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Читать книгу: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», страница 3

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Alle gravissime proposte del capitano di Francia si scuotevano i legati, parendo loro, come era veramente, cosa enorme, pericolosa, e di pessimo esempio, che soldati forestieri si adoperassero per tornare a divozione i ribelli della repubblica. Per la qual cosa negavano la offerta, restringendosi con dire, che poichè i castelli erano in mano dei Francesi, e servivano di appoggio ai turbatori dell'antico stato, ragion voleva, acciocchè si pareggiassero le partite, ch'ei facesse qualche dimostrazione pubblica per disappruovare i moti, che si erano suscitati. Al che non consentendo rispondeva, che in mezzo all'ardore di quelle nuove opinioni che molto avevano ajutato le sue armi, sarebbe certamente incolpato, se ora si dimostrasse avverso a coloro, che si erano scoperti fautori del nome e delle massime di Francia; che solo a ciò fare si sarebbe piegato, quando il direttorio precisamente glie l'avesse comandato. Tornava poscia sul parlare di più stretti vincoli d'amicizia colla Francia, proponendo per esempio il re di Sardegna, ed affermava, esser questo il mezzo migliore per frenar le rivoluzioni. Le quali esibizioni ed esortazioni, chi si farà a considerare fino a qual termine già fossero trascorse le cose, e le offerte fatte all'imperatore Francesco, saranno testimonio certo, ch'elle avevano tutt'altro fine, che la salute di Venezia. Del resto, senza tanti giri di parole, e serbando anche in sua potestà, per sicurezza del suo esercito, i castelli di Bergamo e di Brescia, bastava bene che il generalissimo ordinasse, o che con un cenno solo significasse, che Bergamo e Brescia ritornassero all'obbedienza di Venezia, che i magistrati instituiti dai novatori cessassero l'ufficio, e che quei del senato fossero restituiti al loro, perchè tutte queste cose avessero incontanente la loro esecuzione. Anzi il solo dichiarare, ch'egli disappruovava quelle due rivoluzioni, e che contro la sua volontà erano state effettuate, avrebbe rintegrato subitamente nelle due città ribelli il consueto dominio. Il non averlo voluto fare dimostra viemaggiormente i disegni sinistri. Strana esibizione di Buonaparte era questa di voler far tornare all'obbedienza quelle terre, ch'egli stesso aveva incitato a ribellione; imperciocchè, senza andar più vagando in questa materia, certa cosa è, che per ordine espresso di lui furono fatte ribellare ai Veneziani le città Veneziane, di cui si tratta. Rispondevano i legati della repubblica, volere il senato l'amicizia di Francia, dell'alleanza risolverebbe quando, ritratta l'Europa da quell'immenso disordine, e ricomposta in quieto stato, potrebbe con sicurezza di consiglio deliberare. A queste parole si alterava gravemente il vincitore; poi tornando sull'antiche querele, acerbamente rimproverava ai Veneziani il ricovero dato al conte di Provenza ed al duca di Modena, e l'aver ricettato i tesori di Modena e d'Inghilterra; a questo passo dimostrava voglia di por mano su di questi tesori; il che palesava, quanto fosse in lui lo sprezzo della neutralità.

Mentre il generalissimo di Francia, parte accarezzava, parte minacciava a Gorizia i legati di Venezia, lusinghiere parole pubblicava Kilmaine, generale, che reggeva la Lombardia. Biasimava il comandante di Bergamo del non averlo fatto consapevole degli accidenti seguiti, sperava, non ne fosse partecipe, gli proibiva di mescolarsene; se il facesse, il punirebbe, essere neutralità fra le due repubbliche, volere il generalissimo, volere lui stesso, che se le portasse rispetto. Se questa lettera di Kilmaine fosse vera o finta, non si sa, perchè è di data incerta. Del resto l'opera del comandante nell'ajutare la ribellione di Bergamo, era notoria, non solo in questa città, ma ancora in tutta Lombardia, e metterla in dubbio era un'astuzia ridicola; nè il comandante medesimo fu mai tradotto in giudizio.

Come i fatti rispondessero alle parole di Kilmaine, o vere o finte che si fossero, il dimostrava pochi giorni dopo la rivoluzione di Crema, opera non solo certa, ma anche evidente delle truppe Francesi; perchè il giorno ventisette marzo, appresentatasi una squadra di cavallerìa di Francia alla porta, chiedeva il comandante l'entrata, promettendo di non inferire molestia, e sarebbe dimani partito per Soncino. Introdotti, si portarono quietamente quel giorno. Ma il dì seguente comparivano due compagnie armate della medesima nazione; una verso la porta Ombriano, l'altra verso quella del Serio, nè così tosto si erano avvicinate alle mura, che le truppe di dentro aprivano le porte, per modo che, dato il varco, e per far più presto, scalando alcuni le mura, si facevano padroni della terra. Correvano quindi a disarmare i soldati Veneziani: s'impossessavano dei quartieri, occupavano il palazzo pubblico, minacciavano nella vita con l'armi inarcate il podestà, e, disarmato, costringevano a dismettere l'ufficio. Occupavano al tempo stesso la camera, il monte, il fondaco, gli uffici, le cancellerie. Taciute tutte le altre iniquità usate a Venezia, se questa sola della violenta occupazione di Crema non bastasse per giustificare il senato a sorgere subitamente con l'armi in mano contro i Buonapartiani, il diranno tutti coloro, ai quali sta più a cuore la giustizia, che la forza.

Arrivava a Crema l'Hermite già partecipe del rivolgimento di Bergamo, e si metteva all'atto di blandire il podestà con parole soavi, dell'ufficio dolcemente esercitato lodandolo. Somiglianti parole usava l'ufficiale del direttorio, che, distrutta per forza e per inganno l'autorità sovrana di Venezia sopra Crema, se ne giva affermando, che i Francesi erano buoni amici della repubblica di Venezia. Mescolaronsi in questo moto pochi uomini del paese, fra i quali principalmente comparirono il marchese Gambazocca, ed i conti Asperti, Locatelli, e Romini venuti da Bergamo. Creavasi il municipio, piantavasi l'albero, ballavavisi intorno, appiccavasi una fune al collo del lione di San Marco, come se fosse tempo da ridere; facevasi la luminaria, gridavasi libertà. Il podestà fu lasciato partire senza offesa. Così Crema per opera dei soldati Buonapartiani fu ridotta a divozione dei novatori. Kilmaine, che aveva scritto la bella lettera pel fatto di Bergamo, se ne stette tacendo per quel di Crema.

Le rivoluzioni di Bergamo, di Brescia e di Crema facevano sorgere nuovi pensieri tanto nei capi Francesi, quanto nel senato Veneziano, così come ancora fra i sudditi, che si conservavano fedeli. Vedevano i primi, che l'accessione di quelle tre principali città d'Oltremincio era di somma importanza ai loro ulteriori disegni; perchè oltre al più facile vivere per la ricchezza di quei territorj, i novatori, che gli secondavano, divenivano e più audaci e più numerosi. Faceva in questo loro esempio grandissimo frutto, e nuova gente novatrice, siccome un nembo ne tira un altro, si accostava. Principale fondamento a tutto questo moto era Brescia, città ricca, popolosa, abbondante d'uomini fieri e bellicosi. Quivi ancora gli ottimati, o che amassero la libertà, o che avessero gelosia contro i patrizi Veneti, o che solamente si fossero lasciati stravolgere dalla vertigine comune, favorivano la rivoluzione. Nel che Brescia si diversificava da Bergamo, dove i più fra i ricchi si mostravano avversi. Accorrevano poi a Brescia Dombrowski co' suoi Polacchi, Lahoz co' suoi Italiani, e davano incentivi con le parole, animo con le forze, esempio con l'ordinate schiere. Pavesi, Lodigiani, Milanesi, Bergamaschi, Napolitani vi arrivavano continuamente, chi con lingue pronte per orare, chi con penne per iscrivere, chi con armi per combattere. La sollevazione, l'impeto, la concitazione andavano al colmo; le minacce e gli scherni che facevano contro i patrizi, erano incredibili. Già si persuadevano, che alla loro prima giunta dovesse andar sossopra tutta, ed a ruina la Veneziana repubblica. Lahoz, Gambara, Lecchi, ed un Mallet, generale di Francia, anch'egli mescolato in questi moti, trionfavano. Queste cose vedevano con gli occhi loro i capi dell'esercito Francese, e le passavano: se le sapeva Buonaparte, e le passava con troppa più sopportazione, che si convenisse alla sincera fede.

Preparata la strada alla rivoluzione delle altre parti della terraferma Veneta situate sulla destra del Mincio, per mezzo massimamente della potente Brescia, innalzavano i sollevati l'animo a maggiori cose, proponendosi di turbare anche i paesi posti sulla riva destra dell'Adige, principalmente Verona tanto importante per la sua grandezza, e per essere passo del fiume. Questo era anche risolutamente l'intento di Buonaparte; perciocchè più di un mese prima che sorgesse la sollevazione di Verona, aveva dato ordine a' suoi comandanti in questa città, che procurassero la rivoluzione medesima con tutte le forze, e con tutte le arti loro. Nel che con maneggi, parte segreti, parte palesi il secondavano. Mentre tutti quest'inganni si tramavano, non erano ancora le cose sicure pei Francesi, che tuttavia si trovavano a fronte dell'arciduca sulle rive del Tagliamento. Il capitano Pico, che aveva anche avuto al medesimo tempo carico da Buonaparte di macchinare in Verona contro i Veneziani, gli rappresentava, che il moto in lei sarebbe riuscito pericoloso, e di esito molto incerto, stantechè l'arciduca gli stava ancora davanti molto poderoso: esortava pertanto, aspettasse tempo più propizio. Rispondeva, gisse pure, e sommuovesse Verona. Poi soggiungeva, che se la sommossa andasse bene sarebbe libera l'Italia, se male, la Cisalpina repubblica (con tal nome dopo la conquista di Mantova aveva chiamato la Transpadana) almeno resterebbe. Dette queste parole, accommiatava Pico, raccomandandogli, s'intendesse con Beaupoil e con Kilmaine, e gli desse ragguaglio di tutto che accadesse: desse intanto ricovero in Mantova ai patriotti che fossero in pericolo, e gli rendesse sicuri, che sarebbero liberi. Nè in Brescia stavano oziosi i novatori rispetto a Verona; perchè colà mandavano agenti segreti, parte da Brescia medesima, parte da Desenzano, parte da Lonato, affinchè cooperassero alla sollevazione. Così Verona era insidiata da Buonaparte, da' suoi capitani, dai novatori armati, dai novatori non armati, Italiani, Polacchi, Svizzeri, e Francesi. Non ostante tutto questo il canuto Lallemand, ed il giovane Buonaparte sempre protestavano a nome di Francia dell'incontaminata fede, e della sincera amicizia verso la repubblica Veneziana.

Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del governo Veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi dei Bresciani sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra quelli stessi che macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro sì grave pericolo. Vi mandava, con dar voce di cagioni diverse dai sospetti, parecchi reggimenti di Schiavoni: vi mandava due provveditori straordinari, Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e Niccolò Erizzo, uomo di natura molto calda, ed amantissimo del nome Veneziano. Ma perchè le radici della forza erano nel paese, dava facoltà amplissima al conte Francesco degli Emilj, personaggio ricchissimo e di molto seguito, acciocchè armasse la gente del contado, promettesse e desse soldi, ogni e qualunque cosa, che in poter suo fosse, facesse, per isventare le macchinazioni dei repubblicani. Accettava volentieri il carico il conte Emilio, e tra l'autorità del suo nome, e l'efficacia delle sue ricchezze, faceva non poco frutto, soldando gente, provvedendo armi, ammassando munizioni, traendo a se buoni e cattivi per tenere in piede l'insidiata repubblica. Faceva compagni alla sua impresa il conte Verità, ed il conte Malenza co' suoi due figliuoli, uomini anch'essi molto infiammati nel difendere l'antico dominio dei Veneziani. Il secondavano efficacemente i preti ed i frati con le esortazioni loro, alle quali maggior forza accrescevano lo strazio testè fatto del papa, e lo spoglio di Loreto: gli animi già infieriti per tante ingiurie, di maggior veleno s'imbevevano per l'oltraggiata religione. Accresceva lo sdegno l'orribile governo, che facevano delle province le truppe repubblicane, sì quelle che stanziavano, come quelle che viaggiavano. Vieppiù innaspriva i popoli una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli rapiti dai Tedeschi in guerra, eran fatti pagare dai comuni. Quel dei Due Castelli, situato sull'agro Veronese, e composto appena di cinquecento abitatori, per esservi stato in una sortita da Mantova rapito dai Tedeschi non so che carro di bagaglio di generali, fu posto da Buonaparte ad una taglia di cencinquanta mila franchi, taglia tanto esorbitante per quello piuttosto casale che villaggio, che era anche ridicola. Perchè poi non la potevano pagare, vi mandava Junot con un grosso di cavalleria a vivervi a discrezione. Queste enormità si moltiplicavano; i popoli, che non vedevano altra cagione, che una insolenza fantastica, od una sete di rapire insaziabile si riempivano di sdegno. Giuravano di andar all'incontro di ogni più grave pericolo, di sopportare ogni più crudele disgrazia piuttostochè non vendicarsi, e non tentare di sottrarsi a sì orribile dominazione. Molto sangue Francese fu certamente versato, e pur troppo barbaramente a Verona, e fu sangue, la maggior parte, d'innocenti. Ma gli autori veri e primi di sì cruda carnificina, non inganneranno punto la giustizia divina, nè il giudizio dei posteri. Sa Dio, e sapranno i posteri, se contro il Veneziano governo, o contro Buonaparte, se contro i conculcati o contro i conculcatori, se contro il conte Francesco degli Emilj, o contro coloro, che il generalissimo di Francia secondavano nell'opera rea prima di far ribellar Verona contro il senato, poi di vendere Venezia, se contro chi non voleva essere tradito, o contro chi voleva tradire sia quel sangue sparso, e contro chi gridi vendetta.

Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò, perchè, andata contro questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di qualche Francese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani, aiutati dagli abitatori della valle di Sabbia; i quali, siccome quelli che erano molto affezionati al nome Veneziano, erano accorsi per conservare la città sotto la divozione dell'antico principe. Quest'erano le masse ordinate dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole esempio di fedeltà e di ardire dava nella fazione di Salò il provveditore Francesco Cicogna; dal che si può argomentare quale mutazione avrebbero fatto le cose di Venezia, se il senato avesse permesso, che Ottolini desse dentro, quando ancora era tempo, col suo stormo, e se Battaglia tale fosse stato quali furono Ottolini e Cicogna. I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di ducento, furono condotti a trionfo per Verona, i sudditi carcerati, come rei di stato. La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi sbigottiti in tutta la terraferma Veneta. Armavansi a gara i popoli, e protestavano della fede loro verso il senato. Questo moto fu apposto a delitto ai Veneziani da Buonaparte, e dagli storici adulatori di lui, i quali per altro confessano, che in quel momento stesso, e già da lungo tempo prima si trattava di far indenne l'Austria a spese di Venezia. Adunque doveva Venezia darsi di per se stessa vinta, e disarmata in mano di chi sotto colore di amicizia la tradiva? Certamente doveva Venezia in quell'estremo frangente, in cui era caduta, non per colpa propria, ma d'altrui, difendersi: bene gli uomini generosi, gli amatori massimamente del nome e del costume Italiano le daranno eterno biasimo del non essersi abbastanza, ed a tempo difesa, e con dolore vedranno nei ricordi delle storie scritto i posteri, che l'opera della sua distruzione sia stata frutto, tanto della debolezza de' suoi reggitori, quanto della malvagità di amici fraudolenti; poichè fuori di dubbio è, che, passando anche sotto silenzio le passate occasioni, se dopo la vittoria dei Salodiani, le disposizioni tanto incitate dei Veronesi, ed i preparamenti fatti nell'estuario, in un con le vittorie di Laudon nel Tirolo e con le masse Tirolesi e Croate, avesse il senato fatto una forte risoluzione coll'unirsi all'Austria, e col dichiarare la guerra alla repubblica di Francia, si sarebbe trovato Buonaparte in gravissimo pericolo, e l'antico dominio dei Veneziani sarebbe stato preservato. Ma l'aver voluto aspettare l'estrema ingiuria, quando già le ingiurie avevano oltrepassato l'estremo, e l'aver abbandonato i sudditi, quando volevano difenderla, fu cagione della ruina della repubblica.

Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I moti della terraferma erano spontanei, e solo cagionati dalla rabbia concetta dai popoli infastiditi delle insolenze, e sdegnati dalle ingiurie dei forestieri. Perciò il senato gli poteva qualificare come opera non sua, e sempre protestare, quanto spetta alla direzione del governo, della perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in Italia, secondando il talento proprio, e credendo di far cosa grata al generalissimo, pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo un atto falso ad uno dei magistrati più principali far in modo, che il governo Veneziano egli medesimo paresse colpevole di ree instigazioni contro i Francesi; della qual fraude nissuna si può immaginare nè più brutta, nè più diabolica. Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto, attribuendolo a Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica in terraferma, col quale si stimolavano i popoli a correre contro i Francesi, e ad uccidergli. Fu questo manifesto composto per opera di un Salvadori, novatore molto operativo di Milano, e rapportatore palese e segreto di Buonaparte, che poscia creatosi imperatore, l'abbandonò in miseria tale, che gittatosi in fiume a Parigi terminò con fine disperato una vita poco onorevole. Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale a Milano, intitolato il Termometro politico, giornale che si scriveva in casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati ancor essi dalla illusione e dalla vertigine di quell'età. Quantunque astutamente gli sia stata apposta la data dei venti marzo, uscì veramente ai cinque aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a Judenburgo a questo tempo, già offeriva gli spogli della repubblica, e già fatto sicuro della pace con l'imperatore, non aveva più timore delle masse Veneziane. Così l'incitare contro i Francesi era pretesto di far uccidere i Francesi dai Veneziani, i Veneziani dai Francesi, e per trovar compensi all'imperatore a danni di Venezia. Il non aver fatto il generalissimo alcun risentimento contro gli autori di un fatto tanto grave, e che poteva e doveva costar la vita a tanti Francesi, pruova ch'ei ne fosse soddisfatto.

Il manifesto era quest'esso:

«Noi Francesco Battaglia per la serenissima repubblica di Venezia provveditore straordinario in terraferma.

«Un fanatico ardore di alcuni briganti nemici dell'ordine, e delle leggi eccitò la facile nazione Bergamasca a divenir ribelle al proprio legittimo sovrano, ed a far correre da una moltitudine di facinorosi prezzolati altre città, e provincie dello stato per sommovere anche quei popoli. Contro questi nemici del principato noi eccitiamo i fedelissimi sudditi a prendere in massa le armi, e dissipargli, e distruggergli, non dando quartiere o perdono a nissuno, ancorchè si rendesse prigioniero, certo che sì tosto gli sarà dal governo data mano, e assistenza con denaro, e truppe Schiavone regolate, che sono già al soldo della repubblica, e preparate all'incontro.

«Non dubiti nissuno dell'esito felice di tale impresa, giacchè possiamo assicurare i popoli, che l'esercito Austriaco ha inviluppato, e compiutamente battuti i Francesi nel Tirolo e nel Friuli, e sono in piena ritirata i pochi avanzi di quelle torme sanguinarie e irreligiose, che sotto il pretesto di far la guerra ai nemici devastarono i paesi, e concussero le nazioni della repubblica, che loro si è sempre dimostrata amica sincera e neutrale, e vengono perciò i Francesi ad essere impossibilitati di prestar mano e soccorso ai ribelli, anzi aspettiamo il momento favorevole d'impedire la stessa ritirata, alla quale di necessità sono costretti.

«Invitiamo inoltre gli stessi Bergamaschi, rimasti fedeli alla repubblica, e le altre nazioni a cacciare i Francesi dalle città e castelli, che contro ogni diritto hanno occupato, e a dirigersi ai commissarj nostri Pier Girolamo Zanchi, e dottor fisico Pietro Locatelli per avere le opportune instruzioni, e la paga di lire quattro al giorno per ogni giornata in cui militassero.

«Verona, 20 marzo 1797.

«Francesco Battaglia, provveditore straordinario in terraferma,

«Gian-Maria Allegri, cancelliere di Sua Eccellenza. Per lo stampatore camerale».

Questo manifesto si spargeva in copia dai patriotti e dai capi Francesi, massimamente da Landrieux. Nè credendo i macchinatori di questa fraude, che tutto l'operato fin qui bastasse, perchè i popoli vi prestassero fede, Lahoz, capo e guida di tutte le genti Lombarde e Polacche, e che mescolato in queste trame di rivoluzione ne conosceva bene il fondo, gli avvertiva con bando pubblico, che la neutralità era stata rotta dai tradimenti di Battaglia, il quale, soggiungeva, pazzamente si era persuaso, che «Voi altri contadini, privi in tutto di arte militare, sareste i vincitori dei Francesi, la prima nazione dell'universo pel coraggio, e la scienza della guerra. Sappiate adunque, che il generale Buonaparte ha ordinato, che Battaglia sia messo in ferri, ed impiccato; che saranno pure impiccati coloro, che v'inciteranno alla ribellione; le vostre case saranno arse, le famiglie desolate: uscite d'errore, e presto, deponete le armi, portatele al comandante di Brescia; mandategli deputati; quando no, perirete tutti».

Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del manifesto per far credere ai popoli, ch'ei fosse vero; e quei ferri, e quelle forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi allora in Venezia, non era in potestà di Buonaparte nè di farlo arrestare, nè di farlo impiccare. La verità della storia richiede oltre a ciò, che noi scriviamo, che il provveditore non era nemmeno per venire in potestà del generale; perchè quando Buonaparte distrusse Venezia, domandò la prigionia e la morte di tutt'altre persone che di quella di Battaglia, ancorchè egli fosse il più colpevole di tutti verso i Francesi, se opera sua fosse stato il manifesto: che anzi Buonaparte accarezzò Battaglia, e se lo tenne molto caro. Noi sappiamo, che il provveditore era partigiano di qualche riforma negli ordini dello stato; ma che Buonaparte avesse altre cagioni di amarlo, noi non vogliamo nè affermare nè negare, ancorchè troviamo scritto, che questo Veneziano abbia servito ai disegni del generale Francese più di quanto la libertà, e l'independenza della sua patria comportassero.

Allontanava da se Battaglia l'infamia del manifesto con ismentirlo: lo smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava; perchè i tempi erano più forti delle protestazioni, ed era strana veramente, e compassionevole cosa il vedere, che gl'innocenti cercassero di giustificarsi appresso i rei di un delitto, che essi rei contro gl'innocenti avevano commesso, e che a loro per distruggergli imputavano; condizione unica per certo, che sia stata al mondo, e degna veramente della malvagità di quei tempi.

Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio dei Veneziani, era a Buonaparte spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed innocente stato. Restava, che le sue condizioni divenissero tanto sicure rispetto agli Austriaci, ch'ei potesse senza pericolo mandar fuori quello, che già da lungo tempo si era nell'animo concetto. A questo gli dava occasione la tregua sottoscritta coi legati dell'imperatore il dì sette aprile a Judenburgo; alla quale conclusione non si venne nè da una parte nè dall'altra, se non promessi, ed accettati i compensi a spese della repubblica Veneziana. Solo restava all'Austria qualche residuo di renitenza al consentire, per accomodar se, ad accettar le spoglie di un governo, dal quale non aveva ricevuto alcuna ingiuria, col quale era congiunta d'amicizia, e che anzi a motivo di questa sua amicizia si trovava ridotto a tali compassionevoli strette. A questo rimediava Buonaparte col far rivoltare lo stato dei Veneziani, anche sulla sinistra del Mincio; perchè se ripugnava all'Austria il nuocere a Venezia sotto il governo antico, bene sapeva che non le ripugnerebbe il nuocerle sotto il nuovo, odioso a lei pei principj, non congiunto con lei per alcun vincolo di amicizia. Non così tosto ebbe sottoscritto la tregua coll'imperatore, che incominciò le dimostrazioni ostili contro i Veneziani; il che mandò ad esecuzione in vari modi, ma che tutti tendevano al medesimo fine. Primieramente mandò il suo aiutante Junot con amare condizioni a fare un violento ufficio a Venezia non senza grave ferita alla dignità della repubblica. Arrivato Junot altieramente richiedeva per parte del generalissimo di essere udito incontanente in pien collegio dal serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi; era il sabato, in cui per antico costume non sedevano i magistrati, intenti in quel giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri. Avvertivanne Junot; ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane impazientissimo, insisteva dicendo, o l'udissero subito, o appiccherebbe le cedole della guerra ai muri. Credettero i padri, che il derogare all'uso antico fosse minore scandalo di quanto era capace di commettere quel soldato, e consentirono ad udirlo la mattina del sabato. Introdotto in collegio, dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre capi della quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di terraferma, ed i cinque agli ordini, leggeva, con parlare prima timoroso per la sorpresa, poi superbissimo per la natura, una lettera, che scriveva Buonaparte al doge il dì nove aprile da Judenburgo, ed era quest'essa: «Tutta la terraferma della serenissima repubblica di Venezia è in armi: in ogni parte sollevati ed armati gridano i paesani morte ai Francesi, molte centinaja di soldati dell'esercito Italico già sono stati uccisi; invano voi disappruovate le turbe raccolte pei vostri ordini. Credete voi, che nel momento in cui mi trovo nel cuore della Germania, io non possa far rispettare il primo popolo dell'universo? Credete voi, che le legioni d'Italia sopporteranno pazientemente le stragi, che voi eccitate? Il sangue de' miei compagni sarà vendicato: a sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi a molti doppi il coraggio ogni battaglione, ogni soldato Francese. Con empia perfidia corrispose il senato di Venezia ai generosi modi usati da noi con lui. Il mio aiutante, che vi reca la presente, è portatore o di pace, o di guerra. Se voi subito non dissolvete le masse, se non arrestate, e non date in mia mano gli autori degli omicidj, la guerra è dichiarata. Non è già il Turco sulle frontiere vostre, nissun nemico vi minaccia; d'animo deliberato voi avete inventato pretesti per giustificar le masse armate contro l'esercito; ma ventiquattr'ore di tempo, e non saran più: non siamo più ai tempi di Carlo Ottavo. Se, contro il chiaro intendimento del governo Francese, voi mi sforzate alla guerra, non pensate per questo, che ad esempio degli assassini, che voi avete armati, i soldati Francesi siano per devastar le campagne del popolo innocente e sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed egli benedirà un giorno fino i delitti, che avranno obbligato l'esercito Francese a liberarlo dal vostro tirannico governo».

Qui non è bisogno aggiungere discorsi per giudicare di così fatta intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il loro sovrano, non si sarebbero mossi, e non avrebbero ucciso i soldati Francesi, se gl'insidiatori con mandato espresso del generale di Francia non avessero seminato la ribellione. Del resto alcuni pur troppo furono uccisi, ma non a centinaia, come la solita buonapartiana gonfiezza ebbe allegato. Taccio la villania di parlare con tali espressioni ad un principe, in cui era raccolta tutta la nazione Veneziana. Se questa è grandezza, come alcuni stimano, io non so che cosa sia piccolezza.

A tale vituperio ed a tanta indegnità una sola risposta era da farsi, se pure la umanità e la civiltà l'avessero permessa, e quest'era di tuffar in mare Junot, e di correre subitamente all'armi per veder quello, che volessero i cieli definire. Bene dovevano i Veneziani, non tuffar Junot, ma sì impugnar l'armi; ma nè i tempi nè gli uomini erano abbastanza forti in Venezia. Ridotto il principe di sì antica e nobile repubblica a condizione tanto abietta, rispose pacatamente, delibererebbe il senato; avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e di amicizia verso la nazione Francese. Intanto le crudeli calunnie, l'incredibile insulto, le disgrazie imminenti avevano riempito l'animo dei circostanti d'orrore e di terrore.

Acerbe lettere scriveva il dì medesimo dei nove aprile il generalissimo a Lallemand: non potersi più dubitare, che l'armarsi dei Veneziani non avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia; non aver mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte le altre degli stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata contro di lui; meno ancora aver potuto comprendere come per calmare quel piccolo ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè quando si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli atti dei provveditori di Brescia, Bergamo, e Crema, in cui si affermava, essere la sollevazione opera dei Francesi, essere bugie inventate a disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato Veneziano; avere il senato usato la occasione, in cui egli innoltratosi nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per mandar ad effetto una fraude, che sarebbe prima d'esempio, se non fossero quelle ordite contro Carlo Ottavo, ed i Vespri Siciliani; essere stati i Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento, in cui i soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i Veneziani più fortunati di Roma: la fortuna della repubblica Francese stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune Veneziane.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
25 июня 2017
Объем:
330 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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