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Читать книгу: «Napoli a occhio nudo: Lettere ad un amico», страница 9

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LETTERA IX.
Spigolature

Napoli, 30 maggio 1877.

Ho finito d'annojarti. Una malaugurata matassa di combinazioni mi s'è intrigata fra le mani inaspettatamente, e stasera in qualunque modo debbo lasciar Napoli, e con Napoli tanti cari desiderj che forse resteranno insoddisfatti per tutta la vita. Sono di pessimo umore. Rivedrò la famiglia, rivedrò i vecchi amici e i miei luoghi, ma lascio Napoli! Chi non la conosce, amico mio, o quei diseredati che conoscendola non hanno gustato i vezzi di questa Circe, non possono intendere il core dell'amante ammaliato che, improvvisamente costretto, deve abbandonarla. Ed io mi cheto e guardando il mucchietto de' miei pochi bagagli lì in un canto che fra poco verranno con me a bordo del San Piero della Compagnia Valery, e le bocche spalancate e vuote del cassettone che mi guarda come se volesse anche lui brontolarmi un addio, ti scrivo, per annunziarti la mia partenza, queste ultime righe, che precederanno di qualche giorno il mio arrivo costà, perchè ho intenzione d'andare fino a Genova e di rientrare nella nostra poetica Toscana dalla via dell'Appennino.

Avrei molte altre cose da dirti di questo paese, ma ormai lo farò a voce; ed intanto ti faccio grazia d'una descrizione che doveva chiamarsi l'Imbrecciata, non disgustandoti così col racconto delle più oscene brutalità, nelle quali mi sia mai imbattuto passando in rivista le vergogne di Napoli, dell'Italia e del genere umano; risparmio la tua pazienza col racconto di altre gite che ho fatte a Pozzuoli, a Camaldoli, a Caserta ed in altri luoghi incantevoli, e ti lascio anche desiderare qualche parola che potevo averti scritta del San Carlino e del suo Pulcinella, riserbandomi a farti sentire tutto il meglio che sia stato detto di questo arguto e povero filosofo, di questa sottile personificazione dell'indole napoletana, portandoti un opuscolo d'un certo Arcoleo che leggerai con grande compiacenza. Ti risparmio tante e tante altre cose, e ti stringo la mano e ti saluto.

Sono già a bordo. Il battello che secondo l'orario doveva salpare alle quattro, partirà invece verso le sette a causa della enorme quantità di mercanzie che vi sono ancora da caricare. La stiva è già piena fino ai boccaporti, ed otto barconi stracarichi di botti e di balle son qui intorno per consegnarcele. Dove vorranno cacciare tutta questa roba e a che ora s'anderà via, non lo so, nè me ne dispiace. Riapro la lettera che consegnerò poi, perchè te la imposti, al nostro Enrico che è qui a bordo tutto addolorato per la mia partenza, e finchè vi sarà tempo te la infarcirò alla rinfusa del meno peggio che potrò raccapezzare fra gli appunti dell'inseparabile taccuino.

U Solechianielle

Un essere, per il quale le maraviglie del firmamento rientrano nella categoria delle cose superflue (fremi, ombra onorata di Galileo), è il povero Solechianielle, vulgo, Ciabattino ambulante. Tutto il suo armamentario è rinchiuso in una cesta di truciolo, che tiene dietro alle spalle, dentro alla quale si possono vedere: tacchi vecchi, tomai accartocciati, elastici sfilaccicati, tramezzi sfondati, bullette vecchie, spago vecchio, pece vecchia, aghi rotti, lesine spuntate, trincetti intaccati, martelli smanicati, ed altre molte cose tutte otte, ecchie e acce, che formano il patrimonio o meglio la miseria mobile del povero ciabattino. Ha una ciabatta in mano e, come fanciulla

 
Umilemente d'onestà vestuta,
 

passa tra la folla con l'occhio abbassato pudicamente al suolo, nè si distrae, nè parla, nè grida, ma va e va e va, continuamente assorto in quelle che parrebbero sue meditazioni dolorose. La prima volta che dà nell'occhio uno di questi esseri, muove quasi a pietà, perchè vi desta subito nell'animo qualche dubbio doloroso. Spesso pare che corra affannato in cerca d'un oggetto smarrito e di grandissimo valore per lui, e qualche altra, sembra un'anima preoccupata che fugge davanti ad un rimorso che la perseguita, quando non v'immaginiate che cerchi la gemella smarrita della sua anima o di quella incompresa ciabatta che ha costantemente in mano. Ma alla pietà succede subito lo sdegno, se le vostre scarpe si fossero per caso magagnate a vostra insaputa, e peggio poi se avessero una di quelle screpolature che fino ad ora avete nascoste tanto gelosamente a furia d'inchiostro, e che non sono rimediabili altre che con la così detta sardina o con la famosa dentiera di spago… Succede lo sdegno, dicevo, perchè a lui non sfuggirà di certo il guajo che affligge tanto molestamente le vostre basse estremità. Non un tacco dolcemente inclinato, non un sorriso lievissimo di tronchetto passerà inosservato alla sua vigile pupilla.

Perfino le avarìe delle suola, quelle leggerissime avarìe sotto la pianta, che sono uno dei vostri più curati segreti, a lui non sfuggiranno, come se i vostri piedi si muovessero sopra ad uno specchio, ed inesorabilmente ve le accennerà stendendo il braccio e l'indice verso la parte vulnerata.

Quando ha adocchiato la preda è implacabile. Egli conosce perfettamente i suoi polli; si mette dietro alla vittima continuando ad accennare straziantemente il membro ammalato, ed è capace di seguitarla per un chilometro intero, per due se occorre, finchè non l'abbia fatta sua.

Questa volta ha chiappato un pretonzolo di campagna. Gli ha già levato la scarpa, vi ha già sostituito la misteriosa ciabatta, perchè il paziente non resti scalzo in mezzo alla via, e tutti e due seduti, questo sul marciapiede e quello su la sua cesta, incomincia l'opera riparatrice. Allora il ciabattino cambia affatto natura. Da taciturno che era diventa ilare ad un tratto; accende subito un mozzicone, attacca discorso con la vittima, e raccontando piacevoli storielle ride e fa ridere, e tutto distratto briosamente, mette pece dove dovrebbe andar cuojo, steccoli dove ha levato bullette e in quattro e quattrotto la scarpa rotta è diventata peggio di prima; il prete è contento come una pasqua e, uno per un verso, uno per l'altro, tutti e due si allontanano allegramente, sognando ognuno per conto proprio: mortorj, scarpe rotte e benefizj vacanti.

Il miracolo di San Gennaro

Il famoso miracolo di San Gennaro si è ripetuto quest'anno otto volte, a benefizio dei pellegrini stranieri. L'occasione era bellissima, ed io non potevo perderla a costo di qualunque sacrifizio. Quando v'è un Santo che per amore del suo popolo è capace di mettere in bollore il proprio sangue per otto volte consecutive, senza perder la pazienza, bisogna dire che è un Santo sul serio, un Santo che merita tutti i riguardi possibili ed io volli salutarlo.

La folla era compatta nella chiesa; intorno all'altare formicolavano un par di centinaja di pellegrini mascolini, femminili e neutri, che correvano, gridavano, smanacciavano, stabaccavano, ridevano, piangevano e masticavano pasticcini, preghiere e polpe d'arance. A me era riuscito d'intrudermi fra costoro, ma più prudente della cornacchia della favola seppi tanto bene portare la mia mascherata che nessuno s'accorse del finto pavone, imbrancatosi temerariamente con loro.

In mezzo ad un silenzio solenne incomincia la commoventissima funzione.

Il sacerdote di servizio, mentre presenta al popolo l'ampolla, simile ad un piccolo lampione da carrozza, la guarda, e incominciando subito a girarsela tra le mani, esclama con voce stentorea: – È duro! —

A quel fatale annunzio il popolo dà in uno scoppio di strida così disperate, che ad un tratto pare d'esser cascati in uno scannatojo d'agnelli. I pellegrini si spaventano credendola una sommossa; alcune pellegrine minacciano uno svenimento, una accenna di cadermi fra le braccia, ma poi non vi cade ed io taccio, osservo e me la godo. Il Santo tarda a fare il miracolo; allora raddoppiano le strida e lacrime desolate si vedono scorrere in tal quantità su tutte le gote che ho dei momenti, nei quali corro serio pericolo d'intenerirmi. Vedevo intorno a me certe fisonomie e certe fronti, su le quali posava tanta pace soave e tanta serenità di fede, che in verità pareva mandassero raggi di luce; vedevo spargere lacrime tanto sincere e tanto spontanee, che io mi sarei positivamente commosso, se l'insieme della scena non avesse avuto assolutamente l'aria d'un baccanale dei più nauseanti.

Delle famose imprecazioni al Santo, però, non ne ho sentite nemmeno una. Pianti, sospiri, caldissime raccomandazioni e niente di più. Da un branchetto di commarelle, che mi stavano alle spalle, uscivano continuamente queste preghiere: – Faccela, faccela, la grazia, San Gennarino mio bello. – E se il chierico accennava di no, ripigliavano: – È duro! Oh! quanto ci metti stamattina, San Gennarino mio benedetto. Ah! faccela, faccela, questa divina grazia; faccela, faccela, San Gennarino bello, bello, bello – ed altre esclamazioni consimili e tutte di sconforto, di pietà e di preghiera.

I pellegrini cantavano, il popolo berciava nella cappella del miracolo, ed intanto nella navata massima un rimbombante predicatore strapazzava la memoria del Santo, ossia ne raccontava la vita, commentandola. E questo rumore grandissimo aveva i suoi alti e bassi, ogni volta che il cherico accennava lontana la consumazione dell'incanto o dava speranze di prossimo bollore.

Dopo 29 minuti finalmente vedemmo il sacerdote, il cherico e gli spettatori più vicini a loro, ficcare attentissimi gli occhi all'ampolla, e far de' moti con le braccia tese verso la turba ululante, come per dire: – Forse… un altro momento… ci pare… chi sa…? – Vi fu allora un istante d'ansia generale ed un breve intervallo di silenzio rotto qua e là da sospiri e da singhiozzi mal soffocati. I cenni seguitarono per qualche secondo, facce lagrimose e mani tremolanti si agitavano sulla folla genuflessa, quando ad un tratto alzaron tutti le braccia all'aria, serrando le palme; il cherico sventolò, in segno di gioja, un panno bianco, e come scoppio d'uragano, gli organi dettero nelle loro armonie a pieni mantici, le campane suonarono a distesa, e le vôlte del tempio, investite da una nuvola d'incensi, risposero rombando all'urlo poderoso delle turbe che intuonarono l'Inno Ambrosiano.

Il miracolo era fatto; il sangue bolliva; Napoli era salva! Io potei accertarmene coi miei occhi, e non restandomi allora più alcun dubbio su la verità del pauroso mistero, uscii rattristato di là dentro per ossigenarmi all'aria aperta i polmoni e le idee.

Ripensando nei giorni seguenti alla scena selvaggia, della quale ero stato spettatore, non me ne maravigliai più tanto, dopo che dalla osservazione di tanti altri pregiudizj che allignano fra questa gente, ebbi capito meglio l'animo dei fanatici che vi operavano.

Fino dai primi giorni che ero in Napoli mi avevano dato nell'occhio alcune persone che vestivano abiti tutti d'un colore, dalle scarpe al cappello: qualcuno tutto verde, qualche altro tutto rosso, altri tutti gialli, ed altri di molti altri colori, che io badava a guardare in viso per vedere se mi riusciva persuadermi che non erano pazzi. Finalmente, non essendo riuscito a raccapezzarmi, ne domandai e seppi che erano devoti, i quali avendo attraversata qualche grave malattia, avevan fatto promessa ai loro santi di vestirsi a quella maniera per un certo dato tempo, ed ora, guariti, scioglievano il voto.

Ho incontrato spesso alcune madri, portanti in collo monachine e fratini cuccioli d'un anno o due, ed ho saputo che anche la causa di queste innocenti mascherate è la medesima. Non mi ricordo se i pagani avessero qualche cosa di simile, ma è probabile di no, perchè erano tanto meno inciviliti, e più poeti di noi.

Per mezzo dello stesso filo d'Arianna sono arrivato anche a spogliarmi della pietà che mi destava la vista di alcune monache occupate nelle botteghe e nelle vie in opere servili, in mezzo ad altre operaje, alla cui vista quasi ho imprecato alla così detta soppressione dei conventi, finchè le ho credute vittime di quella legge; ma avendo trovata la ragione di tali goffe consuetudini, sono giunto poi a ridere amaramente anche del ribrezzo che m'avevan fatto alcuni fraticelli bigi dalla ghigna sinistra, che agitati da Mercurio spesso mi hanno susurrato all'orecchio pitture enfatiche di brune e di fulve Citère Trivie e Cloacine, e patetici inviti con tale untuosa insistenza, che non cedeva altro che dinanzi alla perentoria minaccia d'una larga pedata nelle pieghe deretane della tonaca bigia.

Nè mancano fra loro alcuni ingegnosi scrocconi che, approfittando della semplicità fanatica dei più gonzi di loro, la sfruttano impunemente a loro vantaggio, in un modo che sembra innocente, ma che, se è meno cinico, non è meno vigliacco e disonesto. Per le vie dei quartieri poveri non è raro inciampare ad ogni piè sospinto in una seggiola posta sul marciapiede o su la soglia d'una bottega, su la quale è un aborto di gesso che rappresenta San Gennaro, due moccoli accesi ai lati della superba immagine ed in mezzo un mucchio di soldi non sempre vecchio nè piccolo. Che cos'è tutto quell'amminnicolo? È un paretajo, nulla più e nulla meno che un paretajo. Il Santo fa da richiamo, i gonzi che vi calano lasciando l'elemosina, da tordi, e da capanno la bettola vicina, dove il tenditore mangia e beve allegramente alla barba dei citrulli, senza altra pena che d'andare di quando in quando a rivedere la tesa, la quale raramente è sprovvista di selvaggina.

Ma quando, tacendo di tante altre, ti avrò detto che soltanto da dieci anni si è cessato di portarsi in occasione d'una certa festa che non ricordo, con apparato solenne e concorso dei Reali di Borbone, d'autorità civili e militari, deputazioni, rappresentanze, ec., ec., nella chiesa del Carmine per tagliare i capelli ad un Crocifisso, e che questi capelli ricrescevano poi a poco a poco nel corso dell'anno, perchè ritornassero in taglio l'anno seguente, capirai con facilità che non è po' poi tutta colpa di questi disgraziati la loro bestiale ignoranza, nè tutta nostra modestia quel sentimento che ci spinge a cantare all'Europa in tutti i toni che siamo tanto avanzati nelle vie dell'incivilimento. Grazie a Dio, da qualche tempo si va di carriera, anzi si vola; ma avanti d'essere arrivati in fondo, almeno quaggiù, c'è che ire.

I Rinaldi

Percorrendo una mattina la via della Lanterna mi dettero nell'occhio due folti gruppi di persone, in mezzo ad ognuno dei quali vedevasi un uomo agitarsi e declamare con un libro in mano. Erano due Rinaldi, cioè due del popolo che all'aria aperta sul lastrico della via declamano e commentano alla turba estatica i poemi eroici della Gerusalemme, del Guerrin Meschino e dei Reali di Francia. Mi accostai al primo di questi e l'osservai. È un uomo che ha varcato la cinquantina, robusto di forme, acceso di volto, dalla voce avvinata e dall'eloquio largo e maestoso. Non ha giacchetta, ha rimboccate le maniche della camicia, il capo scoperto, e siede sopra una seggiola impagliata in fondo al circolo degli uditori, ove impostandosi a Giove Tonante, sorride olimpicamente, e girando intorno l'injettato occhio porcino, pare che dica a sè ed agli altri: – Come son bello! —

L'anfiteatro, dentro al quale egli declama, è formato di carne umana. La prima linea, che rappresenterebbe la massa delle gradinate, è fatta di piedi e di ginocchi di ragazzi, che seggono in terra; dietro a loro viene subito l'ordine nobile, ossia una panca in giro, su la quale, pagando un soldo, seggono i Cresi del Porto e i protettori delle lettere, col diritto di grattarsi finchè rimanga loro cotenna sotto i capelli, e dietro a questi sta in piedi la folla dei diseredati, incominciando dai più bassi di statura, e su su fino ai cappelli bisunti dei più lunghi che ammirano estatici sbadigliando in silenzio.

Per passar meno peggio il tempo d'aspetto tutti hanno trovato una occupazione. Gli ultimi, quelli in piedi, masticano saporitamente la cicca acquistata poco fa dal vicino negoziante all'ingrosso; i Cresi sbuccian semi di zucca o succiano arance; i ragazzi mastican le buccia e si pizzicottano fra loro; tutti si grattano.

A proposito di questo grattarsi, perchè non sembri che io esageri, non mi pare inutile rammentare qui la sentenza di quel gran filosofo, il quale disse che se la plebe di Napoli fosse di cacio, tempo ventiquattro ore non ci resterebbero che l'unghie. È azzardata, ma potrebbe esser vera.

In mezzo al circo sta il venditore d'arance e di semìne con le sue paniere alla mostra, il quale è anche incaricato del buon ordine. Con una mano dispensa i generi venduti, con l'altra riscuote le somme; con l'altra dispensa scapaccioni ai monelli più sguaiati, mettendo alla porta i recidivi, e con quell'altra si gratta quando non ha altro da fare. Le due mani di più che ho rammentate, appartenevano al suo ajutante di campo. Il nume intanto s'è preparato a dare l'oracolo, ha squadrato per la decima volta il brillante uditorio, e dopo avere accennato con la mano di non poter più reggere il verbo, che è vicino a traboccargli dalle labbra, tutto agitato incomincia:

 
Canto d'Erminia che infra le sue ombrose biande
 

Misericordia! Mi basta, me n'avanza.

Via, via subito da quell'altro, ma spicciamoci, per l'amor di Dio, chè se m'arriva con un altro di quegli endecasillabi, son morto!

Il Rinaldo che declama proprio sotto la torre del Fanale, è un altro tipo; è meno maestoso, ma i suoi tratti sono tanto onesti e delicati, che se non lo denotano una persona culta, ci manca poco. Quella giacchetta che il Rinaldo volgare di poco fa sdegna indossare, egli la tiene decentemente sotto il braccio; ha un libro manoscritto nella sinistra e nella destra una bacchetta sbucciata a spirale. I suoi occhi, se non sembrassero due giuramenti falsi, potrebbero parere benissimo due ecclissi totali di luna, perchè, quando declama, spesso ripone addirittura le pupille dentro la palpebra superiore, dove a volte le tiene qualche secondo, imitando maravigliosamente lo sguardo del dentice lesso. Deve sentir tanto quell'uomo! Sputa continuamente, cambia alternativamente il posto alla mazza, al libro e alla giacchetta; fa due passi avanti a sinistra, due indietro a destra; guarda la terra, eppoi il cielo, e quand'ha guardato il cielo, riguarda la terra e rimuta il posto alla mazza, al libro e alla giacchetta, e risputa con tanta simmetria e con un tal metodo, che in verità stupisce il vedere come in mezzo a tanta complicanza di faccende non s'imbrogli mai.

La statura sua è piuttosto bassa; ha il torace peloso, le braccia pelose, il berretto di pelo e la barba a corona. Non si può dire veramente un bell'uomo, ma senza dubbio è qualche cosa fra il sagrestano smesso e il gorilla addomesticato.

Incomincia a declamare; ascoltiamo.

Anche a lui gli endecasillabi pajono corti, onde, animato anche dalle licenze poetiche che vede prendere agli autori dei testi, su i quali si appoggia, ha preso addirittura il patentino per poter declamare anche in tempo di divieto, e aggiunge, e allunga, e accomoda di suo, in un modo così sublime, che il Tasso nelle sue mani diventa tutt'un'altra cosa, un po' più oscuro è vero, ma con le sue illustrazioni in lingua Greco-Arabo-Italo-Cofta rimedia a tutto e così bene, che anche gli addormentati, quando si svegliano, ne sanno quanto quelli che sono stati desti o poco più.

Chetiamoci e stiamo attenti sul serio, perchè ora è il vero momento; il nume s'è impossessato di lui, lui s'è impossessato del senso comune e se le dànno a morte.

 
Ma nol farà: prevenirò quest'empj
Disegni loro, e sfogherommi appieno;
Gli ucciderò, faronne acerbi scempj:
Svenerò i figli alle lor madri in seno;
Arderò i loro alberghi e insieme i tempj:
Questi i debiti roghi ai morti fièno;
E su quel lor Sepolcro in mezzo ai voti
Vittime pria farò de' sacerdoti.
 

Così, per bocca del buon Tasso, ragiona il rabbioso Aladino, e, per dire il vero, trovo che le sue idee (quelle d'Aladino) per gobbe son fatte bene; ma il mio Rinaldo, lui, quello che sputa, per non confonderlo con l'eroe omonimo del poema, lui, non ne conviene, ed ha ragione. Quella eccessiva chiarezza e più che altro quella eterna monotonia dell'endecasillabo è una cosa che ammazza. L'amico se n'è accorto e co' suoi commenti corregge, allunga, scorcia, taglia, stronca, sdruce, insomma accomoda e rimedia a tutto, con tanto garbo che è un amore.

– Ma no, non lo farà (se ne vene a di' chillo sfelenze i Saladine), non lo farà: prevenirò me tutti chisti embj.

E li disegni di loro, e sfogherommi, abbieno. (Se vuleva sfogà a raggia ill'anema soja, stu cane!)

L'ucciderò tutti, faronne acerbi e scembj. (Che puozze morì accise tu', nfamone!)

Svenerò li figli colle loro madri in seno. (I vuleva scannà i vene! accussì avria succedere che creperebbe mammata, cane i sarracine rinnegate!)

Arderò tutti li loro alberghi e insieme li tembj. (Pecchè nun ce restasse cchiù nè a magnà nè a durmì pi Cristiani, abbruciava i taverne, i lucanne, i lupanare e nsine a casa i nostro Signore. – A te, guaglio'! Uhe! t'aggio ritto; abbascia a scazzetta a u nomme du Signore, o te caccio l'anema… Bravi, accussì! spaccatele a capa a chillo muccusiello i galera.) —

(Qui è bene avvertire che l'ira del Rinaldo contro il guaglione che non s'è levato di capo la scazzetta al nome del Signore, è tre volte giustificata, perchè il rituale porta che tutto l'uditorio a quella parola si scopra, anche trattandosi del Signore di Montalbano, al cui nome il Rinaldo è primo sempre a togliersi il berretto ed a fare una breve pausa ed un inchino in segno di reverenza.)

– Ed io arderò li diebbiti in coppa alli roghi (pe nun paga' a nisciuno, avite capito!), e alli morti fieno (le vuleva da' u fieno! tratta' i morte comme a' ciucce!)

E in quel loro sandissimo Sepolcro in miezzo alli voti,

Vittime prima farò di tutti li sacerdoti.

(Doppe accise a tutti, vo' accidere primma li prievete! Che figli i 'nfame avevane a essere a gente a chilli tiembi. E chisto era lu Re! Figurammece chilli vajassune i suddete!) —

Così l'iniquo…

Oh! un'altra ottava, poi, no. Quando il pane della sapienza viene spezzato a tòcchi così grossi, uno solo basta, anzi qualche volta n'avanza per il giorno dopo.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
170 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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