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Читать книгу: «Il peccato di Loreta», страница 13

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–Brutta sera! – disse Loreta a un tratto come obbedendo macchinalmente alla sensazione ch'ella provava nello spingere l'occhio per la campagna sconvolta.

–Brutta sera… – esclamò dopo un'esitanza Alvise. – Per tutti, signora… Per me solo, no, certamente.

E fissandola in volto con gli occhi lucenti, pareva volesse dirle con l'eloquenza dello sguardo quale profondo sentimento egli avesse inteso di celare sotto il velo di quella frase, che sonava in apparenza come un semplice madrigale.

Poi, subito, con grande effusione:

–Loreta, – mormorò, – non potete sapere con quanta ansietà io attendevo questo momento. Vi ricordate l'ultima volta che ci vedemmo… sul colle di Fontanabona? Vi ricordate la parola che mi diceste nel lasciarci? Era la promessa di rivederci ancora. Ed oggi…

Detto ciò con voce commossa, egli s'arrestò per un breve momento:

–Se sapeste come mi sento ora felice! – soggiunse poi con impeto.

Ella lo guardò fissamente, come se quel linguaggio, che presupponeva in lei un'intenzione tanto diversa da quella ond'era animata, le fosse spiaciuto.

–Non dite così, conte. È vero che io vi ho dato promessa che ci saremmo riveduti. È pur vero che io stessa ho desiderato di potervi parlare. Ma…

–Ma?.. – egli chiese ansiosamente, incoraggiandola a continuare.

–Ma-ella rispose con accento severo, – ritenevo che voi doveste immaginarvi quale poteva essere lo scopo, l'unico scopo, del nostro incontro…

Poi, dopo un breve silenzio, ella proseguì lentamente:

–Se è vero, Alvise, che voi mi avete amata e che in un'ora della vostra vita io fui qualche cosa per voi, saprete ascoltare la mia preghiera; poichè è una preghiera, Alvise, che io vi faccio con tutto il mio cuore… Lasciatemi, andate lontano, non vogliate, dopo tutto quello che ho sofferto, farmi ancora del male. Io voglio, Alvise, che voi sappiate obbedire alla ragione; e se la mia parola non sa infondervi questa forza, voglio che la chiediate alla vostra coscienza di gentiluomo. Perchè vorreste turbare una casa onorata, distruggere quella felicità che io, dopo tante traversie, mi sono finalmente creata qui, nella stima e nell'affetto di un uomo onesto e buono?..

Egli ascoltò senza rispondere, agitatissimo.

–Mi parlate di doveri! – esclamò poi vibratamente. – È bello quello che voi fate ed io ne sento e ne apprezzo tutta la generosità. Ma voi credete che a questi doveri si possa obbedire con tanta abnegazione, senza che il cuore si ribelli, senza che nulla, nemmeno la sicurezza di essere stati amati veramente, ci conforti?

E poichè ella levava su lui in atto di interrogazione gli occhi, stupita di quell'ultima frase:

–Sì, – egli ripetè, – ho detto "senza la sicurezza di essere stati amati" perchè se voi, Loreta, in un tempo lontano mi aveste amato veramente, se mi aveste amato soltanto un poco, no, non avreste potuto parlarmi ora con la freddezza con cui mi parlaste…

–Io ho fatto il mio dovere, Alvise!

–Il vostro dovere! V'ho detto già che è virtù il saperlo compiere: facile virtù per altro quando non si ama e non si è mai amato! E voi, Loreta, non mi amaste: tutto me lo fece comprendere nel passato e tutto me lo comprova anche adesso…

Ella erse il capo fieramente, stringendo le labbra pallide, trafitta da quelle parole.

–Nel passato! – ella esclamò. – Dite voi questo? lo pensate? lo avete creduto? Lo avete creduto dopo tutto quello che mi avete fatto soffrire! Ah! Alvise, come non mi conoscete oggi e non sapete comprendermi nella lotta di questo momento, non mi avete compresa mai!

Ma egli sempre più animato insistette:

–Oh! Loreta, non mi sono ingannato, no, purtroppo per me, purtroppo per le mie illusioni, in tutto quello che ho pensato di voi. L'altro giorno vi dissi quanti dubbi hanno distrutto la mia pace dal momento in cui la sorte ci divise. I miei dubbi eran fondati. A chi non sa amare è ben facile l'oblìo!

Di smorta ch'ella era, Loreta a questo punto s'imporporò in viso, sotto un impeto violento d'indignazione. Il linguaggio scettico ed aspro di quell'uomo la offendeva nella parte più sensibile dell'anima. Era dunque cotesto il frutto del sacrificio ch'ella aveva fatto? era questo il premio della lotta che si era imposta per fuggirlo, per far tacere il proprio amore, per restar fedele ad un giuramento fatto quasi ad espiazione d'una sua colpa?

E le sovvenne in quel momento tutto quello ch'ella dovette passare: l'ultimo colloquio da lei avuto, laggiù, in una delle vecchie sale della villa d'Arsizzo con la madre del conte Alvise: le parve di rivedere dinanzi a sè la figura di quella donna, non più severa come chi è nel diritto di punire, ma umile e mite come chi implora una grazia: le rinacque vivo nello spirito il ricordo delle sue ore di stento, di miseria, di solitudine, passate talora baciando e bagnando di lagrime una scialba miniatura, il ritratto di Alvise, l'unica memoria portata con sè del tempo felice: finalmente pensò con terrore al giorno quando, stremata di forze e di coraggio, letto in un giornale la morte di Alvise in un paese lontano, volle finirla ella pure, chiedendo alla pace del nulla la sua liberazione.

E sotto l'impressione di tutte quelle immagini risorte dinanzi a lei tumultuosamente non resse più, si sentì soffocata, e dimenticando ogni altra cosa, irresistibilmente, non obbedì che al bisogno di difendersi, di respingere la taccia ch'egli le gittava in viso, di dirgli tutto:

–Non vi ho amato? Non ho fatto nulla per voi? Mi avete creduto un'anima incapace di ogni virtù e di ogni forza?.. Ebbene, no, non è vero: vi ho amato intensamente, come si ama una volta sola, come non meritavate che vi amassi. Se vi ho fuggito, se non ho cercato di rivedervi era per obbedire ad una promessa che non potevo infrangere, che avevo fatto a vostra madre… Se la mia miseria e la mia solitudine mi parvero più dolorose, era sempre per il pensiero che voi mi aveste dimenticata… Il giorno che vi credetti morto mi lasciai trascinare io stessa a un passo disperato, obbliando tutto, obbliando la mia fede di cristiana… Ah! Alvise, e questo non è amore?.. Come foste ingiusto verso di me, Alvise! Come mi avete giudicata male!

Egli che l'aveva ascoltata interdetto, pendente dal suo labbro, colpito da quella rivelazione inattesa, come ella ebbe finito le afferrò appassionatamente le mani:

–Oh! Loreta, – esclamò subito, – come posso io dirvi la gioia immensa che voi mi avete recato con le vostre parole? Era questo che io voleva da voi: questo il supremo bene al quale io anelava!

Ma la donna, come se ad un tratto avesse riacquistata la coscienza di ciò che faceva, sciolse subito le proprie mani dalle mani ardenti di Alvise.

–Ah! che cosa mi avete fatto dire!.. Lasciatemi, lasciatemi, Alvise!

–No, Loreta, non vi pentite della parola, che più forte di voi vi è sfuggita dal cuore. Sarebbe inutile ora: non potreste più togliermi la felicità che senza volerlo mi avete data! Il vostro amore, Loreta, il vostro amore… È stata questa l'unica gioia della mia vita: è stato in esso il compendio di tutta la mia giovinezza. Tutto era morto con esso: non ebbi più nulla poi, nè un sorriso, nè una speranza, nulla. Comprendete ora il bene che mi avete fatto, Loreta… lo comprendete?

–Il bene che vi ho fatto! – ella ripetè lentamente. – No, Alvise. Sarebbe stato ben meglio se questo momento non fosse venuto. Per l'affetto che ci siamo portati un giorno, abbiamo sofferto entrambi abbastanza. Nell'incontrarci dopo tanti anni avremmo dovuto avere la fermezza di non ripensare più al passato. Voi, che siete uomo, che siete più forte di me, avreste dovuto darmene l'esempio; e quando avete visto vacillare quel coraggio che io mi ero imposta e che avevo ancor oggi varcando la soglia di questa casa, avreste dovuto sentire compassione di me, non trascinarmi a dire quello che in un momento di incoscienza ho detto…

–Loreta! – egli esclamò supplichevole perchè ella non continuasse.

–Tuttavia io non deploro la confessione che vi ho fatto. Ora sapete come vi ho amato… sapete quanto per voi ho sofferto… Ebbene, è in nome di questo amore che io vi rinnovo la mia preghiera, alla quale dovete porgere ascolto: lasciatemi, non turbate più la mia pace, dimentichiamo entrambi!..

–Lasciarvi? E lo dite da senno, Loreta! E lo stimate possibile?

–Esitereste?

–Lo chiedete! Dopo quanto mi avete confessato adesso, dopo questa beatitudine tanto agognata, potrei lasciarvi?.. Ah! no. Questo non è nelle forze di un uomo. Non vedete, Loreta, non leggete negli occhi miei ciò ch'io provo?.. In questo momento tutto ciò che è passato non esiste più per me: questa è stata la potenza grande delle vostre parole, che hanno tutto cancellato, che mi hanno in un minuto solo fatto dimenticare tutto ciò che è trascorso… Loreta, è stato un brutto sogno il nostro: un sogno la nostra separazione, un sogno quello che abbiamo uno dell'altro creduto. Noi siamo tornati al tempo che credevamo non dovesse ritornare mai più: ai primi giorni del nostro amore… vi ricordate, Loreta, laggiù alla villa d'Arsizzo: i dolci pensieri nostri, le nostre prime confidenze, i trepidi colloqui… laggiù, coll'ansia di essere scoperti, dicendoci mille cose senza parlare, colle mani strette l'uno all'altra-così-nell'ombra verde del parco… vi ricordate, vi ricordate?..

Egli parlava ora irruentemente, col volto presso il volto di lei in modo che il suo respiro infiammato le bruciava la fronte. Era nel suo accento tale una soave dolcezza, tale un'intonazione di preghiera e di passione a un tempo, ch'ella ad un tratto, come pervasa da una malìa per tutte le vene, chiuse gli occhi, debolmente, infiacchita.

–No, Alvise, no.

Ma egli non le lasciava più le mani, che aveva allacciate alle sue, tenacemente, in una stretta convulsa.

–No, Alvise, no.

–Loreta, pensate, pensate: sarebbe ben tristo da parte vostra il contendermi quest'ora felice che la sorte mi ha riserbato… Sì, sì, partirò, se vorrete: tra pochi giorni fra me e voi sarà ancora una volta la lontananza infinita… Ma oggi… oggi… L'oggi, Loreta, è mio, è nostro: nessuno può rubarmi questo momento di contentezza sublime ed insperata. Poi… sarà quello che il destino ha segnato: sapete che i miei giorni sono contati, sapete quale condanna grava sopra di me… Morirò presto. Ma non importa, Loreta: so che tu mi hai amato, so che ti amo… supremamente, immensamente…

Dicendo così con voce rotta, quasi con un rantolo di gioia e di trasporto, le sue mani faceansi sempre più forti, stringendola in una stretta disperata.

–Loreta, Loreta!

Ella non vide più nulla: un velo grigio s'era steso dinanzi alle sue pupille: subitamente, come se tutto il suo sangue avesse cessato di scorrere, ella si sentì irrigidita, coi nervi paralizzati, fissi gli occhi estatici negli occhi deliranti di quell'uomo che la teneva in sua balìa, vinta, incapace di sprigionare più una parola od un grido dalle labbra frementi, ch'egli premeva ormai in un lungo ardentissimo bacio…

Da quel delirio soave a cui s'erano abbandonati e l'uno e l'altra quasi inconsciamente, cedendo al fiero impulso delle anime loro; da quella ebbrezza, colpevole ma divina, che era il trionfo ineluttabile della giovinezza, dell'amore rinascente, delle memorie risorgenti, si destarono entrambi con un turbamento amaro e doloroso. Rinato appena il dominio della ragione sulla febbre cieca dei sensi, e l'una e l'altro ripresero tosto la coscienza della loro posizione.

Loreta per la prima si riebbe da quello smarrimento: per la prima riascoltò la voce del dovere che elevavasi ora con un aspro rimprovero dal fondo del suo cuore.

Smorta al pari di un cadavere, colle guance rigate di lagrime, ella sciolse lentamente le sue mani da quelle di Alvise e senza parole si lasciò cadere in una delle ampie poltrone reclinando il capo affaticato.

Nella sala regnava un silenzio profondo. Di fuori la pioggia aveva cessato: sordamente un ultimo romore di tuono si perdeva nella lontananza e qualche pallido lampeggiamento rompeva ancora a lunghi intervalli le nubi cinerognole, che sfumavano lente sull'orizzonte di là dalle campagne allagate dall'acquazzone. Sotto i balconi del palazzo, scrosciando impetuoso fra le sponde soverchiate, mormorava colle sue gialle acque fangose il Cormor. Ancora, tratto tratto, qualche rintocco di campana giungeva fioco per l'aria commossa, dai villaggi lontani della montagna.

L'ombra di quel melanconico crepuscolo autunnale aveva ormai invasa la vasta sala. Sull'alto delle pareti le fosche pitture, in cui campeggiava la rossa figura del grande patriarca, investite gradatamente dall'oscurità, si faceano a poco a poco quasi indistinte. Solo di fronte a Loreta staccavasi nitido dallo sfondo bruno della parete il volto marmoreo di Sebastiano Morò-Casabianca. E come se ad un tratto un magico influsso fosse caduto su lei, Loreta fissò gli occhi in quella immagine candida, che parea la guardasse co' suoi occhi morti, con una strana espressione di tristezza diffusa nelle fattezze severe.

Immediatamente Loreta ripensò ai discorsi, che nel giorno lontano della sua prima visita al palazzo eransi fatti colà, ed alla storia, che vi aveva udita per la prima volta dalle labbra del Sant'Angelo, di quello sventurato gentiluomo.

Una sensazione di freddo le corse per le ossa e come presa da un folle terrore balzò in piedi, agitata.

–Ch'io parta, ch'io parta di qui… subito, subito! – ella esclamò soffocatamente.

Alvise le si fece appresso e con affettuosa sollecitudine la chiamò per nome:

–Loreta…

Ma ella arretrò tosto, con un moto di repulsione:

–Lasciatemi! – disse risolutamente, incrociando le braccia sul petto. – Lasciatemi!

Egli rimase interdetto, fissandola, indovinando il pensiero che era in lei, invaso a sua volta da un malessere sinistro, che gli gelava la parola sul labbro.

Lentamente, senza dirsi più nulla, uscirono dalla sala e scesero lo scalone, rischiarato scialbamente dalla luce tremola che pioveva da una vecchia lanterna veneziana, accesa già sotto l'arcata ampia del vestibolo.

Nel cortile il cavallo era attaccato. Ma Agnul, il fattore Beppo e le figlie di lui unitamente ad altri contadini, trovavansi a qualche distanza, raccolti tutti insieme dinanzi all'uscio d'una delle piccole case coloniche, presso il quale, sopra un ceppo rovesciato, sedeva la vecchia nonna Mariute.

La vecchia parlava a lenta voce e pareva che tutti l'ascoltassero con profonda attenzione. Era generale nel paese l'abitudine di farle narrare per ispasso le solite storielle, ma per quanto tutti le conoscessero a memoria e sapessero pure come la povera ottuagenaria da molti anni non avesse più la sua ragione, finivano sempre per ascoltarla con un curioso interessamento.

Quella sera il solo Beppo pareva che, tanto per farla arrabbiare o per crescere il divertimento degli altri, si mostrasse incredulo di quanto ella veniva narrando, poichè appunto verso di lui ella rivolgevasi stizzosamente nel momento stesso in cui Loreta ed il conte uscivano dall'androne:

–Ridete, ridete voialtri! Ma io vi dico che il conte Sebastiano è tornato… Torna sempre nelle sere come questa… In una sera come questa si è ucciso lassù…

E tendeva il dito verso i veroni della sala, che Loreta e Alvise avevano lasciata, illuminati in quel momento dal rapido strisciare di un lampo.

Loreta a quel discorso, che già un'altra volta aveva udito con le stesse frasi dalla bocca della strana vecchia, si sentì riafferrata dal terrore di poco prima.

E nell'atto che saliva nel carrozzino, costretta a porgere la mano al Polverari, non gli disse che alcune poche parole, rapidamente, con accento di intensa preghiera:

–Ed ora… Alvise, siate forte… ed abbiate pietà di me!

XVIII

La notte era già alta quando il carrozzino della Sant'Angelo fu presso alla casa.

La Vige, la quale attendeva inquietissima e s'era crucciata l'intero pomeriggio col rimorso d'essere stata proprio lei la causa che la padrona si fosse esposta a quel malcapitato temporale, era corsa ad incontrarla giù per lo stradone e appena le fu vicino cominciò, con la verbosità che le era connaturata, una serie interminabile di lamentazioni.

Loreta la lasciò dire, rispondendo appena qualche monosillabo, pressochè senza porre attenzione a tutto quello che la povera serva si credeva in obbligo di farle sapere. E soltanto si scosse impressionata quando la Vige ebbe fatto cenno all'inquietudine nella quale s'era trovato al pari di lei il professore Mattia.

–È tornato? – chiese la signora vivamente.

–Sì. Poco dopo il primo acquazzone. In cinquanta minuti da Udine… Una corsa! Quella brava Grigia… mezza morta parea quando entrò nella stalla…

–Ha chiesto di me il padrone?

–Più volte: impazientissimo. Bisognava vederlo. Con tutta l'acqua che veniva giù era ogni momento alla finestra aperta per guardare nella campagna… Ah! eccolo.

Infatti in quel momento il professore, chiamato egli pure dal rotolìo della carrozza, affacciavasi al portone.

Al vederlo, una fiamma subitanea s'accese sulle guance esangui di Loreta. Una debolezza la prese impedendole di avanzare il passo. E nella mente le passò fulminea la visione di ciò che forse l'attendeva tra poco, senza rimedio, quando ridotta ormai incapace di ogni ulteriore simulazione, nulla avrebbe potuto più scongiurare il momento temuto di una spiegazione decisiva tra lei e Mattia.

Ma da questa perplessità angosciosa, durata appena un istante, ella fu tratta immediatamente dall'accento con cui il professore le volgeva il suo saluto. Colpita dapprima da quell'intonazione pacata, che nell'animo agitato da tanti timori le riusciva pressochè inattesa, si sentì tosto rinfrancata. E al saluto di Mattia rispose con sufficiente naturalezza riguadagnando a poco a poco lo spirito e ricuperando, a mano a mano ch'egli le parlava, la propria sicurezza.

Il professore pareva tranquillo: l'irritazione nervosa, che quella mattina aveva tradito in ogni suo atto, sembrava svanita; solo permaneva nelle fattezze di lui come un'ombra di stanchezza, che allo sguardo di Loreta non poteva sfuggire.

Tuttavia di quella calma ella restò persuasa. E soltanto a un certo momento il dubbio le venne d'essere indotta in errore, alla contrazione che apparve per un attimo nel volto di Mattia, quand'ella ebbe detto dell'ospitalità trovata durante l'imperversare del temporale nel palazzo Morò-Casabianca.

–Ah! – egli aveva esclamato subito, – nel palazzo Morò!

Poi con una interrogazione, fatta lentamente, cogliendo una frase del racconto udito:

–Per un'ora? – egli disse.

–Sì… per un'ora, – rispose lei, macchinalmente, fissandolo come per iscoprire il recondito senso di quella domanda.

Ma il discorso non ebbe seguito. Un silenzio increscioso regnò quindi fra i due. Solo più tardi, al momento che stavano per ritirarsi dopo la cena, il professore, levando d'un tratto uno sguardo freddo e severo sopra la moglie, pronunciò con manifesta intenzione queste parole, che la fecero trasalire:

–Domattina, molto per tempo, debbo recarmi a Morò-Casabianca…

–A Morò? – ella chiese, non riuscendo a nascondere il suo turbamento.

–A Morò, – egli ripetè con un tenue sorriso. – Debbo vedere il conte Alvise, al più presto, per un argomento assai grave…

Dicendo così la fissava negli occhi insistentemente, non perdendo ogni più piccolo suo movimento, con una acutezza penetrante.

Ella ebbe paura.

–Assai grave? – chiese, interdetta, con voce tremante.

Il professore si sforzò a sorridere.

–No, non aver paura… Affari… affari! Non c'è altro. Non ci può, non ci deve essere altro!

E levatosi, lento, con quel sorriso che gli increspava le labbra ancora, senz'aggiungere nulla di più, si dispose a ritirarsi.

–Sono molto stanco. Oggi è stato un giorno assai brutto. E finito però… è finito anche questo. Domani… Sarà meglio forse domani…

Questa fu l'ultima cosa che si dissero. Poscia il professore si ritirò nella sua stanza, ordinando che lo svegliassero all'alba, infallibilmente.

La notte che Loreta passò fu turbata da mille incubi affannosi. Sfinita dalle emozioni di quella giornata, ora un nuovo dolore ancor più tormentoso s'era impossessato di lei. La speranza estrema, che per un momento ella aveva nutrito dinanzi al contegno calmo di Mattia, era vanita. Le parole tristi, ch'egli le aveva detto poco prima di lasciarla, in quel breve colloquio concitato, ora le risorgevano al pensiero, come ripetute da una voce interiore, implacabilmente, senza fine, sinistre come la profezia di una grande sventura. Egli sapeva tutto: il risveglio colpevole di quella passione ch'ella aveva creduto di poter dominare: forse la debolezza suprema di quell'ultima ora: tutto ciò che ormai doveva distruggere per sempre la pace della loro casa… E domani, domani?..

Un sonno pesante s'aggravò al fine sugli occhi di Loreta, trionfo della stanchezza fisica sull'eccitazione tumultuosa del pensiero. Il giorno era già avanzato quand'ella uscì da quella specie di sopore, attraversato da torbide visioni. Levatasi subito, s'affrettò a discendere, ansiosa di vedere suo marito, quasi sedotta dall'idea che forse vedendolo o parlandogli avrebbe potuto persuadere sè stessa d'essersi troppo irragionevolmente abbandonata alle esagerate allucinazioni d'un sogno febbrile. Ma il Sant'Angelo era già partito. Ad Agnul, che l'aveva chiamato per tempo, disse che nella mattina si sarebbe recato a Morò-Casabianca. Poi, senza prendere nulla, rifiutando persino la tazza di caffè nero, che la Vige gli aveva apprestato, s'era messo per la via delle campagne, solo.

–Il padrone deve aver qualche gran brutto pensiero per il capo! – aveva detto quella mattina la Vige alla signora Sant'Angelo. – È da un pezzo che non è più lo stesso. Quando lo guardo, mi par tornato al tempo che la povera padrona vecchia stava male. Era tal quale, allora. Poi… poi, è stata lei, signora, a far tornare la consolazione. E bisogna che faccia presto lo stesso, anche ora. Che vita sarebbe, se continuasse così… Che vita!

Loreta tacque. Ma un'onda novella di sconforto le corse al cuore al suono di quelle parole, che nella rozza loro semplicità, pur sulle labbra di quella povera serva, ignorante di tutto ed inspirata unicamente da un cieco sentimento di devozione, chiudevano un sì grande significato.

Far tornare la consolazione in quella casa-ancora una volta-ora? No, non era più possibile: tutto era ormai finito: tutto ormai era deciso!.. "Che vita sarebbe se dovesse continuare così?" La domanda, che la vecchia domestica fedele s'era fatta poco prima, ingenuamente, quasi ammettendo la lieta fidanza che ogni nube dovesse dileguarsi tosto, avrebbe avuto una ben triste conferma.

Colle tempie addolorate da una pulsazione violenta, lottando contro uno smarrimento, in cui le pareva che le sue idee si confondessero senza nesso in una nebbia oscura, Loreta sentì il bisogno di raccogliere tutte le sue facoltà per seguire col pensiero suo marito, per indovinare quanto avveniva tra quei due uomini, laggiù, dove la voce del presentimento le diceva che in quell'ora dovesse compiersi il fatto decisivo della sua vita.

Ma per quanto Loreta nell'agitazione del suo spirito immaginasse quanto si passava allora nell'animo di Mattia, era ella ben lunge dal sapere a quale strazio quell'uomo generoso e forte si trovava in preda e quale sforzo immane di volontà egli avesse durato per mascherare in quegli ultimi giorni ciò che egli soffriva.

Al Sant'Angelo la verità era apparsa di schianto, con evidenza inesorabile. La lettera infame, che una mano nemica gli aveva fatto pervenire, non era stata che la conferma brutale del dubbio, onde l'anima sua era avvelenata. Mille volte, nelle ore pensierose, quando il suo spirito aveva piegato alla malsana evocazione delle previsioni nere, a quel bisogno tirannico di sognare gli avvenimenti nefasti, il quale sorge nell'anima dei felici quasi a rendere poi più inebbriante la preziosa realità del benessere e della pace, mille volte aveva sognato con terrore ciò che oggi vedeva sorgere con aspra verità dinanzi a' suoi occhi. Era il crollo della sua felicità, l'annientamento crudele d'ogni sua gioia, la fine di tutto. Le larve temute prendevano consistenza e forma. Le fantasime minacciose non erano più la evocazione melanconica della sua mente turbata. Ogni illusione sarebbe stata vana; qualunque rivolta, per quanto disperata, non avrebbe potuto tornargli nulla di ciò ch'egli vedeva ormai irremissibilmente perduto. E nella piena del suo dolore, pur nella prima crisi acutissima che gli aveva fatto piangere le più tristi lagrime le quali possono sgorgare da un cuore esulcerato, un pensiero solo non l'abbandonò mai, dominando con fredda lucidità nella sua mente: lo stesso pensiero nel quale una volta aveva già così a lungo esitato di cedere alla voce imperiosa del suo cuore, e di legare il proprio destino a quello di Loreta…

Perchè s'era lasciato vincere? perchè non aveva seguito quel primo istintivo consiglio della ragione, che era giusto e previdente e nel quale sarebbe stata la sua salute!.. Egli era stato leale: a Loreta, nel giorno in cui la loro sorte si era decisa, aveva detto con candida lealtà, per quale affliggente esitanza si fosse arrestata tante volte sul suo labbro la confessione di quell'amore per cui egli viveva e del quale rimproveravasi come di una follia; poi aveva ceduto, aveva creduto che la virtù, la bontà dell'animo, le premure costanti, l'affetto diuturno-fatti religione immutabile della casa-sarebbero bastati ad assicurargli per sempre quella felicità che gli era apparsa come la meta radiosa d'ogni più ardita e più lusinghiera sua aspirazione.

Ed ora il vero tornava: la legge eterna della giovinezza, più forte dei doveri sociali, più forte d'ogni legge umana, doveva necessariamente trionfare. Il segreto di Loreta, ch'egli aveva sempre ignorato fin là, la stessa colpa del suo passato, ch'egli aveva cancellato col perdono, gli si erano appalesati crudamente. Quell'uomo, ignaro d'ogni raffinatezza mendace ed incredulo d'ogni inganno, aveva ricostituito con ispietata divinazione la storia dell'amore di Loreta e d'Alvise. La fede ch'egli aveva nutrito che quell'amore fosse morto per sempre, e il sogno, lungamente accarezzato, che nell'animo di Loreta null'altro affetto regnasse più se non quello ch'egli le aveva offerto con tanta appassionata sincerità, svanivano insieme, in un punto solo.

E mentre col cuore in orgasmo e colle vene ardenti egli chiedevasi a quale partito dovesse appigliarsi; mentre un'impetuosa brama lo afferrava di rompere ogni dubbiezza e di erigersi a tutore vigile e severo del suo onore o minacciato o forse già offeso, egli pure non riusciva a difendersi da un dolore acutissimo nel pensare alla crudeltà degli eventi che ora lo trascinavano, dopo tanta illusione di pace, al più fiero combattimento, che anima umana potesse sopportare.

Poichè anche fra gli spasimi della gelosia, sotto l'impulso del risentimento, non cancellavansi dalla mente del professore tutte le ragioni d'affetto, che lo legavano per diversi fatti, ma con pari strettezza, a Loreta e ad Alvise.

Loreta era stata il buon genio della sua casa. Per qualunque volgere di eventi non poteva egli dimenticare quanto quella donna avesse saputo fare per rendere men dolorose le sofferenze, men triste l'ultimo periodo di vita, dell'adorata sua madre. In quegli istanti terribili di scoramento, di esasperazione, era costretto a pensare alle lunghe notti, durante quell'ultimo inverno sconsolato, vegliate insieme a Loreta, accanto al capezzale della povera vecchia inferma; era costretto a pensare al sorriso che la sofferente aveva sempre avuto, pur nelle ore più crudeli del suo male, per la vigile e infaticata custode; nè aveva dimenticato mai, mai, malgrado tutto, come la sua santa madre, poco prima di abbandonarlo per sempre, avesse accomunato in un solo abbraccio, lui, figlio devoto e rispettoso, e quella giovane buona, paziente, coraggiosa. Loreta da quel momento gli era divenuta sacra: il suo affetto per lei si era, purificandosi, fatto così forte ed intenso, che nulla avrebbe potuto distruggerlo mai più. E in quell'affetto era rinato: per esso aveva egli avuto una serie d'anni senza nubi, senza turbamenti, pieni di sole: anni rapidi, in cui la giovinezza pareva tornata, in cui le speranze parevan risorte, in cui la vita gli era sembrata ancora piena di allettative e di ebbrezze…

Ed Alvise? Se v'era persona al mondo a cui il Sant'Angelo sarebbe stato lieto di poter mostrare, anche col massimo sacrificio, la propria devozione, era quest'uomo, ultimo erede di un nome, ch'egli era stato abituato a benedire fin dai primi giorni dell'infanzia: il figlio del patriotta esemplare, del generoso amico, alla cui abnegazione egli doveva la vita, la salvezza, le cure dolci e indimenticate del padre suo. Il giorno, in cui l'aveva visto entrare, ospite inatteso nella sua casa, era stato per lui una grande gioia di fratello ricordevole ed amoroso. E quando ne' primi momenti del loro avvicinamento egli ebbe appreso dalle labbra di Alvise la storia triste della giovinezza di lui, trascorsa così priva di ogni gioia, in mezzo alle conseguenze dolorose lasciate nella famiglia desolata dalla tragica morte di Gottardo Polverari, aveva egli sentito non solo accrescersi quella riconoscenza alta e profonda, che i suoi vecchi gli avevano inspirata come un dovere sacrosanto, ma s'era trovato avvinto istintivamente, potentemente, da un nuovo sentimento di simpatia, di pietà, di amicizia per quell'uomo sventurato che pareva venuto a ricordargli, in tutta la sua generosa magnanimità, l'eroico sacrificio, pel quale gli era stato conservato suo padre.

In questa lotta penosissima, in cui egli temeva di veder ad un tratto annientate le sue forze intellettuali, il suo isolamento gli sembrò mille volte più pauroso. E subito la mente gli corse, con desiderio ardentissimo, al solo vero amico ch'egli avesse mai avuto: eguale sempre, nelle avversità e nel tempo felice: l'ottimo don Letterio Prandina. Come in un altro incontro decisivo della sua vita, a lui solo avrebbe potuto chiedere un consiglio ed un conforto: a lui, che pratico nella dura scienza dei dolori umani, possedeva tanta rettitudine di giudizio e tanta dolcezza di sentimenti.

Ed invero, laggiù tra le pareti ospitali di quella casa, in cui tutto spirava come un alito benefico di pace e tutto facea pensare all'esercizio costante di virtù pietose ed austere, egli trovò ancora una volta l'amico desiderato, pronto, indulgente: l'inestimabile amico dei giorni dolorosi. A lui egli aperse il suo cuore, provando la voluttà refrigerante di poter dire alfine, senza freno di timori o di vergogna, tutto ciò che s'era forzato a tener chiuso, sino a quel momento, ne' più intimi penetrali dell'anima. Tra le braccia di quell'amico egli potè trovare, dopo tanto tempo, il sollievo di piangere liberamente, non trattenuto più dall'umiliante pensiero che quelle lagrime potessero essere giudicate come segno d'animo debole e vile.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
03 июля 2017
Объем:
280 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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