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Читать книгу: «Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico», страница 7

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LETTERA VII.
Dove si parla d'una gita a Capri

Napoli, 25 maggio 1877.

Quante serate ho passato, con gli occhi fissi e l'ansia degl'innamorati nel core, a contemplare quell'isola incantatrice!

Appoggiato alla spalletta lungo la marina al Chiatamone, posavo i miei sguardi desiderosi su le sue balze romite, e data la via a tutta la suppellettile di romanticismo che ogni buon realista deve portar seco necessariamente per le occasioni straordinarie, mi perdevo in un oceano di dolcissime fantasie, concludendo col domandarle: – E quando mi sarà possibile salutar Napoli dalla cima del tuo Solaro, o Capri maravigliosa? – Capri non mi rispondeva ed io, voltandomi indietro ogni tanto a darle un'altra occhiata, mi allontanavo adagio adagio, finchè, dopo aver destato con un caldo addio gli Echi del Castel dell'Ovo, correvo a spegnere i miei bollori romantici intorno alla mole parallelepipeda d'un gelato partenopeo.

Sono stato finalmente a Capri, dove ho passato due giorni di delizia, ed ora voglio dartene qualche ragguaglio.

La traversata fu abbastanza monotona, perchè il mare era troppo tranquillo e la compagnia non troppo adatta alla mia indole ed alla circostanza. Una banda di sei camorristi mascherati da suonatori che strapazzarono il Verdi, il Rossini e le mie orecchie, finchè non fummo arrivati, ed una comitiva numerosa di pellegrini francesi e tedeschi, che presi crudelmente dal mal di mare miagolarono per tutta la traversata, erano i compagni che la sorte m'aveva regalati e mi vi rassegnai. Me ne corsi a prua, mi accavalciai sull'albero di bompresso, lontano dalle armonie e dai conati, e lì sognando di cavalcare un mostro marino, padrone dei venti e dell'Oceano che mi brontolava timido ai piedi, bevvi a sorso a sorso il fascino di quell'isola agognata, che mi rivelò ad uno ad uno i misteri de' suoi seni profondi, delle sue vallicelle fertili e solitarie e de' suoi picchi severi, correndomi incontro su le acque, ed ingrandendo a' miei occhi ad ogni passo la sua mole tranquilla.

Avevo trovato la pace, ma per un momento fu seriamente minacciata.

Un vecchio ossuto e brontolone che aveva già avuto che dire col secondo e con lo sguattero di bordo, mi raggiunse anche lassù. Mi si accostò adagio adagio, e quando mi fu vicino mi raccontò, ma col tono solenne di chi ha fatta una grande scoperta: – Divino questo cielo d'Italia! – Le dieci e mezzo precise, – risposi io, tirando fuori l'orologio. – E lui: – Eeeh? – E io: – Eeeh? – Divino questo cielo d'Italia! – ripetè forzando la voce. – Dite più forte, non v'intendo, – e m'accennavo l'orecchio. Lo feci sgolare per una diecina di minuti, dopo i quali, come Dio volle, ebbi la gioja di vederlo allontanare non soddisfatto, ma tutto pace e compunzione, ed ottenni così il mio scopo di restarmene solo, lontano dalle distrazioni ed in compagnia delle mie stravaganti illusioni. Ma Dio non paga il sabato. C'incontrammo lo stesso giorno alla locanda a tavola rotonda, e me lo trovai proprio accanto! Che si fa? Per liberarmi da spiegazioni che potevano essere nojose, mi toccò fare il sordo tutto il tempo del desinare, e se soffrissi non lo so altro che io con la voglia che avevo addosso di espandermi e di parlare da per tutto e con tutti, di tutto e di tutti, e di ridere e di chiassare strepitosamente. Ma me l'ero meritato.

Il battello intanto filava allegramente, e presto arrivammo in prossimità d'una riva solitaria, irta di scogliere maestose, dove, appena dato fondo, una folla di piccole barche ci si avventò incontro, per condurci in quella caverna fatata, in quel fantastico gineceo delle Nereidi, che tutto il mondo conosce sotto il nome di Grotta Azzurra.

Che natura meravigliosa è questa! che prodigio della creazione è questo golfo superbo, questo cielo, queste isole, questo mare, dove non è lecito muovere un passo o guardarsi d'intorno, senza incontrar sempre nuove cause d'entusiasmo e di stupore! La Grotta Azzurra deve essere un inganno per le anime volgari che la vedono la prima volta. Avvezzi tutti a sentirla cantata ed a vederla dipinta come uno scenario a festoni imbevuti nel turchinetto, lunga lunga e azzurra azzurra, devono trovarsi necessariamente sconcertati, quando si accorgono che non è nè spaziosa nè azzurra come l'idea che se n'erano formata, ma raccolta e colorata di un verde mare metallico a riflessi d'argento lucentissimi, e più bella e più poetica di quello che fantasia umana possa immaginare. Io pure ho provato questa prima impressione, e ne sarei escito malcontento, se trattenendomi là dentro non mi fossi sentito, a poco a poco, trasportare in uno stato di estasi dolcissima.

La luce scaturiva dalle acque profonde, ma era luce che mi pareva soprannaturale; era una luce fosforescente, in mezzo alla quale vagavano, lenti lenti, gruppi di pesci fantastici, vestiti dei colori dell'iride, e su le pareti e sul fondo incerto della vôlta vedevo strisciare danzando fantasmi d'argento alati, e dissolversi e ricomporsi rapidamente in mille forme bizzarre. Le mie idee cominciarono a smarrirsi, e non sapendo più credere che quelli erano i riflessi delle onde leggermente agitate, mi trovai perso in un mare di sogni soavi. Sognai di Fate e di palazzi incantati, dove mi pareva trovarmi in forza di qualche magìa; pensai al lago fragrante del Profeta e mi addormentai all'ombra odorosa del Taba, aspettando la voce melodiosa d'Izzafril, che mi chiamasse alle eterne voluttà del Genna; sognai i letti di musco e di canfora e i lunghi amplessi delle Huris dalla nera pupilla, e chi sa che capata avrei battuto negli scogli della bassa apertura che mette alla grotta, se il barcarolo non mi avesse strappato a' miei sogni strillandomi: Signurì, Signurino, abbasciate 'a capa! ed uscii meditabondo e confuso dalla fatata caverna.

Sbarcati alla marina di Capri, i miei compagni si allontanarono presto, chi a piedi, chi facendo dama su un branchetto di somarelli che aspettavano presso lo scalo, e rimasi finalmente solo.

Che quiete beata mi contornò allora! Pochi pescatori stavano a sedere su la rena, rassettando reti, i quali cantando sotto voce pareva non volessero turbare il silenzio di quella riva solitaria, ed un gruppo di bambini saltellanti e di giovinette fresche e gentili mi furon subito intorno, offrendomi pietruzze colorate e rose. Ero in uno stato di assoluta beatitudine. Mi voltai al mare. Il Vesuvio lontano fumava, e Napoli con una sottilissima striscia biancastra segnava il limite fra i due campi sterminati d'azzurro, del cielo e del mare. Messomi a sedere sopra uno scoglio davanti al grande spettacolo, quello che godessi non lo so; che cosa si dicessero fra loro in quei momenti il mio core e il mio cervello, nemmeno saprei dire; ma so che il core mi doleva, e che le grandi gioje dell'animo somiglian troppo al dolore, tanto è impastata male questa povera creta umana.

Mi alzai dopo poco, e prendendo su per una straduzza ripida e tortuosa, accompagnato dalla mia dolorosa contentezza, m'incamminai verso la piccola città di Capri. Andandomene su su, e ripensando alla storia di quest'isola singolare, e più che altro alla sinistra figura di Tiberio, non mi sarei mai immaginato che quel po' di ridicolo che avrei trovato per divagarmi su quelle spiaggie malinconiche dovesse appunto venirmi da lui. Tutto là è Tiberio, o meglio Temberio, come lo chiamano quei pacifici isolani: Hôtel Temberio; Villa di Temberio; Bagno di Temberio, Piazza di Temberio, Salto di Temberio, Temberio insomma da tutte le parti, ed io ne ho riso di grandissimo core, quando per curiosità o per sentirmelo ripetere domandavo spesso a quella buona gente: – E quelle rovine? – Il castello di Temberio. – E quella casa? – Hôtel Temberio. – Lo strapazzo che si fa del nome di Tiberio su quell'isola non ha confronto con altri di simil genere.

Povero Tiberio, quanta ferocia sprecata per render pauroso col suo nome questo romantico teatro delle sue ultime orgie sanguinose! Presso la rupe, dove il voluttuoso assassino precipitava in mare le sue vittime, è ora una bianca casetta, e presso a questa casetta un fresco pergolato, all'ombra del quale vidi due brune e spensierate figlie dell'isola ballare al suono di cembalo e di nacchere la tarantella.

Ogni cosa è piccola in quest'isola: le strade strette; le case piccine piccine, i muri di cinta, bassi bassi; le piante rigogliose, ma piccole anche quelle, e fa meraviglia che anche gli uomini non si siano misurati al metro di tutto ciò che li circonda. Le loro casuccie rimpiattate fra i ciuffi di cedri e di olivi sembrano bianche scatolette, appena capaci di contenere una famiglia di pigmei, ed ho riso della stonatura che facevano coi loro abitanti, tutte le volte che scorgevo comparire su la porta d'uno di questi edifizj lilliputtiani un uomo, che fregando le spalle agli stipiti e toccando con la testa l'architrave sembrava due volte almeno più grande del vero. Quando poi qualcuno si affacciava alle finestre, mi parevano addirittura ritratti di figure colossali, incastrati in un'angusta cornice.

Tutta questa piccolezza poi diventa notabilissima nella piccola città di Capri (Crape per quegli abitanti), girando per la quale mi pareva trovarmi dentro una casa, di cui la gran piazza rappresentasse una modesta sala d'ingresso, e le strade, gli anditi di comunicazione fra quella e le altre sue piccole e luminosissime stanzette. Le comarelle che stanno a filar seta su la porta di strada, si porgono fra loro le bionde matasse e si dicono negli orecchi i loro innocenti segreti, da un lato all'altro della via, senza muoversi da sedere. Sembra tutta una famiglia; una buona famiglia ordinata e pulitissima, in mezzo alla quale ci troviamo cordialmente ospitati, perchè tutti vi guardano, o vi salutano o vi sorridono piacevolmente. Quanto debbono esser buoni i Capresi, che riuniti in così numerosa famiglia vivono in tanta pace ed hanno negli occhi tanta allegrezza serena! Avrei abbracciato tutti e soffrivo realmente non potendomi espandere con nessuno.

Quando andai a visitare la piccola cattedrale, fermò la mia attenzione un chiodo piantato nel muro presso una piletta d'acqua santa. Domandai di quel chiodo, e seppi che smarrendo per l'isola un qualunque oggetto, anche di gran valore, non s'ha da far altro che andare dopo un dato tempo a quel chiodo, dove certamente ritroveremo l'oggetto, che sarà andato ad appendervi colui che l'avrà ritrovato. Non ci credo, – dissi. – È la verità, signore, – mi fu risposto. Credei di sognare. Mi saltò allora in testa un'idea gigantesca. Se tanti chiodi simili si piantassero nelle cattedrali di tutte le metropoli d'Europa! Se si desse ai popoli un segno di tanta fiducia! chi sa? Gli uomini, in fin de' conti, non sono che fanciulli adulti, e nei fanciulli caparbii non è raro osservare sublimi reazioni, di fronte ad un atto improvviso di altissima stima che gli umilii. Si tenti dunque la prova; si metta il chiodo maraviglioso, ed io son qua per scommettere che se è di ferro e bene aggrappato, nessuno lo porterà via. —

Tutto ho veduto di questa pittoresca isoletta. Assistito dalle mie gambe di ferro, perchè là grazie a Dio non vi sono carrozze, e dalla mia volontà, non ho lasciato inesplorato un palmo di quel terreno. Dai Faraglioni al Capo Campetiello; dalla Grotta Azzurra alla Cala del Tuono, ora inerpicandomi con le mani e coi piedi, ora sdrucciolando giù per un piano inclinato, ora saltando da uno scoglio all'altro, in compagnia del mio vispo Peppino, un giovinetto che mi fu dato per guida dal mio locandiere in Capri, la girai tutta, e in tutti i versi l'attraversai cantando, ridendo e propinando ai Genj di quelle piccole solitudini, col baciare ripetutamente la mia fiaschetta di Cognac, ed ammettendo al mistico bacio anche il sospettoso Peppino, il quale, abbandonato dopo poco ogni ritegno, si slanciò fino a cantare con me quel soave rispetto della Montagna pistojese:

 
Quanti ce n'è che mi senton cantare,
Diranno: Bon per lei ch'ha il cor contento.
S'io canto, canto per non dir del male:
Faccio per isfogar quel ch'ho qui drento,
Faccio per isfogar l'afflitta doglia:
Sebbene io canti, di piangere ho voglia.
 

La nostra gita però non era affatto solitaria, perchè era caso raro che nei luoghi più pittoreschi non incontrassimo, intenti al lavoro sotto i loro ombrelli di tela, qualche pittore o pittrice, i quali ci salutavano in tutte le lingue d'Europa, tolta l'italiana, giacchè pittori italiani, forse perchè avranno trovato da far meglio in altre regioni, a Capri è difficile vederne. E questo non incontrare là nessun mio compatriotta, tanto più mi rincresceva, perchè il contegno di quegli ultramarini e ultramontani seguaci d'Apelle, fra quegli scogli, dei quali credono aver acquistato ormai il diritto di proprietà, è talmente altero da rattristare un povero Italiano che approdi su quell'isola, credendola in buona fede un frammento della sua patria. Anche gli abitanti, per lunga consuetudine e per così frequenti contatti con gli stranieri, tanto nei modi, quanto nella lingua, hanno quasi perduto il carattere italiano, che è loro rimasto solo nel tipo. Ma rispettiamo i decreti della Provvidenza, la quale si sarà forse servita di questi mezzi per far migliori i buoni Capresi.

Quando entrai nella piccola Ana-Capri, mi fu rammentata Pompei dalla solitudine delle sue bianche viuzze. Mi maravigliò tristamente tanto silenzio, ma poi seppi che quella popolazione di romiti agricoltori era tutta dispersa giù per gli scoscesi vigneti, che contornano la città. La girai silenzioso anch'io, parendomi villanìa il disturbare il riposo di quelle casette, che per la scarsità delle loro aperture e per la bianchezza abbagliante delle loro pareti mi davano tutte insieme l'idea come d'un mausoleo di neve innalzato dal Silenzio al Dio della luce. Non trovai altre immagini che mi contentassero.

Degli abitanti d'Ana-Capri vidi una sola donna dalle forme egizie e non bella, ed ebbi a rimanere estatico davanti alla bellezza strana del quadro che quella figura compose davanti ai miei occhi. Era sull'astrico della sua casetta a tender panni, ed io dalla via la vedevo campeggiare nell'azzurro del cielo. Il suo viso aveva la tinta di quel bruno lascivo della nigra fanciulla del Cantico de' Cantici; nerissimi i capelli avviluppati in una pezzuola gialla e rossa; il resto del suo vestiario bianco, bianchi i denti, bianchi i panni che tendeva al sole, bianca la sua casetta, e bianca mi pareva la sua voce, perchè cantava. Ah! non sapevo dipingere!

Avanti, avanti, Peppino! e riprendendo la via per certe strade, che parevano selciate dalla Società di mutuo soccorso fra i calzolari del Regno, ci avviammo alla cima del Monte Solaro, la più alta punta dell'isola.

Sentii su in alto un suono di trombe, e mi parve di vedere in lontananza alcune persone che si muovevano fra quelle rupi in mezzo al luccichio di armi o di altri strumenti di ferro, che parevano agitare all'aria. Erano soldati di linea, una piccola truppa di così detti discoli relegati nell'isola, i quali stavano occupati su quell'altura a costruire un fortino di terra. Anche quest'isola può essere un luogo di pena! riflettei. E che inventeremo allora per le ricompense? Ma non è possibile, pensai, che quei giovani non siano beati di un gastigo che somiglia tanto ad un premio. Non era vero. Lassù non si trovano nè bettole, nè bische, nè lupanari, e allora che cosa è la vita su quel maledetto scogliaccio? Così battezzava l'isola di Capri uno di quei rompicolli, il quale mi parlò, dando in escandescenze, ed invocando fervorosamente un terremoto che la inabissasse con tutta la canaglia che c'era sopra. Io non desiderai altro in quel momento che d'entrare per dieci minuti nell'animo suo. Gli dètti un sigaro prima che me lo chiedesse, e tirai avanti pel mio viaggio.

Si dissiparono presto le impressioni del disgustoso incontro, e vidi più bello che mai il maledetto scogliaccio, sul quale passeggiavo.

Il viottolo che percorrevo era fiancheggiato di gigli e di ginestre in fiore, e dal mezzo di queste ginestre, aprendole davanti a sè con le delicate manine, escì venendo verso noi la piccola Narella, la sorellina di Peppino, la quale con l'abbecedario sotto il braccio e tutta sorridente se ne tornava dalla scuola. Corse incontro al suo fratello, che da qualche giorno non vedeva, perchè Peppino sta a Capri e Narella ad Ana-Capri; lo salutò amorosamente coi suoi occhiolini lustri, eppoi rimase timida a guardarmi.

– Come ti chiami?

– Narella.

– E dove vai?

– Ad Ana-Crape.

– Di dove torni?

– Da scuola.

– Sai leggere?

– Sì.

– Sentiamo. —

Apri franca il suo libretto e incominciò. Dopo che l'ebbi lasciata un po' sfogare coi suoi: bab, bib e bub, le dètti un bel bacione su le sue gotuzze brune e la lasciai, pensando con dolore che forse non avrei più riveduto la piccola e graziosa Narella.

Più che belle, le femmine di Capri sono piacevoli e gentili per la gajezza che lampeggia nei loro occhi lascivi. La loro statura è piuttosto piccola, ma sono tanto proporzionate, che in tutta l'isola si cercherebbero inutilmente quei seni gloriosi che ingoffiscono alquanto le belle Napoletane.

Dagli avanzi petrificati che ho veduto delle graziose Pompejane, mi pare di poter credere che le calde figlie di Capri molto abbiano ereditato da quelle delle ravviate fattezze e dei delicati ed eleganti contorni.

La loro briosa intelligenza, poi, è qualche cosa di incantevole. Ed ora che le ho conosciute, intendo facilmente come spesso succedano matrimonj fra queste brune ammaliatrici e gli artisti che capitano nell'isola, i quali raramente hanno da pentirsene, perchè la facilità con la quale queste piccole pescatrici imparano le lingue e la musica, e la loro disinvoltura nell'acquistare modi e grazie signorili è tale, che in pochi messi la loro trasformazione è tanto compiuta da porle in grado di gareggiare in cultura e gentilezza con le più eleganti dame di Parigi, di Londra e di Pietroburgo.

Mi fu indicato il padre d'una di queste fortunate isolane e lo invidiai, perchè quando lo vidi era a sedere al sole sopra uno scoglio, fumando la sua pipa di gesso, mentre accomodava i sugheri ad un tramaglio.

Dopo un faticoso cammino di circa due ore, per un sentiero che negli ultimi tratti è una vera e precipitosa scala intagliata nel masso a larghi gradini, giungemmo alla chiesetta dell'Eremita posta sull'orlo d'un precipizio in cima alla montagna.

Avevo già conosciuto due eremiti di questi paraggi, e per dire il vero non ero rimasto molto edificato nè del loro aspetto, nè dei loro modi, nè del loro sapere. Uno di questi è l'eremita del Vesuvio, la cui serietà non impedisce ai monelli dei dintorni di chiamarlo col soprannome di Ventidue, che nel libro dei sogni fa pazzo. Costui non è nè prete nè frate, ma un bighellone qualunque che si maschera da cappuccino la mattina verso le nove, quando incomincia il passaggio dei forestieri, per vender loro, affettato, pane, caciocavallo e lacrimacristi, dice lui, e per prenderli dopo per il collo con ogni riguardo possibile e sopra tutto col santo timor di Dio. Un secondo della medesima stoffa lo trovai in Capri su la punta di Santa Maria del Soccorso, ma l'aspetto venerando e i modi austeri e dignitosi di quest'ultimo mi riconciliarono affatto con la specie e fui dolcemente toccato dalla onesta parola e dalla spontanea cortesia, con la quale mi accolse nel suo romitorio il buon padre Anselmo.

La chiesuola, nella quale egli uffizia e presso alla quale ha poche stanzucce, dove abita solo solo, si chiama Santa Maria a Cedrella, e sorge nel punto più pittoresco dell'isola.

Dalla punta di quello scoglio, che si slancia nudo nell'aria scaturendo fra bassi boschetti di sondro, d'assenzio, di rosmarino e di mortella, si gode in pianta il panorama intero dell'isola, e tutto il vasto orizzonte fino a perdita d'occhio, dal Monte Circello alle catene della Calabria, che si possono accompagnare con lo sguardo, finchè non si pèrdono nella nebbia della lontananza.

È una di quelle tante posizioni, di cui abbondano i dintorni di Napoli, e che non si possono descrivere altro che dicendo: «Son troppo belle!»

Mi trattenni col buon romito in piacevole conversazione circa due ore, nel qual tempo mi mostrò il suo orticello, i suoi fiori e mi serbò da ultimo la sorpresa dell'immenso panorama che di lassù si gode, conducendomi e portandomi da sedere e da rinfrescarmi sopra una terrazzetta scoperta, che sporgeva sopra un profondo burrone dalla parte del golfo. A quella vista rimasi come incantato, e senza pronunziare una parola stetti per qualche momento a guardare stupefatto ora la marina ora la faccia dell'eremita, che taceva e sorridendo ammirava, compiacendosene, lo stato di estasi, nel quale mi trovavo.

Non potei più contenermi. Padrino, – esclamai, – vuole un novizio? eccomi qua. – Fece una grassa risata ed accennandomi gli occhi, mi rispose: – C'è troppo fuoco costì dentro, vi annojereste dopo tre giorni. – Non è vero! – ripetei. – Datemi la mia famiglia, una buona stanza da studio, una ricca libreria, un cane ed un fucile per dar dietro alle quaglie di questi masseti, un buon cavallo da sella, una barca, un… – Credetti a un tratto che quel povero monaco volesse scoppiare dalle risa; io feci altrettanto, e, senza sapere di che, altrettanto fece Peppino di sul tetto della chiesa, sul quale s'era arrampicato per far qualche cosa anche lui.

Le nostre risa però durarono poco. Il riso non è fatto per destare gli echi delle montagne ed in specie quelli del Solaro e della sua Cedrella. La conversazione continuò taciturna per mezzo di monosillabi e di occhiate, che volevano dire tutto quello che un volume non direbbe, finchè non cambiò aspetto, quando di parola in parola venimmo a parlare dell'eruzione del 72.

La descrizione che il monaco me ne fece, dopo avervi assistito dall'alto del suo romitorio, fu sublime. Io stavo incantato ad ascoltarlo, mentre con enfasi meridionale di gesto e di parola mi descriveva il maestoso spettacolo; e il buon Peppino che stava attento anche lui di su la cima del tetto, ogni volta che mi vedeva fare atti di meraviglia, non mancava mai di ripetere: – È vero, signore, me ne ricordo anch'io. —

Il sole vicino al tramonto era già sparito dietro alla chiesuola che campeggiava in un'aureola di luce dorata, quando m'alzai a malincuore per dire addio a quel romantico soggiorno di pace.

Il monaco mi accompagnò fino su la porta, facendo voti per la mia salute, che io gli contraccambiai di grandissimo core, e prima di lasciarmi m'indicò, lì di fianco alla chiesa, un piccolo recinto, dove si vedevano 24 croci di legno uscir fuori fra i ciuffi di rose e di gigli fioriti.

– È il cimitero dei colerosi d'Ana-Capri, – mi disse il monaco, – se volete una rosa, prendetela. – Ci stringemmo la mano e partii.

Tutte le sere vado a passare un'ora su la marina al Chiatamone, e guardando l'isola illuminata dagli ultimi raggi del tramonto, penso al mio Peppino, alla piccola Narella, al buon padre Anselmo ed alle rose del Monte Solaro.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
170 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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