riconoscente con tutta l’anima se voi, come ne ho fede, riuscirete a rendere felice la mia figliuola!…

– La vostra riconoscenza?… E se la sola riconoscenza… non mi bastasse?…

– No? – Maria si fece più seria… per dominarsi, per vincere il tremito da cui si sentiva presa.

– No, Maria, no. La riconoscenza non mi basta; desidero, voglio un pochino di bene. Ve ne supplico, ve ne scongiuro… se sapeste come ne ho bisogno!… Il vostro affetto mi pare che debba conservarmi intatto l’amore della mia Lalla, che debba essere la salvaguardia della mia felicità!… Dunque?… vogliatemi un po’ di bene, se non altro per Lalla, per la vostra figliuola che amo, che adoro, Dio mio, quanto voi, mamma, non sapete ideare!

Maria si teneva appoggiata all’uscio socchiuso; per questo il sussulto che la fece trasalire, non fu notato da Giorgio.

– Dunque?… – continuava il conte che le baciava e ribaciava la mano, che prima stringeva fra le sue. – Dunque?… un po’ di bene, me lo vorrete, mamma?

– Sì, fate felice mia figlia: a domani! – e scomparve.

Il Della Valle, neanche questa volta, non ebbe ragione di entusiasmarsi nè per la cordialità, nè per il calore della sua futura suocera… anzi, tutt’altro! E perciò finì col pensare che Maria avesse proprio qualche stranezza e che ci fossero parecchie contradizioni nella sua superba e fredda alterezza; ma poi, sentendosi addosso troppa beatitudine per volersela guastare, diè un’alzata di spalle e dimenticò presto la mamma, pensando solamente alla figliuola.

Maria, quando entrò in camera, era quasi soffocata dalla commozione. Si buttò nel letto, e rannicchiandosi, tremando per la febbre, col petto che si sentiva lacerato da una tossetta secca e profonda, ebbe l’abnegazione sublime, sovrumana, di ringraziar Dio per averle data la forza di poter continuare quella vita, e lo scongiurò di sostenerla ancora per il momento supremo che si avvicinava. Allora, fatta più serena da quella stessa preghiera, sentì un rimorso della freddezza che avea dimostrata al conte Della Valle; pensò che quel suo contegno avrebbe forse potuto turbare la felicità di lui e di sua figlia e promise a sè stessa come già aveva fatto in quegli ultimi giorni, di essere con Giorgio e con tutti, più cordiale e affettuosa. E mentre pregava e prometteva a Dio e a sè stessa di sacrificarsi sempre volonterosa e ignorata, le lacrime le colavano dagli occhi spesse e vive col tepore del sangue che sgorga da una ferita.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
500 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

С этой книгой читают