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Читать книгу: «Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III», страница 17

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Oltre le cedole, le Romane finanze consistevano in una quantità di beni assai considerabile, che appartenevano allo stato, e questi in nome della repubblica Francese occupavano i suoi agenti, non che quelli, che per essere di privato patrimonio di papa Pio, potevano, se non con ragione, almeno con pretesto cadere in potestà di Francia; conciossiachè il direttorio si protestava solamente nemico del papa, non dello stato Romano, al quale anzi professava amicizia. Ponevansi al fisco della repubblica, deliberazione certamente enorme, i beni del collegio della Propaganda, quelli del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le Paludi Pontine, le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli stabili; ma i mobili non si risparmiavano: qui fuvvi, non che confiscazione, sacco. Quanto di più nobile e di più prezioso adornava i palazzi del Vaticano, e del Quirinale, fu involato. Fu la cupidigia degli agenti del direttorio veramente barbara. Dal Vaticano, edifizio magnifico per undicimila camere, furono tolti, non solamente tutto il mobile a servigio di persone, ricca e preziosa suppellettile, non solamente gli arredi mirabili di busti, di quadri, di statue, di camei, di marmi, di colonne, ma perfino i serrami ed i chiodi, per forma che l'Instituto nazionale di Roma, che per non so qual derisione fu poco poscia creato, volendo sedervi dentro, ebbe a pensare a far rimettere e porte, e toppe, e chiodi dove un appetito insaziabile gli aveva tolti. Così quella sede nobilissima di Romani pontefici, quella veneranda depositerìa delle opere di Raffaello e di Michelagnolo, quell'ornatissimo ricovero di quanto Grecia ed Italia avevano prodotto di più prezioso, di più gentile, di più grazioso, si appresentava agli occhi dei risguardanti atterriti quale deserto e saccheggiato abituro. E queste cose faceva, non la guerra ma la pace, non la nimicizia ma l'amicizia, non la barbarie ma una vantata civiltà. Seguitava sempre i passi dell'esercito una compagnìa di sensali, che s'intendeva coi rapaci pubblicani, ed era pronta a pagare a loro per vile prezzo le ricchezze acquistate, sicchè le nazioni vinte s'impoverivano, la Francia vincitrice non s'arricchiva, i soldati non avevano le paghe, e ad ogni tratto sdegnosi minacciavano di ammutinarsi. Ma i rapitori chiamavano in aiuto la militar disciplina, come se più i soldati fossero obbligati all'obbedire, che i pubblicani all'onestà. Le masserizie più vili, alle quali i capi non abbadavano, si vendevano agii ebrei non per pattuito, ma per imposto prezzo.

Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi più squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati, nè più risparmiati i sacri che i profani arredi, perchè i vasi sacri della cappella Sistina, e delle altre cappelle pontificie ebbero a pruovare i toccamenti dei profani involatori; gli abiti sacerdotali stessi si diedero alle fiamme per cavarne i metalli preziosi, coi quali erano tessuti. Passava il sacco dai palazzi dello stato e del papa a quei de' suoi parenti, ed anzi a quelli di coloro, o principi Romani o cardinali che si fossero, che più si erano dimostrati costanti nel far argine alle dottrine, che avevano servito di mossa, e tuttavia servivano di fondamento alla rivoluzione. Il palazzo di città, quei del principe, e del cardinale Braschi, quello del cardinale York furono con uguale avarizia depredati. Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello della villa Albani, di cui era signore il cardinale, e principe di questo nome. Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia o per lavoro, fu tocco e rapito dalle avare mani dei forestieri: contro Albani si scagliavano particolarmente, perchè l'avevano conosciuto affezionato al pontefice, e mantenitore della opinione, che più nell'Austria che nella Francia, che più nell'imperatore Francesco, che nel direttorio, il papa avesse a fidarsi, come se nelle faccende di uno stato indipendente non avessero ad esser libere le opinioni di chi consiglia, se però non si voglia dire, che si amano meglio i traditori che i fedeli, meglio chi consiglia con perfidia che chi con sincerità. Il giardino stesso dell'Albani fu guasto e deserto; gli aranci, e le altre piante odorifere o rare vendute a vile prezzo. Quest'era più furto che conquista; perchè Albani era persona privata, e non certamente nè papa, nè stato, e con qual diritto avesse ad essere svaligiato, sarebbe bene, che gli addottrinanti di quel secolo ce l'insegnassero. Non posso io già, nè voglio passar sotto silenzio una rapina, che gli avari pubblicani preposti dal direttorio alle finanze d'Italia volevano ad ogni modo fare di un ricchissimo ostensorio, tutto tempestato di diamanti, che di proprietà privata essendo di casa Doria, in Sant'Agnese, chiesa di giuspatronato della medesima famiglia, ogni anno all'adorazione dei fedeli si esponeva; lo stimavano ottantamila scudi. E perchè il generale Saint-Cyr, che aveva l'animo tanto ornato di temperanza, quanto alcuni altri l'avevano contaminato di avarizia, si era opposto, ne ebbe le male parole, e fu anche richiamato dal direttorio. La rapacità che si usava in Roma e nei contorni, si dilatava in tutto lo stato Romano, ed ogni sostanza sì pubblica che privata vi era posta a mercato. Sorse fra gli altri un caso miserando, che facendosi il giorno ventitre febbraio le esequie solenni dell'ucciso Duphot per tutta la città, alcune pattuglie repubblicane, dico alcune, perchè le più si serbarono continenti, rotto ogni freno di onestà e di disciplina, e non considerato, che l'ufficio a loro imposto era di conservar intatti il buon ordine e le sostanze, entrarono nelle chiese, e da loro involarono i vasi e gli arredi destinati alla celebrazione degli uffizi divini. Nè dal sacco andarono esenti le chiese appartenenti alle nazioni Spagnuola ed Austriaca, sebbene l'una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel tempo. Perchè poi nissuna spezie di miseria e di compassione mancasse a Roma in questo giorno, vi fu la sera gran luminaria alla cupola e nella piazza del Vaticano; ballossi allegramente al Quirinale. Uditosi nelle province della Romana dizione il sacco delle chiese di Roma, alcune delle provinciali chiese furono ancor esse al modo medesimo poste in preda. Al sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si convertivano in sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma vi era modo di riscatto nascosto, e qualche volta a bella posta si mettevano, perchè i modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola famiglia Chigi di più di ducentomila scudi; l'incisore Volpato di più di dodicimila, e fra dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano le confische per aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o quadri, o statue, od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei repubblicani.

Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose, che appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla volta di Francia, o segretamente, od anche apertamente, perchè a tale di sfrontatezza si era venuto, i soldati non avevano le paghe corse da molti mesi, e laceri, e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano l'ingordigia di coloro, che preposti al vitto, ed al vestimento loro, credevano, dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei paesi conquistati con le fatiche, e col sangue loro. Gli ufficiali subalterni, ai quali stava a cuore l'onore di Francia, ed infinitamente cuocevano i raccontati disordini, accordatisi fra di loro ed in gran numero nella chiesa della Rotonda adunatisi, facevano un forte scritto, e l'indirizzarono a Massena, surrogato a Berthier. Addomandavano i soldi corsi dei soldati, chiamavano vendetta contro i depredatori, per l'onore dell'esercito offeso. Lo sdegno loro principalmente mirava contro Massena per le estorsioni da lui fatte, come dicevano, in tutti i paesi Italiani venuti sotto il di lui governo, massimamente nel Padovano. Nè minor avversione mostravano contro Haller, cui principalmente accusavano dell'Italiane espilazioni, e della Francese miseria. Fecero anche risoluzione di arrestarlo, e di porre a sigillo le sue carte. Massena, siccome quegli che non soleva portare pazientemente, non che le accuse, i contrasti, facendosi scudo della disciplina, intimava agli ufficiali adunati che incontanente si segregassero: quando no, gli costringerebbe con la forza. Rispondevano, preferir la morte all'infamia, prender Dio in testimonio della purità delle intenzioni loro. Mandavano nuovi deputati a Massena. Non fecero frutto, perchè il generale più aspramente che prima rimproverandogli dell'aver rotto l'obbedienza, gli minacciava di forza e di castigo. I pubblicani, vedendo quel nembo, o fuggivano, o si nascondevano, e per ogni forma si consigliavano di salvar il bottino. Gli ufficiali, ai quali questa volta si erano accostati alcuni generali dei primi, gelosi parimente dell'onore dell'esercito, di nuovo si adunavano il dì sette marzo nella chiesa medesima della Rotonda, e con più forti parole dimostravano al generale, doversi giustificar l'esercito dei ladronecci commessi, e dar le paghe ai soldati.

Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un presidio di tremila soldati in Castel Sant'Angelo, ed in altri luoghi forti, che tutto l'esercito il seguitasse. Sperava partendo, e distribuendo in diverse stanze i soldati alla campagna, di poter far risolvere l'intelligenza degli uffiziali. Obbedivano, ma ciascun corpo creava uffiziali eletti, con mandato di vegliare, acciocchè gl'interessi loro non ricevessero danno. Gli uffiziali eletti, raccoltisi in Campidoglio, scrivevano lettere a Berthier, pregandolo di ripigliare il freno delle genti, e protestavano a Massena di non volergli più obbedire. Fece ogni opera, ma invano, per riguadagnarsi l'affezione loro. Laonde, vedendosi in voce di tutti, nè più potendo comandare a coloro che il chiamiavano coi più odiosi nomi, pensò al ritirarsi, e se ne andava, lasciato il governo a Saint-Cyr, e a Dallemagne, in Ancona, donde tutto dolente, e sconfortato scriveva a Buonaparte, pregandolo a dargli favore presso il direttorio, affinchè lo mandasse ambasciatore a qualche potenza.

I Romani, osservato lo scompiglio delle genti Francesi, ed essendo sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì dura servitù, perchè ora mai un popolo di quasi due milioni di anime era ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che considerato. I primi a romoreggiare furono i Transteverini, gridando viva Maria. Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano una guardia Francese, s'impadronivano di Ponte Sisto, e delle strade, che mettono capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano; Velletri, Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa era grave. Già i Francesi erano uccisi alla spicciolata, e già le più grosse squadre si trovavano in pericolo. Ma essendo gente valorosa, usa all'armi ed ai tumulti improvvisi, poste dall'un de' lati le dissensioni loro, muovendogli il pericolo comune, si ordinavano tostamente alle battaglie contro quei popoli spinti piuttosto da furore, che da disegno bene ordinato. Vial muovevasi contro la gente tumultuaria in Roma, Murat contro quella del contado. Fu fatto in queste battaglie molto sangue, perchè i Francesi coi loro squadroni agguerriti combattevano virilmente, ed i Romani, mossi da furore e da zelo religioso, menavano ancor essi la mani aspramente. Infine prevalendo la disciplina e l'opera delle artiglierìe bene governate dai repubblicani, di cui mancavano i Romani, acquistarono i primi con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi gli avversarj, e si nascondevano chi per le case, e chi per le campagne. Fecero i contadini ritiratisi ai monti una testa grossa; ma Murat, penetrando coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri, gli sperperava. Di cencinquanta prigioni, parte furono mandati al remo, parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma piena di terrore, d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di questo moto, o fosse verità o pretesto, i cardinali, ed altri prelati sospetti d'affezione verso il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla dignità cardinalizia, o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed Altieri; ricusarono Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Roverella, la Somaglia, Carandini, Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due ultimi dalle terre della repubblica Romana. Gli altri, prima posti in carcere, poi condotti a Civita vecchia, ed imbarcati su navi sdrucite, furono mandati a cercar ricovero in paesi stranieri. Il cardinal Rezzonico, come infermo di mal di morte, fu lasciato stare: Albani, che più d'ogni altro desideravano di avere in poter loro, fu fatto correre dai cavalli leggieri, che il seguitavano, ma giunse a salvamento nel regno. In questo modo quanto aveva la chiesa cattolica di venerando per età, per dignità, per dottrina, era disperso e calpestato. Non solo enormi, ma pazze cose erano queste, perchè il torre rispetto a uomini rispettati portava con se, quando che fosse, il vilipendio di coloro che non gli rispettavano, perchè la licenza è male contagioso, e si appicca facilmente dagli uni agli altri.

Gli accidenti Romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di confusione, siccome quelli, che sulle prime succedevano alla militare conquista. Restava, che la oppressione e la servitù si ordinassero sotto ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento dei conquistatori di fare scherno alla libertà, e di metterla in odio a tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio mandato a Roma quattro suoi commissarj, che furono Faipoult, Florent, Daunou, e Monge, uomini, che facevano professione di amare la libertà. Deliberarono fra di loro di dar una constituzione alla repubblica Romana. Pareva un gran caso quel delle leggi, che avessero da uscire da una Francia per una Roma per mezzo di uomini rinomati e mandati a bella posta da Parigi, massime da Daunou e da Monge, ambidue venerandi per ingegno, per dottrina e per virtù. Ed ecco pubblicarsi un corpo di constituzione, il quale altro non era, che sotto nomi Romani la constituzione Francese; imperciocchè sotto nome di consolato, di senato, di tribunato, di tribunale di alta pretura a di alta questura, vi era un direttorio, un consiglio degli anziani, un consiglio dei giovani, un tribunal di cassazione, e commissarj dei conti. A questi si aggiungevano gli altri fastidj servili delle amministrazioni centrali per ciascuno spartimento della repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni cantone. Si noverarono otto spartimenti, del Tevere, del Cimino, del Circeo, del Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del Tronto. Avevano per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata, Sinigaglia, Perugia, e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi, come quella di Francia. Nel che, oltre il copiar servile, gli uomini prudenti osserveranno, quanto inetto fosse il dare nomi medesimi a cose diverse, e quanto dannoso alla libertà il servirsi di nomi antichi, che suonavano potenza e libertà, in uno stato di oppressione, e di servitù. Ne fu tolta autorità a parole venerate. Dalle leggi passava l'imitazione insino agli abiti; perchè i magistrati furono ordinati vestirsi alla francese, mutato solo pei consoli, senatori, e tribuni il color rosso in nero; la forma simile a quella dei quinqueviri, degli anziani, dei cinquecento di Francia.

Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci da Roma, Ennio Quirino Visconte da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi d'Ancona, Reppi d'Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della repubblica Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio del generale, o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare la rivoluzione di Venezia, se n'era ora venuto a fomentar quella di Roma. Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariotti, un Bremond Francese.

Come se gli spogli, le tasse violente, i comandamenti non solo imperiosi, ma ancora capricciosi abbastanza non avvertissero i Romani della servitù, inserirono i quattro commissarj nella constituzione Romana questo capitolo, che fu il trecentesimo sessagesimonono, che si avesse a fare, al più presto, un trattato d'alleanza tra la repubblica Romana e la Francese; che insino a che questo trattato fosse ratificato, tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi Romani non potessero essere nè pubblicate, nè eseguite senza l'approvazione del generale Francese che stava al governo di Roma; che il generale medesimo potesse di sua propria autorità fare tutte quelle leggi, che a lui paressero necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni del direttorio.

La constituzione Romana aveva posto a difficile partito coloro, che occupavano le cariche ancora sussistenti del governo precedente, e generalmente tutti coloro, che, sentendo tuttavìa a norma delle antiche massime, erano pure obbligati, per le necessità loro, a servire allo stato nuovo. Era nella constituzione un capitolo, che ordinava di giurar odio alla monarchìa, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio aveva udito dal suo secesso della Certosa di Firenze, che il governo della repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero, e dai parochi di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa materia, e parendogli, che non si convenisse ai ministri della religione il giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor Passeri, vice gerente di Roma, ammonendolo non esser lecito prestar puramente, e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli di notificare agi'intimati questa sua decisione pontificia e di avvertire, che l'eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere, interessava anche moltissimo, che la repubblica fosse persuasa della rettitudine delle massime del clero di Roma relativamente al repubblicano governo conformi in tutto agl'insegnamenti della cattolica religione, così statuiva, che ciascuno potesse con sicura coscienza giurar fedeltà e soggezione alla repubblica, che attualmente comandava, essendo stato unanime insegnamento de' Santi Padri, e della chiesa, che sia dovuta fedeltà e subordinazione a chi, secondo le varietà dei tempi, ha in mano le redini del governo, o sia a chi attualmente comanda. Definì inoltre, che ciascuno potesse giurare di non prender parte in qualsivoglia congiura, trama, o sedizione pel ristabilimento della monarchìa, e contro la repubblica; e potesse altresì giurare odio all'anarchìa, essendo questa uno stato di disordine. Finalmente deliberò, che si potesse giurare fedeltà ed attaccamento alla constituzione, salva peraltro la cattolica religione. Pensava papa Pio, che i magistrati della repubblica non avrebbero rigettato questa formola, giacchè era in tutto conforme, come si esprimeva, all'atto del popolo sovrano dei quindici febbrajo del 1798, con cui il popolo riunito innanzi a Dio, ed al mondo tutto, con un sol animo, ed una sola voce aveva dichiarato, voler salva la religione, quale di presente venerava ed osservava, cioè la religione cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri, e succedutogli nella carica di vice gerente l'arcivescovo di Nassanzio, quest'ultimo di propria autorità, e contro le intenzioni del papa, diede una seconda instruzione, per cui i professori del collegio Romano e della sapienza si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il giuramento tale qual era prescrito dalla constituzione, solo facendo verbalmente qualche protestazione. Udì gravemente il papa quest'accidente, e rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle sue intenzioni, gli comandò, richiamasse la seconda instruzione, e si lamentò, che per lei, e per l'esempio dei professori soprannominati sembrasse, che Roma già maestra di verità, si fosse fatta maestra dell'errore. Savie, prudenti, e conducevoli alla quiete dello stato erano queste sentenze di Pio. Da loro si può dedurre un utile ammaestramento, e quest'è, che la religione è, e debb'essere tutta spirituale, e che non le è lecito l'ingerirsi nella forma del governo politico delle nazioni. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per l'ordinario tanto gelosa, si rammorbidì facilmente sì per la prudenza del papa, come per la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè produsse, come si temeva, o movimenti, o persecuzioni d'importanza.

Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era stata mai altro, che un appicco contro il papa, l suoi territorj, salvo San Leo, s'incorporarono alla Romana.

Il dì venti marzo si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano, la confederazione della repubblica Romana a guisa di quella, che fu da noi descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonìe, illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo, e molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento la Romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli sulla piazza del Vaticano; bandiva la constituzione, dichiarava Roma libera; i consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava poscia, pure Romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai, e con questi motti: Berthier restitutor urbis, e Gallici salus generis humani.

Fine del Tomo III
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
25 июня 2017
Объем:
330 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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