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Читать книгу: «I Mille», страница 3

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CAPITOLO VIII
DA CALATAFIMI A RENNE

 
La vittoria
È sul brando del forte.
 
(Autore conosciuto).

La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del 1860.

Era un vero bisogno d’iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi. Esso demoralizzò gli avversari che colla loro fervida immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille, e sulla impenetrabilità della loro pelle a qualunque proietto, e rinfrancò i prodi Siciliani che, per esser pochi, erano stati scossi dagl’immensi presidii di soldati, e di mezzi accumulati dai Borbonici nell’isola.

Palermo, Melazzo, il Volturno, videro molto più feriti e cadaveri. – Vi furono certamente delle pugne più lunghe ed accanite. – Per me però il combattimento decisivo fu Calatafimi. – Dopo il Pianto dei Romani, i nostri sapevano che doveano vincere; e quando s’inizia una pugna con quel prestigio, si vince!

Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana, nullostante tanta disparità di mezzi e di numero, sono una sventura per l’Italia, non tanto per le perdite nostre d’uomini e di mezzi, quanto per la boria dei nostri nemici che certamente non valgono più degli Italiani; e che dovendo combatterci, verranno a noi come su preda facile, su gente che si spinge avanti coi calci dei fucili.

E non dubito: gli oppressori nostri s’inganneranno, ove la gente italica sia guidata da un uomo ben convinto che bisogna vincere.

Le battaglie suaccennate di Novara, Custoza, Lissa, non furono disputate. – In tutte, le nostre forze pugnarono parzialmente, e la maggior parte rimase inoperosa, e ad altro non servì che ad accrescere la confusione della ritirata.

Io ho conosciuto in America un valorosissimo generale che dopo d’aver iniziato brillantemente una battaglia, a qualunque rovescio parziale comandava la ritirata, e ne conseguiva certo che, ritirandosi di giorno davanti a un nemico impegnato, la ritirata si cambiava in sconfitta.

Ridotto oggi a consigliare i giovani che guidavo una volta, io non cesserò di ammonirli sulla necessità di costanza, sia nel durare alle fatiche e disagi, nelle guerre che pur troppo dovranno ancor fare; sia nelle giornate di pugna grandi o piccole.

A Melazzo i Mille furono perdenti fin verso sera, avendo cominciato il combattimento all’alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro del nemico, decise della giornata.

Al Volturno, iniziata la battaglia prima dell’alba, il nemico era ancora padrone del campo di battaglia alle 3 pomeridiane; quando giunsero alcune riserve da Caserta che influirono a cacciarlo dentro Capua in men d’un’ora.

Non dirò di Palermo, ove vi fu non solo costanza da parte dei pochi militi nostri e della inerme popolazione, ma sfacciataggine di cacciar via dalla città ventimila soldati che potevan far l’orgoglio di qualunque generale.

Alle prime prove dell’Italia contro i suoi eterni nemici, vi vorrà un Fabio che sappia temporeggiare: ed il nostro paese è tale da poter guerreggiare come si vuole; accettare o no una battaglia quando convenga, gettando frattanto alle spalle del nemico e su tutte le sue comunicazioni tutta la parte virile della nazione, non in guanti bianchi come soglionsi ricevere gli invasori – ma col ferro e col fuoco – fucilando il traditore che ha dato un bicchier d’acqua ad un assassino. Poichè è assassino chi invade proditoriamente la casa di un vicino e se ne fa padrone.

Allora verrà presto la parte di Marcello della spada di Roma, che potrà senza cerimonie attaccar di fronte il borioso nemico, e finalmente Zama, ove un nuovo Scipione torrà ad esso la voglia di venir ancora a mangiare i nostri fichi.

Anche in questo mi tormenta l’idea del prete, che vuol fare degli Itali tanti sagrestani. – E se l’Italia non vi rimedia, è un affare serio! I gesuiti non ponno far altro che: ipocriti, mentitori, e codardi! Vi pensi chi deve che, per marciare e dar delle splendide baionettate vi vuol gente forte.

Calatafimi sgombro dai nemici fu da noi occupato. La maggior parte dei nostri feriti era stata trasportata a Vita.

A Calatafimi trovammo i più gravi dei feriti nemici, e furon trattati da fratelli. – Avean qualche rimorso queste dominatrici famiglie dell’Italia, nell’aizzare le nostre popolazioni infelici, siccome mastini, le une contro le altre?

Rimorsi! Ma che rimorsi! Tutto il loro studio non era forse d’inimicarle, e tutto il loro interesse? – acciocchè continuasse ad esser difficilissimo, se non impossibile, l’unificazione della patria Italiana?

Sarebbe lunga la storia delle corruzioni e dei tradimenti di codesti signorotti per il diritto divino, oggi felicemente mendicanti per la maggior parte; tuttora però, traditori e pervertitori della nazione.

Le genti della Trinacria frattanto accorrevano ad ingrossar le fila dei Mille. Alcamo accoglieva i vincitori con tutto l’entusiasmo di cui sono capaci quei fervidi Meridionali. – Partinico fece di più: vedendo i nemici che sì crudeli eran stati cogli abitanti, ora sbandati e fuggenti, quella popolazione diede loro addosso, e sino le donne trucidarono di quei disgraziati.

Miserabile spettacolo! noi trovammo i cadaveri dei soldati Borbonici per le vie divorati dai cani!!!

Eran pure cadaveri d’Italiani che, se educati alla vita dei liberi, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese, ed invece come frutto dell’odio suscitato dai loro perversi padroni, essi finivano straziati e mutilati dai loro proprii fratelli con tale rabbia da far inorridire i Torquemada.

Dalle belle pianure d’Alcamo e di Partinico la colonna ascendeva per Borgetto sull’altipiano di Renne, da dove dominava la conca d’oro e la Regina dei Vespri – che confesso – se fra le sue cento città, Italia avesse una mezza dozzina di Palermo – da molto tempo lo straniero non calpesterebbe questa nostra terra. – E certo il Governo dei birri e delle spie o marcerebbe diritto o il diavolo se lo sarebbe portato via.

Renne sarebbe una posizione formidabile, se nello stesso tempo ch’essa domina lo stradale da Palermo a Partinico non fosse dominata dalle alture immediate a mezzogiorno e tramontana che appartengono ai monti irregolari che circondano la ricca vallata della capitale. Renne è famosa nella campagna dei Mille per due giorni di copiosa pioggia, passati senza il necessario per affrontare le intemperie, ove fu assai incomodata la gente, ma ove quel pugno di prodi provò: esser disposto ai disagi siccome a disperate battaglie.

CAPITOLO IX
I PRECURSORI

 
E tu onore di pianto Ettore avrai
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il sole
Risplenderà sulle sciagure umane.
 
(Foscolo).

Prima del 5 maggio partivano da Genova due giovani con destinazione alla Trinacria. L’uno bellissimo e castagno di capigliatura, apparteneva a nobile famiglia dell’isola; l’altro avea la bellezza del plebeo meridionale, con una capigliatura d’ebano, un volto regolare ma bronzato, tarchiato e robustissimo. – Egli era, a non ingannarsi, uno di quella casta che la fortuna condanna a menar le braccia per la sussistenza, e che qualche volta stimolati da istinti generosi o dall’ambizione d’innalzarsi, si lanciano al di fuori dell’area in cui la sorte sembrava volerli circoscrivere; e, se coadiuvati dal genio, si vedono transitare dall’infimo della condizione umana ai gradini superiori. – Tali i Cincinnati, i Mario ed i Colombo.

L’Italia incontrastabilmente – paese di non comune intelligenza in tutte le classi – ha forse troppi di questi nobili plebei ambiziosi di migliorare od innalzare la propria condizione: ciocchè, senza dubbio, è causa d’aver essa in proporzione un’esorbitanza di cittadini repugnanti alle manuali occupazioni.

Per esempio, ho veduto in America dei giovani Italiani letterati, ridotti a non trovar impiego e quindi alla miseria; mentre i nostri operai, contadini, carpentieri, ecc., appena giunti eran cercatissimi, impiegati subito con splendidi salari, e vivevano perciò una vita agiatissima.

Nella propensione nostra quindi di salire nella scala umana, v’è bene e male – dipendendo dalla fortuna, accertare o no, l’uno o l’altro. – Comunque io consiglierò sempre a’ miei concittadini d’imparare un’arte manuale qualunque – ove troveranno sempre più robustezza che nelle occupazioni di scrivanie – e più sicurezza di guadagnar la vita in ogni parte del mondo – sopratutto poi, non dimenticar la massima di spender nove quando si possiede dieci.

Nell’anima dei due però, che si lanciavano a morte quasi sicura, v’era la devozione eroica dei Leonida e dei Muzio Scevola. – Rosolino Pilo e Corrao ponno giustamente chiamarsi i precursori dei Mille; e noi li trovammo in Sicilia dopo di una traversata portentosa, facendo propaganda emancipatrice, e solleticando i coraggiosi figli dell’Etna a sollevarsi colla promessa di pronti soccorsi dal continente.

Due individui e non più sbarcavano sulla loro terra – proscritti e condannati a morte – spargendo la loro santa propaganda, e senza esitare dirò: con tanta sicurezza come sulla terra d’asilo!

Sappilo, tirannide! e sappi che questa non è terra da spie! Tu hai perduto il tuo tempo, impiegando ogni specie di corruzione! Qui – su questi frantumi di lava – il tuo potere, brutto di sangue e di vergogna, è effimero!

Butta giù quella tua maschera di Statuto, a cui nessuno più crede, e mostrati col tuo ceffo deforme da Eliogabalo o da Caracalla – qui altro non è che questione di tempo – d’anni – che dico? forse di giorni. – Che s’intendano questi ringhiosi discendenti della discordia e della grandezza, e come nel Vespro, in poche ore, verun vestigio resterà più delle vostre sbirraglie.

Rosolino Pilo in una scaramuccia coi Borbonici – mentre i Mille facevano alcune fucilate nelle vicinanze di Renne – fu colpito da un piombo nemico, mentre si accingeva a scrivermi dalle alture di S. Martino, e stramazzò cadavere.

Italia perdeva uno dei più forti di quella brillante schiera, che col loro coraggio e nobile contegno menomano alquanto le sue umiliazioni e le sue miserie.

Corrao, men fortunato di Rosolino, dopo d’aver pugnato valorosamente in ogni combattimento del 60, morì di piombo italiano per gare individuali.

Il generoso popolo della Sicilia, io spero, non dimenticherà quei suoi due prodissimi concittadini.

CAPITOLO X
LE DUE EROINE

 
La donna bella, buona e coraggiosa
È un vero portento della natura.
 
(Autore conosciuto).

Nel campo di Renne, ove i Mille eran sequestrati da piogge dirotte, v’era mestieri di notizie certe sulla situazione di Palermo. – Quell’invitta popolazione fremente, di quel fremito che fa tremar la tirannide corazzata d’acciaio ed assiepata da baionette, era tenuta dopo l’eroico tentativo del 4 aprile nel più assoluto e rigoroso stato d’assedio.

Poche eran le comunicazioni colla campagna, e quelle poche persone a cui era permessa l’uscita dalla città dovevano garantire il Governo che nulla da loro avea da temere di congiure o d’intelligenza coi patrioti di fuori – al solito chiamati briganti.

Ma mal si governa colla tirannide e peggio ancora con popoli che hanno tradizioni come quella dei Vespri – la più terribile delle lezioni data dai popoli ai loro oppressori – e che non trova paragone in nessun tempo ed in nessuna delle storie delle Nazioni.

Italia! terra dei morti– secondo uno di quei grandi che vengono nominati tali, perchè nacquero tra generazioni di piccoli. – Italia, dico, depressa oggi, umiliata – e detto in onor del vero – anche disprezzata – conta dei fatti che nessun popolo della terra uguaglia.

1º Giunio Bruto, condannando a morte i proprii figli perchè creduti implicati in una congiura contro lo Stato.

2º Manlio, dittatore, facendo decapitare in sua presenza il valoroso suo figlio vincitore d’un gigante latino che avea sfidato a pugna singolare i migliori dell’Esercito Romano, perchè avea trasgredito il divieto dittatoriale di non uscire dalle fila. Questi due fatti d’insuperabile disciplina sono forse la chiave di quella severissima disciplina romana che condusse le Legioni su tutto l’orbe conosciuto, e di cui si trovò un saggio sotto le ceneri di Pompei, d’un legionario che coll’arma al piede lasciossi coprire dalle ceneri senza muoversi.

3º E i Vespri? Un popolo che conta i Vespri ne’ suoi annali, può durar poco nel servaggio. – E ricordatelo bene voi che nei tempi presenti (1870) cercate di imbavagliarlo con delle concessioni e delle carezze più o meno scellerate e sempre gesuitiche. – Voi che nascondete le ugne d’acciaio degli antichi signorotti sotto uno straccio di carta che presto, speriamolo, per il decoro dell’Italiana famiglia, vedremo svolazzare nel letamaio delle genti rigenerate.

Lina e Marzia abbandonando la loro assisa maschile, aveano indossato le vestimenta più confacenti alle loro bellissime forme, cioè la sottana ed il farsetto, così graziosamente allacciato dalle vezzose forosette della conca d’oro. Due rossi fazzoletti di seta che per caso si trovarono nel vicino borgo di Misero i cannoni, furono fantasticamente avvolti a quelle teste da modello, nascondendo non totalmente le ricchissime capigliature, giacchè il sesso gentile ama, com’è naturale, di mostrare i tesori che natura profuse sulla creatura prediletta.

Solo i calzari delle due eroine avevano militare, o piuttosto, cacciatrice fisionomia, poichè nel borgo suddetto non si trovarono calzature fatte da donna.

I volontari contemplavano meravigliati le superbe donzelle che sì fiere avean veduto sul campo di battaglia, ora orgogliose d’essere prescelte ad ardua e pericolosa impresa, e poi si guardavan l’un l’altro stupefatti.

Nullo, perdutamente innamorato della Lina – da lui conosciuta nelle natíe ed alpestri valli – supplicava invano il comando dei Mille, di lasciarlo andare in compagnia della bella coppia.

E P… non meno di lui invaghito della Marzia manifestava lo stesso proponimento. Alla vigilia di serii combattimenti però, non si volle privare il corpo di due sì valorosi ufficiali.

Una contadina del borgo anzidetto fu destinata ad accompagnarle come guida. – E così munite di adeguate istruzioni Lina e Marzia s’incamminarono verso la capitale della Sicilia, le di cui altiere torri scorgevansi alla distanza di poche miglia, dominando la superba metropoli dei Vespri ed il littorale Mediterraneo.

CAPITOLO XI
ITALIA

 
Italia, Italia, tu, cui feo la sorte
Dono infelice di bellezza…
… Nè te vedrei del non tuo ferro cinta
Pugnar col braccio di straniera gente
Per servir sempre, o vincitrice, o vinta.
 
(Filicaja).

Ed eccomi ancora a trattare del pugnale, quantunque mi ripugni ricominciare con tale terribile argomento.

E perchè dunque vi costituite tiranni? Perchè da secoli questa mia terra deve servire di lupanare a quanti malandrini porta l’Europa?

Perchè essi vengono a mangiarci i frutti, a beverci il vino, che costarono il sudore della nostra fronte?

Perchè? Perchè? arrossisco nel pensare a tanti altri perchè, che solo il pugnale può vendicare!

E voi, amabili ed umani dominatori dell’Occidente e del Settentrione, qual’armi avete concesso ai vostri Iloti italiani, perchè non dovessero servirsi d’un ferro, per vendicare un oltraggio od un disonore?

Oggi ancora, ladroni spudorati, voi infestate le nostre terre che tenete a ruba da varii secoli, – sotto il falso pretesto di religione che non avete, e di diritto divino con cui burlate il mondo. – Ditemi voi: se più legali sono i vostri furti e le vostre violenze, od il ferro italiano che qualche volta – segna le vostre schifose fisonomie?

Ditemi, s’eran legali i vostri assassinii, commessi contro i Messicani, tra cui l’italiano generale Ghilardi fucilato proditoriamente dal servo del 2 Dicembre, Bazaine, contro i Romani del 49 e del 67, contro i Veneti, i Bassi, i Ciceroacchi con due figli e nove compagni, i martiri di Belfiore, ecc. ecc., tutti onesti, tutta gente di cui più valeva un capello che tutta l’anima vostra, carnefici del genere umano!

E verrà un giorno in cui l’Italia purgata dei suoi Tersiti, e dei suoi impostori che l’addormentano e la corrompono, vi tratterà non più coi guanti bianchi – come siete usi ad esser trattati in questo sventurato paese, ma da assassini vi tratterà, come siete, impiegando i mezzi che adoperano i popoli per redimersi da tiranni e da ladri, cioè: pugnale, fuoco, veleno.

E non fate cipiglio – signori vermi della società umana – a tali felici augurii per il mondo, poichè grassi, pistagnati, indorati come siete, siete più nocivi dell’insetto che rode le radici della pianta alimentaria, e dell’avvelenatore rettile, che uccide quasi istantaneamente l’umana creatura.

Sì! voi oppressori delle genti e sostenitori della menzogna, siete la peste del mondo!

È duopo rammentar sovente tutto ciò ai dormenti nostri concittadini: acciò smentiscano i soddisfatti, perchè con pancia piena spacciano massime che son tutte menzogne e paroloni di libertà, di indipendenza e di unità italiana con solo di vero: miseria e degradazione!

E finalmente: non è il Buonaparte con complici il Governo italiano ed i preti, il mantenitore del brigantaggio nell’Italia meridionale?

E non sono i despoti, i fomentatori delle rivoluzioni nel mondo?

Io sfido che si provi il contrario.

CAPITOLO XII
MANISCALCO

 
L’immacolato tricolor, dolenti
Sì, noi macchiammo, per veder risorti
Della Romana Italia, i macilenti
Nipoti a un fascio e ad un cammin consorti.
Or dimmi: hai tu dell’Italo fidente
Appagata la speme – e le proterve
De’ suoi tiranni, soldatesche hai spente —
Birri un dì noi vedemmo e genti serve
Su quest’afflitta terra – e fatalmente
De’ servi e birri, noi vediam caterve.
 
(Autore conosciuto).

Ammiratore della rigida, non uguagliata da nessun popolo della terra, antica disciplina romana, io, sono quindi amante dell’ordine, cioè – vorrei vedere i popoli prosperi, liberi, felici – ed i loro reggitori, occupati non d’altro che del loro benessere – garanzie sicure queste della quiete pubblica.

Non reggitori simili agli odierni d’Italia, speculando sulle miserie della nazione, rovinandola per soddisfare a depravati capricci, non più tollerati dalla società moderna – e per impinguare numerosa caterva di satelliti che lor fan corona.

Sì! ordine vogliam noi, uomini della libertà e del progresso – cioè: Repubblicani.

Ordine! ordine! e chi lo disturba quest’ordine che l’umanità richiede – siete voi, persecutori delle genti! perturbatori della condizione normale dei popoli – voi! per gozzovigliare alle spese altrui – e far infelici le nazioni che speravano da voi un governo umano e riparatore.

Sì, voi potenti per astuzia e per l’imbecillità altrui, millantate ordine, colla coscienza di mentire – rovesciando, distruggendo ogni più sacra cosa; e facendo della famiglia umana una caterva di sventurati e di spie!

L’ordine che voi volete è la quiete – quella quiete che brama l’assassino nel godimento della roba depredata.

E Maniscalco era uno di quei vili istromenti che la tirannide poltrona, paurosa e codarda, spinge fra le moltitudini per spiarle, torturarle, assassinarle, quando fia duopo, per mantenere l’ordine che disturbano alcuni affamati servi.

Essi, istrumenti, hanno il genio della corruzione, della perversità, e sanno scegliere nella folla i loro seguaci, che distinguono a cert’aria di famiglia, agli inerenti vizii inseparabili di tale bordaglia: vizii ch’essi vogliono soddisfare al prezzo di qualunque infamia, e riconoscibili poi a certa peculiare impronta famigliare alla gente dello stesso marchio.

In Palermo, Maniscalco munito di pieni poteri, ed accrescendo di potenza in ragione inversa del credito de’ suoi padroni – credito da tiranni, che sulla terra dei Vespri si scioglie tanto presto, quanto la neve al contatto della rovente lava de’ suoi vulcani – un perverso come Maniscalco – su cui posava tutta la fiducia del Borbone in Sicilia – s’era certamente permesso ogni specie di dissolutezza, di delitti e crudeltà: la purezza delle vergini, la santità dei matrimonii, tutto andava in un fascio davanti alle libidini dello scellerato. La cuffia del silenzio, e quante torture avevano inventato i Torquemada, erano impiegate per strappare dagli sventurati prigionieri i segreti delle congiure dal dispotismo suscitate.

Un giorno in via Maqueda, tutte le classi della splendida capitale della Sicilia tornavano dal passeggio della Favorita; – tutte le classi, sì, – perchè quantunque poco menomata in potenza la famiglia dei feudali, i popoli, sono fuori da quel servilismo, che nel Medio Evo, non permetteva ad un plebeo di passeggiare accanto ai favoriti dal privilegio.

Nella folla accalcata in quella seconda strada di Palermo, pavoneggiavasi il sanguinario Ministro del Re di Napoli, con scorta numerosa de’ suoi satelliti, armati fino ai denti. – Tali non compariscono in pubblico gli agenti dell’autorità, ove la libertà non è vana parola.

Il policeman dell’Inghilterra, o degli Stati Uniti ispira fiducia all’onesto cittadino, e non timore come il sinistro cagnotto della tirannide – il bravo dei signorotti moderni.

Maniscalco dunque, attorniato da’ suoi, scoteva l’altero suo capo, e gettava sulla moltitudine uno sguardo di disprezzo, e la moltitudine, come se raccogliesse la sfida dell’insolente, calcavasi sulla siepe di sgherri che corazzava il malvivente, premevala, e dal seno di quell’onda di popolo scaturiva una di quelle figure, che la poesia dipinge dominatrici delle tempeste, sieno esse di genti o di elementi.

Tale Colombo – dopo di aver dominato il pelago che divide i due mondi – dominava gl’indisciplinati suoi seguaci in una tempesta d’insubordinata diffidenza al suo genio.

Come lo scopo del grandissimo navigatore fu realtà, la manifestazione d’odio dei discendenti del Vespro e la lama d’un pugnale, sguizzava nell’aere come una fiamma e si conficcava nel petto del disprezzatore delle genti, e lo rovesciava nella polve.

Maniscalco cadeva, ed il suo sangue irrigava una terra che non era degno di calpestare.

Il feritore poi, che alcuni dissero essere un fantasma, ma che certamente era uomo che sprezzava il pericolo, non fuggì, non accelerò il passo; ma in un orgasmo che fece stupire gli astanti, e paralizzò, ammutolì gli sgherri, pria sì baldanzosi, il feritore, dico, strappò da sè l’involto di carta che lo copriva da capo a piedi, ne sparse i brandelli sul terreno, e come per miracolo si confuse nella folla, ove fu impossibile di rintracciarlo per quante indagini se ne facessero.

I Governi ed i preti adoperano ogni mezzo perverso per corrompere le genti, e riescono sovente ad attrarre nelle loro reti qualche sciagurato, ma la massa delle popolazioni in Italia abborre la delazione, ciò sia detto in onore del nostro popolo, e se la miseria od il vizio precipitano alcuno nell’infamia, certo il delatore nel nostro, benchè infelice paese, sarà sempre generalmente in orrore.

Io ho veduto il popolo di Palermo nella gloriosa rivoluzione del 60 correr in cerca dei sorci (spie) con un accanimento indescrivibile.

Chi sa quanto il coraggioso assassino avea lavorato per tagliare, cucire, pitturare cotale abbigliamento di carta somigliante ai panni da poter comparire in pubblico senza essere riconosciuto.

Era una vendetta, meditata, certamente.

E fin ora non si conosce la causa dell’attentato, nè chi lo perpetrava.

Era lo sconosciuto qualcuno dei torturati da Maniscalco? qualcuno dei feriti nell’onore? Poichè i cagnotti dei tiranni sono generalmente gente lasciva, ed il capo degli sgherri, come già abbiamo accennato, avea fama di tale – od era alcuno di coloro che preferiscono la morte al vergognoso servaggio del loro paese?

Assassino: lo chiamarono i giornali borbonici e tale lo chiamerebbero pure altri giornali non borbonici.

Assassino! e veramente io non vorrei che si uccidesse l’uomo dall’uomo, e sono contrario alla pena di morte sotto qualunque forma.

Assassino, dunque, fu il feritore di Maniscalco e Torquemada ed Arbues ed i bruciatori delle creature umane sono santificati! ed il dominatore del Tirolo che appiccò Mantovani, Ungheresi, Piemontesi! il Reggitore della Polonia passando la vita alla distruzione di quel popolo, sottoponendo al knouth sino i bambini e le donne! – ed il Magnanimo che crede oggi di coprir colla sua veste d’Agnello le macchie di sangue di tre popoli, sono Maestà!

Assai più coperti d’omicidii dell’assassino di Maniscalco, ma infine Maestà!