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CAPITOLO III
TALAMONE

 
Gli ho veduti – raccolti in Pontida
Provenienti dal monte e dal piano —
Gli ho veduti, si strinser la mano
Cittadini di cento città.
 
(Berchet).

Nella mattina del 6 maggio Talamone fu salutato dai rappresentanti delle cento Sorelle, e lo ricorderò quel giorno! Rappresentanti delle cento sorelle, sì! Ma non rappresentanti del genere dei 229 che in quella stessa epoca vendevano la più bella delle gemme italiane, Nizza! – Oggi coronata di fiori e stuprata negli abbracciamenti del più vile dei tiranni! – Non rappresentanti di quella turpe genía che provvede i consorti e cointeressati, ma rappresentanti della dignità Italiana, insofferenti d’insulti stranieri, e di soprusi nostrani. – Maestri gloriosi della generazione ventura libera dai preti e dai dominatori!

Talamone, uno dei più bei porti della costa Tirrena, è situato tra il monte Argentaro e l’isola d’Elba, coronato di belle colline coperte di macchie, cioè deserte.

E che serve all’Italia d’aver dei bei porti e delle terre ubertose, quando i suoi governi ad altro non pensano che a far dei soldi per pascere le classi privilegiate, ed obbligar colla forza, coll’astuzia e col tradimento alla miseria ed al disonore le classi laboriose?

Talamone, nel tempo della visita dei Mille, aveva un povero forte, poveramente armato, comandato da un ufficiale e da pochi veterani. I Mille avrebbero trovato cosa facile impadronirsene, anche scalandolo. Ma non sembrò conveniente, perchè si sarebbe fatto del chiasso, e poi non s’era certi di trovare in quel sito quanto abbisognava, mentre nel vicino S. Stefano, ove esisteva altro forte ed un battaglione di bersaglieri, v’erano più probabilità di trovarvi il necessario.

Ostilmente, dunque, no; conveniva adoperare un po’ di tatto, ed all’amichevole. E qui valse un bonetto da generale che per fortuna il Comandante della spedizione aveva aggiunto al suo bagaglio. Quel bonetto da generale, agli occhi dell’ufficiale veterano, ebbe un effetto stupendo, e metamorfosò in un momento il Capo rivoluzionario in Comandante legale. Si ottenne in Talamone quanto vi fu disponibile, ed il generale Türr, inviato a S. Stefano, potè procurarsi il resto del bisognevole.

In quest’ultimo porto si fece anche provvista di carbon fossile5.

Il bonetto generalesco, a cui si dovette in parte la riuscita della nostra impresa, nei porti toscani, non garbò ad uno dei capi del purismo, che si trovava nella spedizione. Egli trovò infranti i principii ed i Mille poco puri – e non mancò di manifestare il suo malcontento ai compagni. – Ma, lo ripeto: I Mille non eran gente da tornare indietro per fare delle dottrine, quando si trattava di menar le mani contro gli oppressori dell’Italia.

E, mortificato l’incorruttibile puro, se ne tornò a casa solo a fare la guerra colla penna.

Da Talamone, comandati dal colonnello Zambianchi, si staccarono una sessantina di giovani per sollevare le popolazioni soggette al papato, e coll’oggetto di distrarre i nemici e cagionare una diversione. Tale spedizione, benchè poco fortunata, non mancò di confondere i governi Italiani sulle reali intenzioni dello sbarco dei Mille6.

«Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni, Leardi e tutti sarebbero stati degni, come sempre, dei loro compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti di Calatafimi e di Palermo».

CAPITOLO IV
DA TALAMONE A MARSALA

 
Felice te, che il regno ampio di venti
Ippolito a tuoi verd’anni corresti.
 
(Foscolo).

Abbiam munizioni, capsule, ed alcuni vecchi cannoni senza fusto. Che monta? li faremo.

E non sono tutte simili le fazioni di popoli contro i tiranni? Ma là v’è la coscienza del diritto e quella risoluzione che agevola le più difficili imprese.

Il Dispotismo ha dei mercenarii disciplinati, è vero, ben nutriti, ed uniformati. Ma guai a voi, padroni, se siete lenti a somministrar grassi stipendi. Essi vi fucileranno colla stessa sanguinaria indifferenza, come fucilano oggi gli sventurati che si lamentano delle vostre depredazioni.

Vogate, nobili piroscafi! Vogate, voi portate tal gente che fa l’orgoglio d’una nazione oppressa, calunniata, ma con una storia, accanto a cui si inchinano le storie dei più grandi popoli della terra.

Questa gioventù brillante è accompagnata dai palpiti e dalle benedizioni delle madri, delle spose, delle amanti, e da quanti cuori generosi sentono la dignità della patria e l’insofferenza di dominio straniero.

L’onde azzurre del Tirreno, increspate dal zeffiro, dondolavano dolcemente i piroscafi, che vogavano a tutta velocità verso il loro destino, e pochi eran gli Argonauti afflitti dal mal di mare. Male che non ben si definisce, poichè fortissime nature vi son soggette, mentre persone gracili non ne risentono i nauseanti effetti.

Come autorità incontestabile si dice: il grandissimo tra gli Ammiragli moderni, Nelson, soffrisse di tale disagio.

Sulla tolda del Piemonte un alterco non sanguinoso certamente, succedea tra il pacato maggiore Bassini ed il focoso tenente Piccinini, il primo di Pavia, e figlio il secondo delle valli Bergamasche, ambi valorosi. E ciò che prova non esser essi affetti dal male di mare, si è che la disputa proveniva dalla distribuzione del rancio.

Era proprio curioso veder l’eccellente Bassini inarcar le ciglia con un’aria d’autorità che gli dava il grado, ma che non sentiva in fondo, essendo di natura amorevole ed affettuoso anche coi minimi suoi subordinati.

Il Piccinini, più nerboruto ed ardente del suo superiore, aveva tutt’altro che intenzione di perdergli il rispetto, ma iniziata la controversia, e credendo aver ragione, ripugnava di cedere in presenza de’ compagni affollati a contemplarli.

Più curioso ancora era osservare quella massa di giovani, fra cui molti studenti e professori, appartenenti a più cospicue famiglie, osservarli, dico, colla loro scodella alla mano, divorando cogli occhi la caldaia, ed aspettando impazienti e silenziosi che finisse la questione tra i due veterani ufficiali. E devo confessare, a scapito della disciplina volontaria, che l’alterco non si disponeva a terminare molto presto, se non succedeva il fatto seguente che vi pose fine.

«Un uomo in mare! un uomo in mare!» si udì dalla prora del Piemonte, e si ripetè in un momento fino alla poppa.

E veramente un corpo umano vedevasi scorrere lungo il fianco sinistro del piroscafo, passar fuori delle ruote e lasciato indietro in un momento. Si fermò la macchina, si sciò7 indietro e cinque dei nostri marini furono in un istante sull’ammainato palischermo di sinistra e salvarono il pericolante compagno.

Quand’io penso a quella classe privilegiata d’uomini di mare, sì svelti, sì coraggiosi che si dondolano graziosamente su d’un pennone nelle tempeste e qualche volta al più alto dell’alberatura, mi torna il prurito dell’antica professione, e ricordo con compiacenza l’ammirazione e l’affetto che in tutta la vita ho nutrito per il buono ed ardito marinaro italiano.

Per la sventurata condizione del suo paese, il marinaro italiano è obbligato di cercare impiego sui legni stranieri d’ogni nazione. Dalla Francia alle Indie voi lo trovate dovunque, e dovunque stimato e portato in palma di mano (come diciamo noi marini), perchè a nessuno la cede in abilità, laboriosità e coraggio.

Il Perù, il Chilì, e tutta la costa americana del Pacifico, è zeppa dei nostri arditi navigatori.

Nel Rio della Plata, dal palischermo che vi sbarca, al piroscafo ed alla palandra che vi conducono nell’interno di quei fiumi immensi, son quasi tutti italiani.

Ed il Governo italiano sa esso di avere il fiore dei nostri marinari sparsi sulla superficie del globo? Dico fiore, poichè sono veramente i migliori, coloro che insofferenti di miserie e di depredazioni si lanciano nelle avventure di vagante vita in lontane contrade.

Il governo sa d’aver molti marinari, e per le sue belle imprese li trova anche eccellenti. Io sono comunque d’avviso, che sebbene non sianvi i migliori marini a bordo dei nostri bastimenti da guerra, la colpa delle nostre sconfitte sarà sempre unicamente per direzione pessima.

O Carambollo! perchè non ti ricorderò ai nostri concittadini! Forse perchè, semplice marinaro? E che importa! tu eri tanto buono, tanto agile, e coraggioso da servir di tipo al vero marinaro italiano.

Carambollo, compagno mio a bordo di una fregata francese destinata a Tunisi nel 1835, aveva fatto parte dei marinai della guardia, nella campagna del 1812 in Russia quando gl’Italiani erano legati al carro del primo Bonaparte. E in tutte le sue parodie il 3º Impero è pervenuto anche oggi ad assoggettare questo infelice nostro popolo!

Non era dunque più giovane Carambollo; ma quando si divertiva a volare da un albero della fregata all’altro, appena tenendosi colle mani o coi piedi, egli levava tutti in ammirazione.

Il salvato dalle onde manifestò alcuni segni di pazzia, e forse egli si gittò col proposito di raggiungere il Lombardo che veniva dietro il Piemonte; la freschezza del mare però tornandolo a più savi consigli, egli mostrossi espertissimo nuotatore lottando per raggiungere il palischermo che vogava alla di lui direzione.

Il contrattempo delle munizioni, nella prima notte del nostro viaggio che ci obbligò di andare a Talamone e quello del pazzo che ci ritardò alquanto, influirono certamente al buon esito della spedizione. E veramente avendo toccato nel porto suddetto fuori d’ogni previdenza ci sviammo dalla retta che va da Genova all’Occidente della Sicilia. Il benefizio del ritardo, cagionato dal pazzo, lo vedremo al nostro arrivo a Marsala. La traversata si compie senza altri incidenti, e l’alba dell’11 maggio ci trovò all’atterraggio del Marittimo.

CAPITOLO V
MARSALA

 
L’immacolato tricolor dolenti
Sì noi macchiammo per veder risorti
Della Romana Italia i macilenti
Nipoti a un fascio e a un camminar consorti.
 
(Autore conosciuto).

Eccola! l’isola dei portenti; la patria di Cerere, d’Archimede e dei Vespri, cioè dell’intelligenza e del valore. – Archimede, prototipo dei favoriti dell’Onnipotente, trovava il globo da lui abitato cosa insignificante, paragonato all’infinito, e chiedeva una leva, il manico d’una scopa, per smuovere questo domicilio d’insetti.

I Vespri! E qual popolo della terra ha i vespri? – Roma cacciò i Tarquinii; Saragozza i Napoleonidi; Genova e Bologna gli Austriaci, ma chi, come questo invitto popolo, esterminò in poche ore un esercito formidabile d’oppressori senza lasciarne vestigio? Fatto unico nella storia del mondo!

La direzione dei Mille era pur Sciacca8, ma l’ora tarda consigliò d’approdare al porto più vicino di Marsala.

La pesca è per il laborioso popolo di Sicilia un mezzo d’industria non indifferente, e l’isola in tutte le sue coste è solcata da molte barche pescherecce.

I Mille avean bisogno di conoscere se v’erano legni da guerra in Marsala, e quindi si corse sopra un pescatore per aver informazioni. Il pescatore che servì anche da pratico, informò che soltanto una corvetta inglese giaceva all’áncora su quella rada; che però varii bastimenti da guerra n’eran partiti alla mattina con direzione a levante verso Capo S. Marco.

E veramente verso Capo S. Marco si scorgevano due vapori ed una fregata nemici che si diressero su di noi subito scoperti.

Qui corse all’idea di molti che il ritardo in mare per ricuperare il pazzo fu giovevole.

Giunti a Marsala i due piroscafi, s’incominciò subito lo sbarco, aiutati dai palischermi di varii legni mercantili ancorati nel porto.

Il Generale Türr, con una compagnia di avanguardia, marciò immediatamente verso la città, ove non vi fu resistenza. Intanto i Mille sfilavano coperti dal molo, e poco curando una pioggia di granate e mitraglie che il naviglio Borbonico inviava a profusione, e che per fortuna non cagionò feriti.

A Marsala si parlò di dittatura, che poi venne proclamata a Salemi nel giorno seguente, e si confermò il motto: Italia e Vittorio Emanuele. Savia deliberazione che, non ostante l’opinione contraria dei puri (manifestata in seguito), giovò non poco a facilitare la spedizione.

Il 12 maggio si giunse a Salemi, ove si cominciò ad aver la riunione d’alcune squadre di Siciliani.

Il 13 si giunse ad una tenuta campestre, il di cui proprietario credo fosse un Mistretta.

Il 14 a Vita, ove s’ebbero notizie trovarsi il nemico a Calatafimi.

Il glorioso 15 maggio decise della sorte della campagna.

CAPITOLO VI
CALATAFIMI

 
Vittorioso!
Non catafratto un popolo
Dalla battaglia uscir!
 
(Berchet).

L’alba del 15 maggio trovò i Mille disposti a battaglia sulle alture di Vita, piccolo villaggio di quel nome, e dopo poco il nemico usciva in colonna da Calatafimi alla nostra direzione.

I colli di Vita sono fronteggiati verso tramontana dalle alture chiamate Pianto dei Romani; distanti un miglio circa dalla città di Calatafimi, ove esiste la tradizione: esser stati i Romani disfatti in quel sito dai Siciliani, collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si scoprono le ruine non lontane al settentrione.

Dalla parte di Calatafimi le alture suddette hanno un dolce declivio: il nemico le ascese facilmente e ne coronò i vertici tutti. Così rimase colla fronte appoggiata alla parte scoscesa che guardava verso i Mille.

Occupando noi le alture opposte a mezzogiorno era forse più conveniente di aspettarlo che iniziare l’attacco. E veramente spiegammo i Carabinieri Genovesi, in catena, sull’ultimo ciglione della posizione nostra verso il nemico.

Le compagnie restanti dei Mille scaglionate indietro ed in colonna, e la nostra povera ma valorosa artiglieria sullo stradale alla nostra sinistra.

Il nemico credendo d’aver a fare forse colle sole squadre, essendo i Mille al coperto, inviò baldanzoso alcune catene di tiratori con adeguati sostegni e due pezzi di montagna.

Giunto a tiro, esso cominciò a far fuoco, e continuò ad avanzare su di noi. L’ordine tra i Mille era di non sparare ed aspettare il nemico vicino; quantunque già i prodi Liguri avessero un morto e varii feriti.

Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una sveglia americana, e l’avanguardia nemica come per incanto fermossi e forse i suoi capi si pentirono d’aver avanzato tanto. – I Borbonici capirono di non aver a che fare colle sole squadre, e le loro catene cominciarono un movimento retrogrado.

I Mille toccarono allora la carica – i Carabinieri Genovesi in testa e con loro un’eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie ed impazienti di menar le mani.

L’intenzione della carica era di fugar l’avanguardia nemica e d’impossessarsi dei pezzi – ciocchè fu eseguito con un impeto degno dei campioni della libertà italiana – non però di attaccare di fronte le formidabili posizioni occupate dal nemico con molte forze.

Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico? – Invano le trombe toccarono: Alto! I nostri o non le udirono o fecero i sordi, e portarono a baionettate l’avanguardia nemica sino a mischiarla col grosso delle forze Borboniche che coronavano le alture.

Non v’era tempo da perdere, o perduto sarebbe stato quel pugno di prodi – e subito dunque si toccò a carica generale, e l’intiero corpo dei Mille accompagnato da alcuni coraggiosi delle squadre, mosse a passo celere alla riscossa.

La parte più pericolosa dello spazio da percorrersi era nella vallata che ci divideva dal nemico. Ivi pioveva una grandine di moschetterie e mitraglie che ci ferirono un bel po’ di gente.

Giunti poi a piede del Monte Romano, si era quasi al coperto delle offese, ed in quel punto i Mille, alquanto diminuiti di numero, si aggrupparono alla loro avanguardia. – La situazione era suprema! Il nemico più forte di noi in numero, era lì sulla testa nostra in posizioni fortissime! – Eppure bisognava vincere! – E con tale risoluzione si cominciò ad ascendere la prima banchina.

Non ricordo il numero, ma certo eran varie le banchine che ci dividevano dai Borbonici.

Ed ogni volta che si avanzava dopo aver preso fiato, da una banchina all’altra, era una grandinata di palle. – E noi! – Mi fa ribrezzo il ricordarlo! i catenacci che ci aveva regalati il Governo Sardo, ci negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull’eroiche fisonomie di quei giovani, che spero saran presi ad esempio dalla generazione che segue, destinata a compiere l’opera santa.

Qui pure fu grande il servizio reso dai figli della Superba9 che armati delle loro buone carabine, sostenevano l’onore delle armi. – Tutti poi corrispondendo all’intemerata risoluzione di andar avanti, finirono coll’affidarsi al freddo ferro delle loro baionette.

Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne, se all’ultimo mio respiro – i miei amici vedranmi sorridere l’ultimo sorriso d’orgoglio – esso sarà ricordando – Tu fosti il combattimento più glorioso di popolo!

I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d’una nazione oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei Trecento di Sparta o di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione – e formidabile – ed i soldati della tirannide brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti a loro!

Come potrò io scordare quel gruppo di giovani, che tementi di vedermi ferito, m’attorniavano, facendomi del loro prezioso corpo un baluardo impenetrabile!

Se io scrivo commosso a tali memorie, ne ho ben donde! E dover mio non è forse di ricordar, fra i molti, almeno i nomi di quei valorosi caduti: Montanari, Schiaffino, Poggi, Elia?10.

CAPITOLO VII
LINA E MARZIA

 
E tu i cari parenti e l’idïoma
Desti a quel dolce di Calliope labbro
Che amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candissimo adornando
Depose in grembo a Venere celeste.
 
(Foscolo.)

Ma chi furon quei due giovinetti che nel gruppo dei più arditi tra gli Argonauti volevan precederli verso il nemico gareggiando a chi doveva affrontarlo pel primo?

Essi son diversi di forme, l’uno pare un figlio della Germania, colla sua capigliatura bionda, che non potea esser nascosta da un bonetto cui s’attortigliava graziosamente una fascia di seta; l’altro bruno di volto e di capelli, somigliava piuttosto ad un meridionale italiano. Ambi imberbi, ciocchè li mostra giovanissimi. La foggia del vestire è quasi identica, alquanto più accurata del resto dei Mille, ma modesta. E veramente non v’era sfarzo nella famosa schiera.

Giovanissimi sì, ma il moschetto lo maneggiavano da veterani, e siccome tali armi eran pure armi regie, di cui accennammo più sopra, i crik dei colpi falliti eran numerosi e la speranza della vittoria riposava sull’innestata baionetta.

Tra i numerosi giovani studenti v’eran pure imberbi, bellissimi di volto e della persona, ma nessuno certamente pareggiava la squisita bellezza dei nostri due dell’avanguardia. Il loro volto, come abbiam detto, di colore diverso, colpiva lo sguardo colla nobile beltà della robusta Cinzia, indomabile cacciatrice. I contorni dei loro fianchi però accusavano, più d’alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del sesso gentile.

E veramente mentre, in un momento di sosta sotto una delle banchine descritte nel capitolo anteriore, io contemplava quella bellissima e valorosissima copia davanti a me – P… diretto a Nullo diceva: «È inutile! queste ragazze non vogliono stare indietro».

Io informato sino a quel momento che una sola del sesso gentile11 faceva parte della spedizione, venni così a sapere esser esse di più.

Nel turbinìo dell’assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature. – E per un momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della bellezza, mi sembrò d’esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e le dee presiedevano agli eventi delle battaglie.

Le due eroine, giacchè le conosciamo donne, avevano perduto nella mischia i loro fez (bonetti) e turbanti; dimodochè una capigliatura d’oro ed una d’ebano avean per un momento svolazzato sull’altipiano del Pianto del Romani. – Esse indispettite d’essere state svelate, misero le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico. – Le due coraggiose sarebbero forse giunte a Calatafimi la stessa sera, se P… e Nullo, l’eroe della Polonia – ferito in un piede, correndo sopra il sano solo – non le avessero fatte tornare indietro.

La sera di quel glorioso giorno, io stanco, mi riposavo nella vallata che divide Calatafimi dal Pianto dei Romani; quando P… presentossi a me con quelle due belle figure che tanto m’avean colpito nella giornata.

«Lina, mia sorella, mi disse, viene colla sua compagna Marzia, a chiedervi perdono, d’aver trasgredito l’ordine di non potersi imbarcare donne nella spedizione».

«Lina è dunque figlia delle belle valli lombarde», io risposi: non potendo decidermi ad un rimprovero, ed un poco sorpreso da tale visita; poi alquanto rinfrancato: «quando per una trasgressione si acquistano tali valorose come sono vostra sorella e la compagna, io, che non sono un modello d’ordine, posso bene accomodarmivi».

Un momento di silenzio seguì l’interessante colloquio, e vedendomi fiso al volto di Marzia, P… riprese: «Marzia è Romana, e non possiamo dirvi altro di essa, poichè ella stessa non ci ha fatto sapere di più». E senza aspettare la mia risposta, P… continuò: «Non vogliamo tediarvi, poichè dovete essere stanco».

«Lina vuol presentarvi un mantello incerato, tolto ad un ufficiale nemico, e che vi servirà, sprovvisto come siete, per coprirvi dalla rugiada», e senza darmi tempo di ringraziare, i tre si dileguarono nelle tenebre.

Io m’addormentai, sognando di battaglie, di dee, di genii, d’Italia intiera risorta, e la sveglia, con cui il mio tromba avea petrificato il nemico nel giorno antecedente, mi destò colla piacevole notizia: che il nemico avea abbandonata Calatafimi.

E fu veramente grata tale notizia, poichè tenendo il nemico Calatafimi, noi avremmo dovuto ben sudare per impossessarci di quella formidabile posizione.

5.Il comandante Giorgini, facilitando ogni cosa, si acquistò il titolo di benemerito della patria. Il governo però non mancò di punirlo per la sua condiscendenza.
6.In proposito di codesti giovani, che poi non si vollero considerare come facienti parte dei Mille, il generale Garibaldi, in data 25 maggio 1869, scriveva una lettera la quale conteneva la seguente dichiarazione. «Fu per ordine mio che la spedizione Zambianchi in Talamone si staccò dal corpo principale dei Mille per ingannare i nemici sulla vera destinazione di detto corpo.
  «Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni, Leardi e tutti sarebbero stati degni, come sempre, dei loro compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti di Calatafimi e di Palermo».
7.Espressione usitatissima, che significa vogar indietro, e che richiude un pleonasmo, poichè sciare significa retrocedere, senza bisogno dell’indietro.
8.Città.
9.Genova.
10.Merita d’essere ricordata la gloriosa morte dello Schiaffino e l’orribile ferita che ebbe Elia nella battaglia di Calatafimi. Ecco come l’Elia stesso la racconta in una lettera al Dott. Riboli. «Io non era aggregato a compagnia nè a battaglione. Fra Menotti Garibaldi, Schiaffino e me, si era stabilito un patto di non accettare pel momento alcun servizio, ma tutti e tre rimanere al fianco del Generale. Allorchè i Cacciatori napoletani, che provarono ad assalire i nostri, si dovettero ritirare inseguiti dai Carabinieri genovesi, Menotti, Schiaffino colla bandiera, ed io ci slanciammo dietro ai fuggenti, ma tanta fu la nostra foga entusiastica, che arrivati su l’erta posizione nemica, ci accorgemmo d’esser soli, ed era naturale che dovessimo pagare il fio della nostra arditezza. Diffatti il bravo Schiaffino cadeva trafitto da numerosi colpi, e lo stesso sarebbe avvenuto a Menotti che, nel raccogliere la bandiera, fu ferito in una mano, se io abbracciatolo, non mi fossi lasciato cadere con lui da un rialzo, che formava una specie di trincera. Quivi rimasti un poco a prender fiato, io nel volgermi per rispondere al capitano Frescianti che mi chiedeva cartucce, vidi che il generale Garibaldi, distante un buon tratto dalla colonna garibaldina, s’avanzava solo a piedi contro l’inimico. Immediatamente mi slanciai verso di lui, e raggiuntolo, mi sovviene avergli indirizzato queste parole: Generale, perchè esporvi così? Una palla che vi colga siam perduti noi e con noi l’Italia nostra. Egli rispose col grido di avanti e roteando la sua spada ad incoraggiamento, invitava all’assalto le nostre colonne. Io avea appena pronunciate le suddette parole, che, volta la faccia al nemico, vidi che un cacciatore napoletano, avanzatosi verso di noi, spianava la sua carabina alla direzione del Generale. Ebbi appena tempo di fare un passo avanti, e un colpo terribile mi colse alla bocca, e mi stramazzò a terra col ventre in alto. Pareva che soffocassi, e nel mentre cercava di rivolgermi, il generale Garibaldi s’inchinò verso di me e mi indirizzò queste parole: Coraggio, mio Elia, di queste ferite non si muore. E stese la mano per istringere la mia». E difatti il bravo Elia non morì; rimase colà finchè la battaglia fu vinta dai garibaldini; poi, dopo mille stenti, fu portato a Vita col volto sì fattamente sformato, che il suo amico Dott. Ripari non lo conobbe; quivi gli fu estratta la palla, poscia fu curato a Palermo nella residenza del Generale, divenuto dittatore, indi, quando questi entrò nelle Calabrie, fu condotto a Bologna, ove guarì sotto la cura del ben noto Prof. Rizzoli.
  Nota del Comitato).
11.La signora Crispi.