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Читать книгу: «Il peccato di Loreta», страница 15

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Ma la ragione citata non era la vera, o forse, per dire più esattamente, non era la sola.

Delle dicerie che correvano pel paese l'eco era giunta fino al romitorio di Collalto: si parlava vagamente di gravi dispiaceri domestici in casa Sant'Angelo, si narrava di una forte scossa nella salute del professore, soggiungendosi anche ch'egli non potesse più reggere a fatiche della mente, così che aveva pur dato rinuncia a varî ufficî pubblici, da lui per tanti anni tenuti nel paese con appassionata operosità.

Il conte Nardin, che ricordava il passato, la parte da lui avuta nel matrimonio del Sant'Angelo e tutte le sorde inimicizie di cui quest'ultimo era pur sempre l'oggetto, volle persuadersi subito di quanto fosse avvenuto.

Gli bastò un momento per comprendere il vero. Trovò il Sant'Angelo tristissimo, abbattuto, ammalato. Nè valsero a fargli mutare avviso le proteste di lui, debolissime del resto e punto convincenti.

–Sì, è inutile celarlo: a voi sopratutto, conte, che mi siete stato sempre amico vero. Non sto bene: non so neppur io che cosa abbia avuto, ma mi è parso come se ad un tratto le mie forze avessero subìto una grande depressione. Sarà il lavoro (egli soggiunse forzando un sorriso) sarà anche l'età che viene… Non può essere altro… null'altro, conte.

IL Sant'Angelo aveva procurato di dare a queste parole un'intonazione di naturalezza. Ma non isfuggì al Mangilli lo sguardo significativo ch'egli, nel profferirle aveva rivolto a Loreta, taciturna e smorta, nella sua seggiola, presso il vano di una finestra.

Poi confermò le rinunce mandate ed accennò al bisogno imperioso ch'egli sentiva di una quiete assoluta.

–Non ho che un rammarico solo: quello di non poter attendere a' miei studi. La mia opera sulle inscrizioni lapidarie della provincia sarebbe riuscita… assai bene…

Il conte, con uno scatto d'impazienza, non si tenne dal lasciarsi scappare a questo punto una molto energica esclamazione dialettale di protesta; poi, pentendosi della parola detta:

–Andiamo dunque, – continuò, – me ne fareste scappare di più grosse ancora! Ma che diamine dite! Ma che specie di ubbie vi siete cacciato nella testa!..

–Ubbie! – disse il Sant'Angelo cercando di sorridere ancora una volta-sì, sì, può anche essere. Voglia Dio che sia così…

Il conte Nardin tornò quella sera a casa di pessimo umore; e quando nel passare per la piazza di Tricesimo, intravvide, di là dai vetri annebbiati del Caffè della posta, la solita compagnia di giuocatori, in mezzo alla quale la figura tarchiata di don Morganti emergeva, egli sentì un desiderio matto di scendere là dentro e di rompere almeno ad un di quei degni messeri il manico della sua frusta sul viso.

Poi, quando si trovò solo, nella sua grande casa, dove nessuno l'attendeva, dove avrebbe finito nella solitudine la sua vita, egli pensò alla ragione che aveva avuto di guardarsi sempre dagli affetti: quindi ebbe quasi un sentimento di rimorso pensando che l'unica volta in cui solamente per pochi momenti s'era lasciato smuovere da questa sua antica convinzione, era stato per il matrimonio del suo amico con Loreta Lambertenghi.

XX

L'autunno era giunto con una grande malinconia di giornate nebbiose. Dalle feste d'Ognissanti una fredda pioggerella cadeva senza tregua. Durante le sere, già divenute lunghissime, si principiava a sentire il desiderio delle belle fiammate invernali. Una mattina, dopo una nottata tempestosa in cui il vento aveva infuriato con molta veemenza, le vette dentellate della Carnia erano apparse, lontano, bianche della prima neve.

In questa profonda tristezza delle cose, l'angoscia che stringeva in aspro modo l'animo di Loreta, facevasi continuamente più fiera. Ormai ella non viveva più: la sua esistenza si era mutata in un supplizio di tutte le ore: nessun conforto che la sorreggesse, anzi ogni cosa cospirante a farle sentire più squallido il vuoto che si era formato intorno a lei.

Spinta da un'amara voluttà ella era costretta a riepilogare senza riposo nell'agitato suo spirito la compassionevole storia della sua vita. E in quel confuso risvegliarsi delle sensazioni passate il pensiero indugiavasi più a lungo e dolorosamente a qualche speciale e più forte ricordo; come in un sogno ella rivedeva i verdi viali, pieni di pace e di mistero, della villa d'Arsizzo: la figura dolce di Bianca Polverari, ancor lì, bella, buona, colla parola dell'illusione sulle labbra pallide: le sale cupe del vecchio palazzo di Verona: il profilo dolente e severo di donna Laura, come le era apparso l'ultima volta: poi il tipo sereno di Chiara Sant'Angelo, che logorata dal male le sorrideva ancora, indulgendo a tutti i suoi falli, raccomandandole di essere lei la custode degli affetti nella casa ch'ella doveva abbandonare.

Quindi, dileguate queste larve, tornava inesorabile il pensiero della sua ingratitudine, della sua debolezza, della menzogna, con cui ella ancora macchiavasi, momento per momento, senza rossore, di fronte all'uomo clemente, che con un raro esempio di bontà aveva tuttavia per lei la parola del perdono ed era condannato in causa sua a perdere per sempre la sua felicità così a lungo agognata.

In questi momenti il male, ch'ella faceva, le appariva senza confini. Ella comprendeva ciò che il Sant'Angelo doveva soffrire. Sentiva come su di lei unicamente ricadesse la colpa se quella nobile ed utile vita s'era piegata così fiaccamente. E nelle sue veglie prolungate, sovvenendosi di certe frasi côlte sulle labbra di suo marito, uno snervante sgomento s'impadroniva di lei. "Se non avessi creduto che ciò possa essere-aveva egli detto parlando della sua fiducia nell'obblio di ogni fatto trascorso-avrei preferito morire!" E ripetendosi questa frase, ancora una larva sinistra le appariva, lugubremente, così come le era apparsa una volta sotto la impressione funerea delle parole di una povera vecchia visionaria: l'immagine di Sebastiano Morò, il gentiluomo morto laggiù, tragicamente, pel suo amore tradito e pel suo onore offeso…

Ma dunque doveva ella proprio concambiare i beneficî ricevuti, con la rovina finale di tutto in quella casa, con la distruzione d'ogni letizia, e forse con la morte?

No, no, sarebbe stato troppo. Gli innocenti non dovevano portare le conseguenze del peccato altrui. Era lei la colpevole, era lei su cui pesava la responsabilità di tutto: doveva essere lei pure la vittima: nessun altro, assolutamente.

E nella mestizia opprimente di quelle notti già rigide, mentre per la campagna scrosciavano le piogge diluviali e incombeva un silenzio greve sulla casa, l'idea sinistra di finire, di finire per sempre, risolutamente, la sua vita disgraziata, le s'imponeva ognor più vittoriosa. Succedeva nell'animo di lei lo stesso lavorìo lento, invadente, dell'idea disperata e fatale, che le era nata, un'altra volta in un giorno della giovinezza, là nella sua povera stanza in un villaggio alpestre, quando aveva visto estinguersi l'ultimo raggio di fede, che ancora la sosteneva… Continuare a vivere così, con un amore colpevole non ispento peranco nel segreto dell'anima, tradendo giorno per giorno la fiducia dell'uomo cui doveva la sua riabilitazione, il nome rispettato, l'onore… no, non doveva: sarebbe stato turpe e vile. Finire, era meglio, era il suo dovere. Poi, una volta sparita, sarebbe venuto l'obblìo, il perdono. Si perdona sempre a chi sa scontare con animo forte il proprio peccato. Lei, voleva, era decisa, era convinta che altro più non le restava a fare. Il torbido proposito s'era così radicato profondamente nel suo pensiero, cancellandovi ogni altra idea, infondendo in lei quasi un benefico sentimento di calma. E fu allora ch'ella pensò all'ultimo dovere che le rimaneva da compiere: quello di far conoscere all'uomo, ch'era stato il compagno fedele degli anni suoi più buoni, tutto ciò ch'ella ancora nascondeva nel suo cuore, tutta la verità del suo peccato, le ragioni forti e ineluttabili ond'ella era trascinata al divisamente estremo. Chiusa nella sua camera, cogli occhi gonfî dal pianto, rattenendo i singhiozzi che le spezzavano il petto, ella scrisse, sentendo di mettere tutta l'anima nelle parole roventi, che le scorrevano dalla penna, una lunga lettera al Sant'Angelo. Gli diceva tutto, si doleva di tutte le sofferenze che così ingiustamente gli aveva portato, e, benedicendolo per la sua magnanimità infinita, gli chiedeva perdono. Terminato il foglio non volle rileggerlo, temendo di venir meno alla sua decisione: lo chiuse rapidamente, vi pose la soprascritta con mano tremante; indi andò a riporre la lettera in un cassetto della piccola scrivania ch'ella aveva nella sua stanza da dormire e nel quale tenea raccolte molte sue care memorie. Colà il professore l'avrebbe trovata dopo, certamente e presto.

Compiuto quest'atto pressochè in modo inconsapevole, come guidata da un potere magnetico, le parve che già ogni suo vincolo con la vita fosse spezzato. Gli occhi le si erano fatti aridi, le tempie le ardevano come strette da un cerchio di fuoco: una torpidezza plumbea era subentrata all'orgasmo che l'aveva tenuta fin poco prima; e solo, in quella invadente atonia, un'acuta trafittura al petto, con uno spesso rinnovellarsi, la richiamava alla coscienza del suo dolore.

La sera era venuta, una sera umida e fredda, che con le folate impetuose del vento e col romoreggiare della pioggia insistente facea presentire l'inverno vicino. In casa erano a quell'ora le consuete faccende. Nell'ampia cucina, la Vige, intenta al gran focolare, apprestava la cena, mentre in giro, seduti sulle vecchie panche addossate a' muri scintillanti di arnesi di rame, i famigli attendevano fumando e ciarlando.

Guardandosi dal far rumore, col passo vacillante, simile ad una sonnambula, Loreta uscì dalla sua stanza, attraversò l'andito buio, si fermò un momento ad ascoltare l'allegro vocìo che usciva dalla cucina illuminata; poi, più lungamente presso all'uscio dello studio di Mattia. La porta era socchiusa: una lampada ardeva sulla scrivania: potò vederlo. Sedeva, lontano dal tavolo, in una sedia a bracciuoli, col mento sul petto, cogli occhi semichiusi, come in un dormiveglia. Le guance di lui le parvero, alla debole luce che la lampada riverberava, ancor più pallide del consueto: la sua fronte scavata di rughe profonde, piegavasi stanca; vedendo com'egli appressava al volto replicatamente la destra, le sembrò ch'egli vi tergesse delle lagrime.

Ella appoggiò estenuata la fronte scottante allo spigolo dell'uscio e sentendo rinnovarsi con accresciuto furore la trafittura lancinante al suo petto, represse, con isforzo sovrumano, un gemito di sofferenza. Poi, come riprendendo ad un tratto la lena, scese l'ultimo ramo di scale, traversò l'atrio buio, dischiuse la pesante imposta del portone ed uscì all'aperto.

Una raffica di vento le flagellò aspramente il volto. Non pioveva più. Ma l'aria era tagliente; il cielo oscurissimo.

Dove andava? Che stava per fare? Non lo sapeva ella stessa. Doveva andare lontano, in un luogo così lontano, d'onde non avrebbe potuto tornare mai più. E nelle tenebre folte che si addensavano intorno a lei, di là dalla macchia bruna del bosco, nel quale il vento strepeva con sinistre voci, ella aveva come una visione vaga del torrente Cormor, che scendea in quella stagione coi suoi flutti limacciosi, gonfio e vorticoso, laggiù, a' piedi del palazzo Morò-Casabianca. Sì, laggiù, laggiù: era una voce che la chiamava, la voce del destino cui non si resiste, la voce annunciatrice della sua liberazione.

Sfinita, ansante, ella si afferrò alle sbarre umide del cancello per dischiuderne il battente. Ma questo resistè. Raccogliendo tutte le sue forze ella scosse un'altra volta, con ambe le mani tremanti, i ferri, inutilmente. Madida la fronte di sudore, digrignando i denti in un brivido di febbre e di rabbia, ella si ostinò ancora in quello sforzo. Ma di repente, côlta da una nuova trafittura al petto, sentendo un gran gelo diffondersi per tutta la persona, ella stese le braccia, e mentre un breve grido soffocato le sfuggiva dalla gola, cadde riversa sul terreno molle urtando col capo nelle sbarre del cancello.

Ella rimase colà, sola, senz'alcun soccorso, per alcuni minuti. Intanto in casa la sua assenza era già stata notata. La Vige, come avea terminato di apprestare la cena, erasi recata alle stanze della padrona per avvertirla che tutto era pronto; indi, meravigliata di non trovarla colà, era entrata nello studio, calcolando ch'ella vi fosse in compagnia del professore. Ma poichè questi era solo, non potè nascondere l'inquietudine che tosto le nacque, nel presentimento di un fatto triste che stesse per sopravvenire. Mattia vide lo sbigottimento di lei: la interrogò vivacemente ed appena ella ebbe borbottate tre o quattro parole provò una stretta al cuore, subendo egli pure la sensazione che facea tremare in quell'istante la povera donna. Nello stesso momento apparve all'uscio della camera Agnul, bianco in viso, smarrito, chiamando con voce rotta dall'ansia: – Presto, presto… la signora… venite, venite… -

Mattia balzò in piedi e di corsa seguì il ragazzo giù per le scale, oltre l'androne buio, all'aperto.

–Qui… qui… al cancello! – mormorava Agnul precedendo rapidamente.

Colà riversa, colle braccia distese, inerte sul suolo fangoso, trovarono Loreta.

Mattia, invaso dal terrore, s'era gittato subito a ginocchio accanto a lei, sollevandole il capo, cercando le sue mani. Ella era fredda, inanimata, con le pugna contratte come in una convulsione dolorosa: solo, ad intervalli, un breve respiro le usciva affannosamente dalle labbra. Il professore ebbe un lampo di speranza: viveva, viveva!.. e tosto, ringagliardito, con una slancio pieno di passione, sollevò da solo fra le sue braccia il corpo di Loreta e, tenendola strettamente contro il petto, la portò in casa.

Coricata nella sua stanza, mentre si ricorreva premurosamente a tutti gli espedienti consigliati dalla pratica domestica per simili casi, Agnul era corso al paese a cercarvi il medico. Ma sia che il ragazzo non l'avesse subito trovato o che per qualche altra ragione questi non potesse incontanente rendersi all'invito, si dovette attendere prima del suo arrivo per oltre un'ora: tempo che parve, all'ansiosa impazienza del Sant'Angelo, più lungo d'un secolo. Loreta, a malgrado avessero tentato ogni mezzo per ricondurre il calore alle sue membra irrigidite, pareva scossa continuamente da un brivido di freddo: chiusi sempre gli occhi, mentre giù per le guance livide scendevano sempre le lagrime, ella, col capo bruno affondato ne' guanciali, rimaneva immobile, senza conoscenza.

Mattia agitato, fremente, smorto come un cadavere, non sapeva allontanarsi da lei. Curvo sul letto, procurando di scaldare nelle sue mani le povere mani assiderate di lei, spiava ansimante ogni suo movimento, tendendo l'orecchio ad ogni rumore giù nel cortile, nella speranza che il medico finalmente arrivasse. Ma il tempo passava e questi non compariva.

La Vige pallida anche lei, taciturna, vedendosi impotente ad ogni soccorso, s'era messa accanto alla finestra a spiare se tra la nebbia della notte, giù per lo stradone, comparissero alla fine le lanterne del carrozzino. Ma nulla, nulla. Le tenebre intorno alla casa parea la chiudessero in un isolamento sinistro. Sempre, nel silenzio grave della camera, il respiro difficile che sfuggiva a irregolari intervalli di mezzo alle labbra azzurrastre della signora.

Finalmente a un tratto parve a Mattia che un leggero acquietamento intervenisse in lei. Le sue dita si agitarono, come cercando un appoggio: un sospiro profondo le uscì dal petto.

–Loreta, Loreta… – egli la chiamò.

Lentissimamente ella aperse gli occhi: con uno sguardo smarrito li girò intorno a sè, poi fissando il professore, un'espressione di sgomento le si delineò nel viso.

–Loreta, Loreta! – egli ripetè con una intonazione supplichevole, per chiamarla alla vita, alla coscienza, accarezzandole il capo con una carezza soave come quella di una madre.

Ella parve riconoscerlo: parve riacquistare subito consapevolezza di tutto e con un impeto subitaneo s'afferrò alle sue mani:

–Mattia, perdono, perdono!..

–Non agitarti, non parlare… acquietati, Loreta… Ella per un istante tacque, poi guardandolo sempre con malinconica fissità:

–Mattia, Mattia, perchè non mi hai lasciato morire? Io volevo morire… Sarebbe stato tanto meglio se tu mi avessi lasciato morire…

Egli ebbe un senso di raccapriccio. Morire? Voleva morire? Ma dunque era vero ciò ch'egli aveva sospettato?.. Era sì grande il rimpianto di lei per l'amore perduto?..

Si chinò sul letto, tremante, volendo ch'ella continuasse, ch'ella dicesse tutto, ch'ella gli confermasse ancora una volta la temuta verità… Ma ella sembrò venir meno novamente: piegò con uno scatto repentino il viso contro il guanciale e, mentre gli occhi le si richiudevano, ricominciò a tremare, scossa da uno spasimo persistente.

Il medico venne. Esaminò l'ammalata, fece molte domande a Mattia, alla Vige, poi rimase visibilmente incerto. Ordinò qualche calmante, ghiaccio al capo: non poteva dir nulla, bisognava attendere il domani: certo che lo stato della signora lasciava adito a molte apprensioni: non lo nascose, per debito di franchezza, al professore: tuttavia non si esagerasse nelle apprensioni. E promise di tornare al domani.

La notte, trascorsa in una indicibile agitazione, non segnò alcun miglioramento. Il dottore, tornato all'alba, appena gittato uno sguardo sulla sofferente, apparve conturbato. Rinnovò il suo esame, con grande attenzione. Quindi, lasciate alcune prescrizioni, che raccomandò di seguire con iscrupolosa esattezza, nell'uscire con Mattia gli dichiarò di aver trovato l'ammalata in condizioni di molta gravità: un'infiammazione degli organi respiratorî s'era manifestata con una gagliardìa pressochè eccezionale, ma quello che più lo impensieriva era lo stato anormale del cuore, che (egli non sapeva se per congenita predisposizione o per cause efficienti del momento) presentava un'assai notevole irregolarità del suo funzionamento.

–Ma dunque è un caso disperato, dottore? – chiese trepidante il Sant'Angelo.

–Non si deve disperare mai fino a che la scienza può esperimentare i suoi mezzi e fino a che-soggiunse il medico con dolcezza-si è ancor giovani com'è la sua signora…

Il Sant'Angelo comprese il fine pietoso di quelle parole; ne sentì riconoscenza, ma nessun affidamento a sperare. Vedeva. Nell'immensa angoscia, ond'era divorato, sapeva di non essere sotto l'impressione pessimista, propria a chi si vede minacciato nelle cose più care: lo stato, in cui Loreta trovavasi, non lasciava, purtroppo, adito ad illusioni.

Allora, ogni altra idea dileguò dal suo spirito per lasciar luogo a quella del dovere: bisognava disputare alla morte il trionfo: gli pareva, che se ad ottenere questa vittoria fosse stato necessario un miracolo, egli avrebbe trovato le forze per compierlo.

Ma le ore passavano e passavano le giornate senza che alcun mutamento favorevole subentrasse nello stato dell'ammalata. A malgrado di tutte le cure, che si moltiplicavano intorno a lei con vigilante sollecitudine, il male progrediva nel suo corso fatale. Il medico pareva scoraggito vedendo come la fierezza del morbo persistesse ribelle a' mezzi più energici impiegati per domarlo. Lo stato di atonia perdurava costante in Loreta: cogli occhi pesantemente chiusi e la faccia infiammata, pareva che un'invincibile sonnolenza la tenesse: solo un respiro rantoloso, quasi rauco, frammezzato a tratti da suoni inarticolati, che forse corrispondevano alle torve visioni d'un sogno, continuavano a sfuggire dal suo petto.

–Che cosa sarà, dottore, che cosa sarà?

Il medico confondevasi, cercava delle frasi evasive, sperava in una crisi che poteva determinarsi nel settimo giorno, affermava di aver trovato (e l'indicava come un indizio favorevole) una tendenza migliorata nelle pulsazioni del cuore.

Ed una sera, alla vigilia appunto del settimo giorno della malattia, così ansiosamente atteso, il Sant'Angelo per un momento credette di veder verificate le previsioni del medico e la speranza ch'egli nutriva così caldamente. Quasi d'improvviso Loreta sembrò calmarsi, la sua respirazione si fece più regolare, il secco rossore che le affocava la faccia parve attenuarsi fin quasi a scomparire. E ad un tratto ella aperse gli occhi, lo vide, lo riconobbe, e con un rapido gesto lo chiamò a sè. Egli avvicinò il volto a quello di lei, sorridendole, coll'animo diviso fra la tema e la speranza. E fu allora che con voce malferma-una voce che a Mattia sonò nuova, come quella di persona ignota, – ella con molto sforzo potè profferire poche parole:

–Mattia… vedi, la morte, che io ho chiamato, sta per venire. La sento che viene… Ma tu non maledirmi quando saprai perchè ho desiderato la morte… Ho voluto che tu sapessi tutto… Ho confessato tutto… Vedrai: là… là…

E colla mano pallida e coll'occhio brillante di una strana luce indicò la scrivania tra le due finestre.

Egli esitò.

Ma Loreta insistette ancora, mentre le forze visibilmente le si venivano esaurendo:

–Là…

Egli comprese, andò al tavolo, cercò fra gli oggetti sparsi, aperse uno o due cassetti; finalmente nel piccolo tiretto, ove sapeva ch'ella conservava i suoi ricordi, trovò il piego chiuso, colla soprascritta a suo nome.

Prese la lettera e d'uno slancio tornò verso il letto.

–Perdonami, Mattia, perdonami. Ho tanto sofferto…

Loreta non potè proseguire. I suoi occhi si velarono, un singulto le troncò la voce, e ricadde come prima in un sopore profondo.

Da questo ella non uscì più. Il medico chiamato in fretta non potè dir nulla: il male continuava il suo corso; la crisi, benchè sciaguratamente molti indizî negativi fossero già apparsi, poteva tuttavia compiersi ancora, all'ultimo istante, in senso favorevole.

La Vige cogli occhi pieni di lagrime venne al padrone e con poche parole lo pregò di mandare qualcuno a Udine perchè venisse don Letterio: pareva a lei, nella sua povera fede di contadina, ch'egli avrebbe potuto con la sua presenza determinare un miracolo. Il Sant'Angelo accondiscese immantinente, volle anzi che a malgrado dell'ora tarda e del pessimo tempo il ragazzo partisse subito col carrozzino.

Mattia rimase poi solo nella stanza dell'ammalata e abbandonato in una poltrona, con lo sguardo intento nel suo viso sofferente, parea stesse scrutando se la crisi, di cui il medico aveva forse per ingannarlo parlato, non accennasse con qualche lieve segno a manifestarsi.

La serata era cruda. Fuori, sulla campagna, il vento s'era levato con insolita furia. Seguendo il consiglio del medico, un buon fuoco-il primo di quella invernata, che si annunciava in così tetro modo-era stato acceso. E nella camera non era che una fioca luce, piovente dalla lampada velata, e il bagliore rossastro che gittava a intermittenze la fiammata del camino.

Immoto al suo posto, il professore per lungo tempo non avea saputo staccare gli occhi da Loreta, poi ad un tratto, quasi macchinalmente, cercò nella tasca del petto la lettera, che vi aveva rapidamente deposta poco prima. E strettala per un istante fra le dita, la lasciò subito cadere, come preso da un istintivo orrore, sul tavolo che gli stava dinanzi.

Il tempo scorreva lentissimo: sempre in quella stanza, ove ora l'atmosfera s'era fatta caldissima, durava penoso il respiro greve dell'ammalata: fuori, intorno alla villa isolata, sempre il rombo cupo del vento, che incalzava coll'avanzar della notte.

E il professore, in quell'ora lugubre, dinanzi a quel foglio ov'era l'ultima parola del segreto fra lui e Loreta, la confessione estrema di tutto ciò che aveva deciso irreparabilmente la perdita d'ogni suo bene, ebbe come una rapida visione di tutto il passato: sentì, nel fondo dell'anima, risorgere tutta la lotta de' suoi affetti. Egli ripensò alla crudeltà del destino che l'aveva gittato fra quelle due anime, ancor legate da tanta tenacia di sentimenti, obbedienti ancora ai richiami imperiosi de' ricordi e della giovinezza: ed anche ripensò, con un'amarezza infinita, a tutto ciò onde egli era debitore ad Alvise Polverari, a quanto egli doveva alla misera donna che ora moriva, che gli aveva chiesto il suo perdono e ch'egli sentiva di amare ancora, sempre, immensamente.

Di nuovo i suoi sguardi caddero sulla lettera chiusa: una curiosità acuta, ardente, s'impadronì di lui: sapere tutto, subito, leggere confermato da lei stessa il fatto abbominevole, ch'egli aveva presentito e per il quale ella moriva.

Ma mentre le mani afferravano già il piego, egli ad un tratto s'arrestò, repentinamente, come se un sentimento nuovo fosse venuto a mutare il corso de' suoi pensieri.

I suoi occhi, che fissavansi ora assorti nel volto dell'ammalata, parvero accendersi d'un vivido lampo: una profonda espressione di bontà si diffuse su tutti i suoi lineamenti.

Egli stette alcuni istanti immobile, come porgendo ascolto ad una voce segreta, che venisse da lontano, da un mondo migliore del nostro: la cara voce familiare, che nelle ore più gravi della sua vita gli aveva parlato nell'anima la santa parola dell'amore, della pietà, del perdono.

Col viso bagnato di lagrime egli sorse in piedi e, presa con atto risoluto la lettera di Loreta, la gittò vivamente tra le fiamme del camino.

Poi, subito, come obbedendo a un violento impulso, egli cadde ginocchioni presso il letto, piegando sulle coltri la sua povera testa canuta. E congiunte le palme, in un risveglio inconscio e potente della fede appresa nel dolce tempo infantile, quell'uomo forte, provato già tanto alla scuola della sventura, pregò fervidamente, con tutte le forze del suo cuore, per la salvezza di Loreta.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
03 июля 2017
Объем:
280 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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