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Читать книгу: «I minatori dell' Alaska», страница 8

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– Che cosa intendete fare?… Andarlo a cercare?…

– Perderemmo troppo tempo e forse inutilmente, essendovi in questa regione troppi boschi. Noi lanceremo i cavalli a gran galoppo e cercheremo di fargli perdere le nostre tracce.

– Partiamo subito?…

– Credo sia la miglior cosa.

– E il nostro zucchero?…

– Ne faremo a meno, se non ne troveremo fra le Teste Piatte.

XV – LA CACCIA AI BISONTI

Alle tre pomeridiane, il piccolo drappello, ansioso di lasciarsi indietro l’ostinato pellerossa, si rimetteva in marcia attraverso il territorio di caccia delle Teste Piatte. Quell’ampio tratto di terra è quasi del tutto piano, non avendo che a ovest la gran catena delle Montagne Rocciose, interrotto solo da splendide foreste di ciliegi selvatici, cicuta legno, aceri di ogni specie, salici rossi, legni di renna, con le cui fibre si fanno delle ottime corde, abeti neri e bianchi, pini e mirti coniferi, dai cui rami si estrae una cera verde che si adopera nella fabbricazione delle candele. Le terre coltivate mancavano assolutamente, poiché gli indiani ritenevano di venir meno alla propria dignità, chiedendo sostentamento alla terra. Preferivano inseguire gli animali selvaggi che erano ancora abbondanti in quelle vaste regioni, piuttosto di chinarsi a zappare un palmo di terra. Era già molto se le loro donne, costrette dalla fame, si degnavano, durante la buona stagione, di seminare un po’ di fave, che poi venivano mangiate bollite con grasso d’orso, o un po’ di cetrioli, piante che crescono molto bene e producono frutti enormi che arrivano a pesare fino a sessanta chili. Il drappello, che avanzava al galoppo, continuò la rapida marcia fino al tramonto del sole, passando successivamente attraverso a praterie e a foreste, senza aver incontrato alcun essere vivente; poi fece alt in una specie di gola boscosa aperta fra due collinette coperte di superbi pini Columbia, che spingevano le loro cime a circa cento metri. Sembrando quel luogo assolutamente tranquillo, rizzarono la tenda nel mezzo alla gola, certi di poter passare una notte indisturbata e di riprendere quella corsa indiavolata ai primi albori del giorno seguente. Dopo aver cenato e fumato un po’ di tabacco, legarono i cavalli a un piuolo conficcato in terra, poi si cacciarono sotto la tenda, avendo però la precauzione di mettersi le armi accanto. Riposavano da parecchie ore, sognando di essere già giunti nelle miniere dell’Alaska, e di raccogliere oro a piene mani, quando Bennie che dormiva, per vecchia abitudine, con un occhio solo, fu bruscamente svegliato da alcune urla che pareva rintronassero verso l’estremità della gola, seguite subito dai nitriti dei cavalli.

– Al diavolo quei predoni a quattro gambe!… – esclamò. – Era già un po’ di tempo che i lupi non ci facevano di queste serenate.

Sapendo quanto sono audaci i grossi lupi di prateria, ben più alti e robusti dei coyote, si sbarazzò della coperta di lana che lo avvolgeva, prese un fucile e sgusciò fuori della tenda. Essendo la luna già tramontata, in fondo a quella gola boscosa, era buio pesto, tanto da non poter distinguere un oggetto o un animale a dieci passi di distanza. Per di più, un vento freddo del settentrione, soffiando con forza in quella stretta, agitava fortemente le piante, impedendo di distinguere con precisione l’avanzare dei lupi.

– Una vera nottata per loro – disse Bennie. – Possono portarci via un cavallo senza che ce ne accorgiamo.

Radunò i tizzoni del focolare, che erano quasi spenti, li ravvivò gettandovi sopra alcuni rami secchi, poi si diresse verso i cavalli. I mustani erano ancora legati al palo, ma dimostravano una vera eccitazione. Scalpitavano, nitrivano e tendevano le corde cercando di spezzarle.

– Che cosa vuol dire? – si chiese il cow-boy, con inquietudine. – I nostri cavalli non possono spaventarsi per la presenza di pochi lupi, che sanno tenere a distanza con dei sapienti colpi di zoccolo. Guardò verso le due uscite della gola, ma non vide nulla che potesse giustificare il timore degli animali. Si udivano verso la cima di un colle, echeggiare sempre le monotone e lugubri urla di alcuni lupi, probabilmente grossi a giudicare dalla potenza dei loro polmoni, però non dovevano essere più di cinque o sei.

– Che ci sia invece qualche grizzly!… – mormorò Bennie. – Quegli orsi giganteschi non sono rari in questo paese!…

Non osando allontanarsi con quella profonda oscurità ed essendo la notte fredda, andò a prendere la coperta di lana, si avvolse alla meglio e si sedette a breve distanza dal fuoco, tenendo il fucile fra le ginocchia. I cavalli, visto che il padrone vigilava, si erano calmati, però guardavano sempre verso l’uscita della gola che sboccava a settentrione, come se il loro istinto li avvertisse che il pericolo stava da quella parte. Il cow-boy, rannicchiato dietro la tenda, la cui tela sbatteva come la gran gabbia di un veliero, apriva gli occhi e tendeva gli orecchi, ascoltando attentamente le urla dei grossi lupi, gli ululati del vento gelato che soffiava con forza dentro la tenebrosa gola, lo scricchiolare dei rami e lo stormire del fogliame. I carnivori erano già fuori dalla gola, ma altri se ne udivano più lontano, e quelle urla tetre, paurose, ora s’allontanavano in una direzione, ora in un’altra come se quei predoni corressero capricciosamente o si inseguissero attraverso i boschi e le praterie.

– Devono essere in caccia, – mormorò Bennie, che ascoltava con attenzione crescente.

A un tratto quegli ululati, che diventavano sempre più acuti, si avvicinarono rapidamente in direzione della gola, come se quella banda di predoni si preparasse a cacciarsi fra le due colline e a irrompere verso l’accampamento. Bennie, udendoli così vicini, si era sbarazzato della coperta ed era balzato in piedi. Stava per riattizzare il fuoco, quando udì Armando chiedere:

– Che cos’è questo fracasso, signor Bennie?… Corriamo qualche pericolo?…

– Siete voi, giovanotto?… – rispose il cow-boy. – Venite a tenermi compagnia, e prendetevi la coperta, perché la notte è piuttosto fredda. Soffia un ventaccio di tramontana che punge la pelle.

Armando s’affrettò a obbedirlo, e strisciò all’aperto, portando con sè il fucile.

– È un concerto di lupi, questo – disse.

– Sì, e non sono semplici coyote; sono lupi grigi, brutte bestie, giovanotto, e molto pericolose se sono numerose.

– Minacciano il campo?…

– No, per il momento; credo anzi che siano occupati a cacciare.

– Qualche grosso animale?…

– Forse qualche bisonte isolato o qualche wapiti.

– Come sarei contento di portarglielo via, se si trattasse di un superbo bisonte.

– Se lo cacciano da questa parte, faremo il possibile per prendercelo. Udite?… Gli ululati si avvicinano.

Un ululìo prolungato, indiavolato, rintronò nella gola selvaggia. Pareva che cento lupi si fossero precipitati fra le due alte colline rocciose, e corressero furiosamente attraverso i cespugli. Back e il meccanico, svegliati bruscamente da quel fracasso, si erano precipitati all’aperto, mentre i cavalli, spaventati, s’impennavano nitrendo.

– Siamo assaliti dai lupi? – chiese il signor Falcone, balzando verso Bennie.

– Non lo so ancora – rispose questi. – Tenetevi tutti dietro al fuoco, e non perdiamo di vista i cavalli.

Le urla continuavano ad avvicinarsi. Pareva che i lupi inseguissero accanitamente qualche grossa preda, e che celebrassero, con quell’indiavolato concerto, la prossima vittoria. Non dovevano essere più di due dozzine, ma essendo la gola ristretta, pareva fossero sei volte più numerosi.

– Badate!… – gridò a un tratto Bennie, che si trovava davanti a tutti.

Una massa nera, di proporzioni gigantesche, scendeva al galoppo la gola, muggendo disperatamente, seguita da vicino da una banda di lupi che le saltellava ai fianchi assordandola con ululati paurosi.

– Corna di cervo!… – esclamò Bennie.

– Che cos’è quell’animalaccio?… – chiese Armando ansiosamente.

– Giovanotto, domani faremo una scorpacciata di bistecche. In guardia o verremo schiacciati!…

L’enorme massa, che non si poteva ancora ben distinguere a causa dell’oscurità, muoveva diretta verso la tenda, galoppando sfrenatamente, con la speranza di sottrarsi all’imminente assalto dei famelici nemici.

– È un bisonte!… – urlò Bennie. – Back, bada ai cavalli!…

Si slanciò al di là del fuoco, seguito da Armando e dal meccanico, e puntando rapidamente il fucile, fece fuoco alla distanza di cinquanta passi. Il gigantesco animale, certamente colpito dalla infallibile palla del cacciatore, mandò un lungo muggito, ma continuò tuttavia la corsa.

– Fuoco!… – gridò il cow-boy. Armando e il meccanico scaricarono quasi simultaneamente i loro fucili. Il bisonte mandò un secondo e più prolungato muggito, avanzò ancora di quindici o venti passi, trasportato dallo slancio, poi stramazzò pesantemente al suolo, proprio dinanzi al fuoco, rimanendo immobile.

– Morto!…-esclamò Armando.

– Sì, ma ci sono ancora dei vivi, – rispose Bennie, – e pare che non vogliano rassegnarsi a perdere la loro preda.

Infatti i lupi, da veri cacciatori che non intendono lasciarsi defraudare della selvaggina stanata e inseguita, quantunque avessero udito quei tre spari, non si erano allontanati, anzi tutt’altro! Vedendo cadere il bisonte, e comprendendo che stavano per perdere le succulente bistecche, si erano radunati a breve distanza, emettendo ululati minacciosi. Si trattava di quindici o venti lupi grigi, di alta statura, dalle gambe secche e nervose, e dalle mascelle formidabilmente armate di denti lunghi e aguzzi. Avevano formato, fuori dalla luce proiettata dal fuoco, un semicerchio e ululavano a piena gola, mentre i loro occhi ardenti scintillavano come carboni, fra la cupa ombra proiettata dalle alte rocce e dalle piante.

– Pretenderebbero di assalirci? – chiese Armando, che aveva introdotta una nuova cartuccia nel fucile.

– Se non assalirci, almeno rifarsi della preda perduta, con uno dei nostri cavalli – rispose Bennie. – Se non ardesse il fuoco, non ci sarebbe da stupirci se tentassero di balzarci addosso. Sono audaci, quei ladroni.

– Cominciamo a sparare per calmare un po’ la loro collera.

– State zitto.

Bennie si era curvato innanzi, e si era posto in ascolto. In lontananza si udiva un cupo fragore, che rassomigliava un pò all’irrompere furioso di un grande fiume, o al frangersi delle onde marine contro una spiaggia rocciosa.

– Senti, Back? – chiese Bennie.

– Sì – rispose il messicano.

– Sono bisonti in marcia.

– Lo credo anch’io, Bennie.

– Ora comprendo la presenza di questi grossi lupi. Erano riusciti ad isolare questo bisonte per poi ucciderlo a loro agio.

– Saranno molti i bisonti?… – chiese il meccanico.

– Centinaia e forse migliaia, signore.

– La gola è propizia per una bella imboscata.

– Volete dire?…

– Che gli indiani cercheranno sicuramente di spingerli da questa parte.

– Gli indiani?…

– Sì, signor Falcone.

– Credete che stiano già cacciandoli?

– Li seguiranno di certo; dove ci sono i bisonti, c’è sempre l’indiano.

– Speriamo di non incontrare i Grandi Ventri.

– Non abbiate questo timore, ci troviamo sul territorio di caccia delle Teste Piatte.

– Andiamo a cacciare anche noi i bisonti, signor Bennie? – chiese Armando, che non stava più fermo.

– Non voglio farvi perdere una così bella occasione, giovanotto, ma dobbiamo aspettare l’alba, e poi ci sono i lupi che ci chiudono il passo.

– Non mollano…

– Se ne andranno presto, ve lo assicuro. Sanno che hanno più da guadagnare con i bisonti che prendendosela con noi. Ehi, Back, bada che i cavalli siano pronti a partire mentre noi leviamo la tenda.

Senza più occuparsi dei lupi, i quali d’altronde si limitavano a urlare, senza osare avvicinarsi al fuoco, i due cow-boys e i loro compagni misero le selle ai cavalli, stringendo accuratamente le cinghie, caricarono le casse e le poche provviste che ancora possedevano, poi piegarono la tenda. Intanto il fragore diventava più distinto, come se i bisonti si avvicinassero alla gola. Al di là delle colline si udivano risuonare muggiti sordi, poi cupi boati e rumori che sembravano prodotti dall’urto di centinaia e centinaia di corna. In mezzo a quel fracasso, si udivano le urla acute dei lupi, che seguono sempre i bisonti nelle loro emigrazioni, pronti a piombare addosso a quelli che, per stanchezza o vecchiaia, o a causa di qualche ferita, rimangono indietro, e a dilaniarli ferocemente, o a rapire alle femmine i giovani vitelli. I lupi che si erano schierati nella gola, udendo gli ululati dei loro compagni, non tardarono a volgere le code e a ritornare nella prateria, con grande soddisfazione di Armando. Dovevano essere già le tre del mattino, quando in mezzo a quei crescenti fragori, si udì distintamente un colpo di fucile.

– Gli indiani!… – esclamò Bennie.

– Che si preparino a piombare addosso ai bisonti?… – chiese il meccanico.

– Certamente.

– Saranno molti?…

– Tutti i guerrieri della tribù. In sella, amici!… Andiamo a prendere parte alla battaglia!…

Tutti balzarono in arcione, e quantunque la gola fosse ancora oscura, si misero in marcia attraverso i cespugli e i macigni che ingombravano il suolo. A quel primo sparo ne era seguito un secondo, poi un terzo, quindi era rintronata una scarica generale. Fra i muggiti dei grossi animali, i quali dovevano ormai essere in preda a un vero panico, non avendo quei giganteschi ruminanti una esatta conoscenza del loro vigore straordinario, si udivano confusamente delle voci umane e dei nitriti di cavalli. Bennie si era messo alla testa del drappello e cercava di affrettare la marcia. Il terreno era pessimo, tutto buche rocce e cespugli fitti, e la gola pareva molto lunga. Udendo quegli spari che crescevano d’intensità e quelle grida, il vecchio cacciatore non poteva stare più fermo, e tormentava la batteria della sua arma. Già non dovevano distare che poche centinaia di passi dall’uscita della gola, quando i cavalieri udirono dinanzi a loro un fracasso spaventoso. Pareva che un uragano devastatore s’inoltrasse fra le due colline, tutto abbattendo al suo passaggio. Bennie aveva trattenuto il suo cavallo:

– I bisonti si sono precipitati nella gola!… – urlò. – Salvatevi.

I cavalli, spaventati, avevano fatto un rapido dietro front, fuggendo sfrenatamente attraverso i rovi e i macigni, mentre all’estremità della gola si vedevano avanzare, con un clamore assordante, i primi gruppi dei bisonti. Bennie, con quattro vigorose speronate si era portato alla testa del drappello, e pur fuggendo, cercava un posto qualunque dove rifugiarsi. Scorgendo una fenditura che conduceva sulla cima di una roccia, che, dal lato della gola, cadeva a picco, lanciò in quella direzione il suo mustano, la salì speronando furiosamente, e s’arrestò in quel luogo. I suoi compagni, urlando e sferzando, lo avevano seguito, e i sei cavalli si erano trovati tutti uniti sulla cima di quella roccia, che aveva una superficie così ristretta da contenerli tutti a stento.

– A terra e pronti a far fuoco!… – gridò Bennie. – Vedremo un terribile spettacolo!…

XVI – LE TESTE PIATTE

I bisonti, incalzati dagli indiani e spaventati dagli spari che rimbombavano senza posa, producendo certamente numerose vittime, fuggivano all’impazzata in una orribile confusione, urtandosi, schiacciandosi, calpestandosi. Trovata dinanzi a loro la gola, quei mostruosi ruminanti vi si erano rovesciati dentro a corsa sfrenata, schiantando con impeto irresistibile i giovani alberi, e sventrando, con l’impeto delle loro masse poderose, i cespugli che ingombravano il passaggio. Ai primi bagliori dell’alba, che tingevano il cielo di riflessi rosei, si vedevano confusamente dei maschi di statura colossale, dalla testa grandissima e di aspetto pauroso, con le potenti corna piantate su ossa frontali così robuste da poter respingere una palla da fucile, e con criniere così folte che si prolungavano lungo il dorso; e delle femmine un po’ meno grosse e di aspetto meno minaccioso, che s’affannavano a proteggere, ma invano, i loro giovani vitelli. Erano almeno cinquecento capi, e tutti s’affannavano a giungere in testa per sottrarsi alle strette dei vicini, e alle palle e ai colpi di lancia degli indiani. I primi, più fortunati, giunsero in breve sotto la rupe, tutto sconvolgendo al loro passaggio, e scomparvero dall’altra parte della gola. Uno di essi, però, un vecchio maschio, armato di due lunghe corna, trovato il sentiero poco prima percorso dai cavalli, lo salì al galoppo senza nemmeno accorgersi della presenza degli uomini. Vedendolo, Bennie era balzato innanzi, gridando:

– A me, amici, o siamo perduti!…

Back, il meccanico e Armando avevano puntati i fucili contro il colosso. Tre spari rimbombarono l’uno dietro l’altro, coprendo i muggiti formidabili dei secondi ranghi che, a loro volta, irrompevano nella gola. Il vecchio maschio, colpito forse nel cranio, non s’arrestò, anzi, doppiamente spaventato e irritato, continuò a salire il crepaccio, minacciando di piombare in mezzo alla rupe e di rovesciare nella gola sottostante uomini e cavalli. Fortunatamente Bennie non aveva ancora fatto uso del fucile. Lesto come un daino balzò fra la spaccatura di una roccia per poter, in caso di pericolo, sottrarsi all’incontro, poi fece fuoco quasi a bruciapelo. L’effetto di quel colpo fu fulminante. Il bisonte, colpito in un occhio, cadde sulle ginocchia mandando un muggito furioso, poi la massa si piegò su di un fianco, quindi rotolò giù per il pendio, schiacciando con l’enorme peso un povero vitello che si era impegnato nella spaccatura per salvarsi dall’onda dei compagni.

– Bel colpo!… – gridarono Armando e il meccanico.

– Amici!… – urlò il cow-boy. – Fuoco a volontà.

Il grosso della mandria si era allora cacciato nella gola, spinto innanzi dai colpi di fucile degli indiani. Bennie, Armando e i loro compagni stavano per cominciare il fuoco, quando all’estremità della gola videro comparire trenta o quaranta cavalieri seminudi, adorni di penne variopinte e di code di cavallo e di lupo, e armati di lance e di fucili.

– Le Teste Piatte!… – gridò Bennie. – Non fate fuoco, o uccideremo qualche cacciatore.

Alcuni di quei selvaggi, scorgendo il gruppo formato dai quattro bianchi, li salutarono con alte grida agitando le armi, poi lanciarono i loro indemoniati mustani dietro gli ultimi ranghi dei bisonti, facendo un vero macello di quelli che rimanevano separati e che cercavano di fuggire fra le rupi. Bennie e Armando, voltatisi per non far fuoco contro i cacciatori, si erano messi a sparare addosso agli animali che passavano sotto la rupe, colpendone alcuni, ma quella sparatoria fu di breve durata. I giganteschi ruminanti in breve disparvero alle svolte della gola inseguiti dai cavalieri rossi, lasciando fra gli sterpi e i cespugli devastati parecchi cadaveri e buon numero di agonizzanti. Alcuni indiani, però, che venivano ultimi, si erano arrestati per finire a grandi colpi di tomahawk i moribondi e i feriti, mentre altri, balzati a terra, si erano subito messi a tagliare le code agitandole trionfalmente. Un inseguimento continuato diventava ormai inutile, poiché nella sola gola c’era già tanta carne da nutrire mille persone per tre settimane. Se alcuni non avevano ancora rinunciato alla caccia era per pura passione, o meglio per puro istinto di distruzione. Un capo indiano, che calzava mocassini di pelle gialla a ricami, adorni di capigliature, e indossava una casacca di pelle di daino verniciato, stretta da una cintura a cui stavano appesi due sacchetti detti della medicina, perché racchiudono degli amuleti, avanzò verso gli uomini bianchi, portando con sè una lingua di bisonte. I cacciatori dal viso pallido ricevettero da Dorso Bruciato, capo delle Teste Piatte, quel regalo come segno di amicizia, in attesa di fumare insieme il calumet di pace.

– Grazie, sackem Dorso Bruciato, – rispose Bennie, ricevendo il regalo con cortesia.

– La carne di bisonte abbonda laggiù – continuò l’indiano. – Miei fratelli, i visi pallidi avranno la loro parte.

– E noi l’accetteremo di cuore.

– Al di là di questa gola, oltre la prateria, si alzano i nostri wigwams ben riparati dal vento del settentrione: i cacciatori dal volto pallido avranno la loro tenda e larga ospitalità come si conviene ad amici stimati e valorosi.

– Noi verremo, capo, – disse Bennie. – L’ospitalità delle tribù delle Teste Piatte l’ho già provata più volte e non ho mai avuto da dolermi.

Il sackem fece un saluto con la mano e ridiscese nella gola dove già si erano radunati altri cento indiani per procedere alla raccolta di tutta quella carne, operazione non facile, poiché non tutti sono capaci di sezionare quei giganteschi ruminanti. Con i loro coltelli levavano le pelli senza danneggiarle, per trarre poi maggiori guadagni dagli agenti delle compagnie delle pellicce, poi immergevano le lame dietro le spalle di quei mostruosi animali, tagliando la spina dorsale e separando, con un’abilità impareggiabile, le grosse costole. Aperte quelle masse, si cacciavano animosamente dentro quelle montagne sanguinanti per strappare gli intestini che mettevano da parte, essendo destinati alla lavorazione dei salsicciotti di prateria, quindi con le scuri sezionavano i quarti, formando degli ammassi di carne che altri indiani caricavano sui numerosi cavalli già raggruppati all’estremità della gola. Bennie, Armando e i loro compagni erano scesi per assistere a quell’enorme macello.

– Che destrezza!… – esclamava il giovanotto. – I nostri macellai sono dei principianti al confronto.

– Nessun cacciatore di prateria è mai riuscito a eguagliarli – rispose Bennie. – Se sono lavoratori, sono però anche grandi divoratori e vedrete questa sera che orgia di carne faranno.

– Ditemi un po’, signor Bennie – chiese a un tratto Armando, dopo essere rimasto alcuni minuti in silenzio. – Hanno veramente la testa piatta questi indiani? Le penne che portano m’impediscono di vedere.

– Sono realmente piatte, amico mio.

– E in che modo ottengono questa deformazione?

– Con un sistema che non deve essere troppo comodo per i poveri piccoli.

– Si tratta forse di un sistema simile a quello usato dai cinesi per impedire ai piedi delle ragazze di crescere? – chiese il signor Falcone.

– Qualcosa di simile, signore. Quando il piccolo indiano è nato, la madre si affretta ad applicargli sulla fronte una specie di cuscino di scorza, che trattiene con cordoni passati nella culla, e che non toglie più per un anno.

– Deve essere un vero martirio.

– Certo, – rispose Bennie. – Ho visto parecchi bambini con la fronte così imprigionata, e i loro volti manifestavano una continua pena. Avevano gli occhi fuori dalle orbite, i muscoli gonfi, le gote infuocate e le labbra contratte. Si dice che soffrano dei dolori leggeri, ma io non credo che si tratti di cosa così lieve come vorrebbero darla ad intendere gli indiani.

– E dopo un anno la fronte è proprio piatta?

– Sì, signore e la testa non ritorna mai più rotonda come prima.

– E perché si deformano in questo modo?

– Perchè credono di diventare più belli, dicono alcuni; altri invece mi dissero che si spianavano la fronte per distinguersi dalle altre tribù.

– Sono numerose le Teste Piatte?…

– Lo sono ancora, e le loro tribù si trovano perfino nelle vicinanze di Vancouver, al confine dei possedimenti britannici col territorio di Washington degli Stati Uniti.

– Dunque non è vero che i pellerossa scompaiano rapidamente – disse Armando.

– Nei territori dei possedimenti britannici, le tribù indiane sono ancora numerose, avendo a loro disposizione immense superfici di terreno dove possono cacciare, negli Stati Uniti, è un’altra cosa. Diminuiscono anche qui, siatene certo, a causa delle continue guerre che si fanno fra tribù e tribù, e per l’abuso delle bevande alcoliche, dell’acqua del diavolo specialmente, come chiamano il whisky che comperano dai cacciatori delle Compagnie, ma negli Stati Uniti tendono a sparire con rapidità impressionante.

– È vero, Bennie – disse il signor Falcone. – Nel 1866, secondo un quadro compilato dal commissario degli affari indiani di Washington, il numero dei pellirossa nei territori degli Stati dell’Unione ascendeva a circa trecentoseimila, nel 1870 era disceso a duecentoottantasettemila e oggi è molto se tocca i duecentomila.

– Che discesa rapida!.. – esclamò Armando.

– È un fenomeno che si è sempre verificato, da quando gli uomini bianchi si sono trovati a contatto con la razza rossa – proseguì il meccanico. – Un gran numero di tribù, un giorno potenti, sono totalmente scomparse dopo il loro contatto con la razza bianca. I Delaware, per esempio, che ancora qualche secolo fa potevano mettere in campo dei veri eserciti, sono ridotti a pochi individui; i Mandani, i Mohicani, e i Crehek, le cui tribù si estendevano dalla foce del Mississippi fino ai grandi laghi, sono spariti, distrutti completamente dal vaiuolo. Dove sono le tribù dei Seminoli, valorosi difensori della Florida contro l’invasione degli americani condotti dal generale Jackson?… Chissà se ne esiste ancora qualcuno! E le sei nazioni dei laghi del Canada?… Andate a contare quanti uomini hanno ancora oggi le tribù degli Irochesi e degli Algonquini che combatterono valorosamente a fianco dei Francesi contro gli Inglesi nel Canada? E delle tribù dei Natchez che cosa è accaduto?… Gli ultimi superstiti di quella grande nazione vendono erbaggi sui mercati di Nuova Orleans, come gli ultimi Irochesi si guadagnano stentatamente da vivere facendo i canottieri sulle cascate del San Lorenzo. È così, caro Armando; la nostra razza è sempre stata fatale alle altre, e finirà col distruggerle tutte, meno una: la gialla.

– La colpa è un po’ degli indiani – disse Bennie

– Non dico di no. Se si fossero piegati, se avessero rinunciato alla caccia in quei territori dove comincia a mancare la selvaggina e avessero chiesto sostentamento dal suolo, sarebbero ancora numerosi. Alcune tribù infatti, che si sono dedicate all’agricoltura, prosperano. I Cuori di Lesina, per esempio, formano una specie di repubblica agricola molto florida; così pure i Ceroki i quali hanno perfino fondato un giornale, la Fenice dei Ceroki e posseggono anche una biblioteca; i Cickasom, i Ciaktak e alcuni altri. Non crediate però, con tutto questo, che anche gli indiani confinati nelle riserve aumentino di numero; tutt’altro. È stata una pura speranza, poiché in sessanta e più anni gli indiani accantonati, da centomila che erano, sono oggi cinquantamila. Alcuni filantropi avevano perfino sognato di radunare tutti gli indiani sparsi negli Stati Uniti in un solo territorio e formare una federazione degli uomini rossi, ma hanno dovuto rinunciarvi, poiché le tribù più numerose si sono affrettate a far sapere che non si sarebbero mai fuse con le altre, nè sottomesse. «Noi vogliamo vivere come siamo stati allevati, – dissero tutti i sackem con un accordo mirabile, – non ci parlate dunque nè di riserve, nè di federazioni, nè di coltivazioni. Lasciateci andare dove va il bisonte, e mandate i vostri uomini dalla pelle bianca a coltivare la terra. Noi corriamo attraverso le praterie cacciando il daino, l’orso ed il bufalo: non amiamo altro».

In quell’istante Dorso Bruciato venne ad interrompere la loro conversazione:

– Gli uomini bianchi mi seguano – disse. – La raccolta è terminata e le donne della tribù attendono il nostro ritorno accanto ai fuochi.

– Andiamo, – disse Bennie. – Troveremo un pranzo squisito.

Le Teste Piatte si erano già messe in cammino procedendo a fianco dei cavalli carichi di enormi pezzi di carne, ancora gocciolanti sangue e di pelli superbe accuratamente arrotolate, le quali, però, prima di venir lavorate, dovevano subire una preparazione, che le avrebbe rese più morbide e conservate più a lungo. Uomini ed animali erano orrendamente imbrattati di sangue. Penne, mocassini, casacche, armi, criniere e code erano tinte di rosso come se gli uni e gli altri si fossero avvoltolati in mezzo ad una ecatombe di scannati. Bennie e i suoi amici avevano seguito il capo, il quale aveva ornato il suo mustano di code di bisonte e di lingue enormi, e in pochi istanti erano sbucati in una vasta prateria, dove altri indiani erano occupati a scuoiare e a fare a pezzi altri animali caduti sotto il fuoco dei fucili, mentre altri ancora guidavano grandi carri ricolmi di spoglie sanguinolente e di montagne di carne. Attraversarono al galoppo la pianura e si cacciarono in mezzo ad alcuni poggi boscosi, sopra i cui alberi si vedevano innalzarsi colonne di fumo. In lontananza si udivano già grida di donne, strilli di bambini e latrati di cani, che annunciavano l’accampamento indiano. Il sackem, seguito da una mezza dozzina dei suoi guerrieri, i cui mustani erano adorni di lingue e di code di bisonte, scese una valle irrigata da numerosi torrenti e sulle cui alture si vedevano caracollare dei cavalieri incaricati di vegliare sulla sicurezza comune, poi volgendosi verso Bennie e indicandogli una gola che pareva si addentrasse fra due enorme masse rocciose, gli disse:

– Il campo.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
360 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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