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Читать книгу: «I rossi e i neri, vol. 2», страница 2

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Parecchi si lagnavano che i fucili fossero grami. E certamente avrebbero potuto essere migliori. La più parte eran a martellina, colla pietra focaia; lo scatto in alcuni era troppo duro, e a far battere il cane sulla martellina occorreva il pollice di Alcide; in altri non c'era verso che volesse stare sulla tacca di riposo: tutti avanzi di botteghe di armaiolo, eredità di guardia civica, notevoli a vedersi per le fascette e i guardamani di ottone.

– Ma questi son cassoni, non fucili! – diceva uno.

– Che cassoni? – soggiungeva un altro. – I cassoni son buoni da ardere, e questi non farebbero fuoco neanco a scaldarli in un forno.

– Ci vuol pazienza, amici! – diceva Lorenzo, che incominciava a perderla. – Voi sapete che la rivoluzione non è ricca; i fucili buoni potrete guadagnarveli là, dove andremo; ce ne sono di eccellenti.

– Cattivo soldato, – aggiungeva il Martini, – cattivo soldato quegli che si lagna del suo fucile, quando ci ha una baionetta da poterci innestare! —

In questi ragionamenti e in queste operazioni, erano giunte le dieci. E segnale nessuno! Parecchi incominciavano a mormorare. Che si fa? che si aspetta? Lorenzo aspettò ancora una ventina di minuti; poi, chiamato a sè uno dei più impazienti, lo mandò, con un suo biglietto, a chieder notizie al quartier generale.

– Vado e torno! – aveva detto il messaggero. Ma un quarto d'ora passò; passò mezz'ora; suonarono finalmente le undici; e il messaggero, che s'era veduto andare, non fu visto tornare. Egli aveva fatto come il corvo dell'Arca.

Allora il comandante fece quello che aveva fatto Noè; aspettò un altro poco, e pregò il Martini che volesse andar lui. Questi almeno sarebbe tornato.

Frattanto i capisquadra duravano gran fatica a trattenere i loro uomini. Taluni più chiassosi (gente di malavoglia, diceva il Martini) se la pigliavano coi capi della rivolta, sbraitavano contro i vili che non erano venuti al ritrovo, e bestemmiavano, sacramentavano d'esser stati traditi.

– Le bestemmie non colmano il vuoto; – diceva Lorenzo. – Cinquanta uomini volenterosi e gagliardi ne valgono cento. Quanto a ritardo, sapremo tra poco che cos'è; del resto, se avete voglia di fare, io ne ho quanto voi, e nasca quel che sa nascere, appena tornato il Martini, usciremo noi, la romperemo da soli! —

Queste parole calmarono gli spiriti più irrequieti; che anzi, parecchi incominciarono a dire sommessamente che non c'era gusto a muoversi da soli, e, mentre tutti gli altri se ne stavano colle mani alla cintola, andare a morte certa pel loro bel muso. E questa fu in breve l'opinione di tutti. Ma non ardivano parlarne ad alta voce; il comandante, a cui forse non era sfuggito quel nuovo giro dei loro pensamenti, s'era fatto scuro nel volto come un'imposta chiusa; egli andava accarezzando con troppo amore il calcio della sua rivoltina, che portava nelle tasche della giacca, e bisognava star zitti. Ma allora fu un'altra scena; chi si doleva dell'aria soffocata di quel pianterreno, ermeticamente chiuso; chi si rimetteva a bere, per guadagnarsi la fortuna dei quattro o cinque, lasciati sulla paglia a dormire. I meno vergognosi, poi, imitavano gli scolaretti che non sanno durarla con un'ora di lezione, e chiedevano, per una ragione o per l'altra, di uscire.

Finalmente fu picchiato all'uscio; era il Martini che tornava da far l'ambasciata, e, come la colomba dell'Arca, portava un ramoscello d'olivo. Il colpo era fallito; non c'era più nulla a tentare.

La cosa parve strana a Lorenzo, che fu sollecito a chiamare in disparte il suo luogotenente, e a farsi raccontare ogni cosa per filo e per segno. Il Martini era andato senza risico, passando pei vicoli, e cansando le vie principali, fin dove gli aveva accennato il comandante. Colà egli non aveva potuto abboccarsi col capo, che stava a stretto colloquio con altri. Per contro, aveva parlato con taluni dello stato maggiore (e ne citava i nomi) dai quali aveva udito che non c'era più rimedio: che lo Sperone non s'era potuto prenderlo: che il presidio era tutto in armi, ed occupava militarmente le vie della città; che finalmente non c'era più nulla a fare, e ognuno pensasse a cavarsela.

A Lorenzo non bastavano quelle notizie. Non che dubitasse del Martini, o che avesse fede nella possibilità del tentativo; ma, con una sì grave malleveria sulle spalle, voleva sincerarsi del contr'ordine, co' suoi occhi, colle sue orecchie medesime. Però, ceduto il comando all'ottimo popolano, e ordinato che la gente non si movesse dal posto, salvo il caso di suprema necessità (del resto il luogo aveva due uscite, l'una per l'andito che i lettori conoscono, l'altra dalla porticina d'un orto attiguo) uscì da quella casa per andare a sua volta al quartiere generale.

Verissima in ogni parte la relazione del luogotenente; il colpo era fallito. E ciò saputo dalla bocca istessa dei capi, Lorenzo rifece con pronto passo la sua strada, per andare a sciogliere i suoi, che lo aspettavano. Passato speditamente per la via del Campo e la porta dei Vacca, entrò nella via lunga ed angusta di Prè, dove già tutte le botteghe erano chiuse da un'ora, ed egli non si abbattè in anima nata, salvo in qualche ubbriaco, che proseguiva in lunedì il tripudio vinoso della domenica.

Così giunse alle spalle del palazzo reale; andò oltre; ma quando fu presso al vicolo, nel quale aveva a commettersi, gli ferì improvvisamente l'orecchio un rumore di passi, e uno strepito d'armi.

Era di sicuro un drappello di soldati. Tornare indietro e giuocar di calcagna? No certo, sebbene fosse quello il più savio consiglio. E i compagni? non doveva egli andare a cercarli, e, se erano scoperti, partecipare alla loro sorte? La sua deliberazione fu pronta: impugnò, senza cavarla tuttavia di tasca, la sua rivoltina, e affrettò il passo per entrare nel vicolo.

Ma egli aveva a mala pena svoltato l'angolo, che si udì gridare sul volto:

– Alto là! —

E innanzi che avesse potuto misurare la gravità del pericolo, si vide attorniato da un manipolo di soldati.

– Dove va Ella? – chiese il sergente che comandava la squadra.

– Pe' fatti miei; – rispose asciutto Lorenzo.

– Ah diamine, Sal…! siete voi? – gridò, balzando fuori a quelle parole del giovine, un uffiziale che era rimasto alcuni passi indietro.

– Nelli di Rovereto! – sclamò Lorenzo, ravvisando il capitano.

– Sì, per l'appunto, Nelli di Rovereto, che naviga in questi paraggi per comando del suo generale, e non avrebbe a lodarsene punto, se il caso non lo facesse imbattere in un volto d'amico. —

Ciò detto, il capitano si volse al sergente, che si era tirato in disparte co' suoi, per concedere alcuni minuti di riposo, mentr'egli stava ragionando con quel suo conoscente.

– E adesso a noi; – proseguì, tirando Lorenzo sull'angolo della strada. – Dove andate così frettoloso, mio buon Salvani?

– Passeggiavo; lo vedete.

– E avevate paura (scusate, dico paura, così, per modo di dire) e avevate paura dei ladri?

– Perchè? – dimandò stupefatto il Salvani.

– Perchè, – soggiunse, abbassando ancora la voce, il Rovereto, – perchè vi siete armato della vostra rivoltina, che vi fa un gomito traditore nella falda della giacca.

– Credete che fosse proprio paura dei ladri? – chiese Lorenzo, sorridendo.

– Non vi dirò quel che io credo, come voi non mi direste quello che è. Smettiamo dunque un simile discorso; e andate, che io non voglio trattenervi.

– Grazie! – rispose Lorenzo, stringendogli fortemente la mano. E fece per andar oltre; ma il capitano lo trattenne ancora.

– Intendiamoci, Salvani; non per di qua. Tornate indietro, e sarà meglio per tutti.

– Non posso; o lasciatemi passare, o fatemi arrestare senz'altro. —

Il buon capitano, che amava molto Lorenzo, avendolo conosciuto prode e gentil cavaliere in quella occasione che i nostri lettori rammentano, stette alquanto sovra pensiero; quindi, mettendo amorevolmente le mani sulle braccia di lui, e guardandolo fisso in volto, gli chiese:

– Che cosa sperate oramai?

– Nulla! – disse il Salvani.

– Dunque?..

– Dunque lasciatemi andare per di là, dove ho alcuni amici da vedere; e sarà, ve lo giuro, senza pericolo per la causa alla quale servite.

– Lo credo; ma se fosse, come io penso, con pericolo vostro?..

– Che importa? Non badate a ciò, e lasciatemi andare.

– Dovunque vi piacerà, salvo al numero __otto__.

– Che? – esclamò il giovine, piantando a sua volta gli occhi in viso all'amico. – Voi sapete…

– Ogni cosa. So, verbigrazia, che laggiù non trovereste più alcuno, salvo una mezza compagnia di soldati che custodisce le porte, e una mano d'altri personaggi, meno riguardosi coi loro avversari politici, i quali vanno rovistando dappertutto, per trovare una carta… che non c'è.

– Ah! – disse Lorenzo. – E gli amici miei…

– State di buon animo! – interruppe il Nelli. – L'uffiziale di pubblica sicurezza aveva fatto male il suo piano di battaglia, e ha assalito il nemico senza chiudergli la ritirata. Io m'ero avveduto bensì dell'errore; ma non era affar mio. L'intento del soldato era di sgominare da questo lato i vostri disegni, e questo io l'ho fatto. Sono entrato per l'androne, mentre i vostri sgattaiolavano dalla parte del giardino; ho atterrato l'uscio, e sono anche stato il primo a metter il naso in una certa cameretta, su d'un certo tavolino…

– Proseguite!

– Dov'era un certo foglio di carta… una specie di ruolino di compagnia.

– L'avevano dimenticato! – disse Lorenzo con accento di dolore.

– Sì, ma gli è caduto in mia mano, e mi servirà per accendere Biancolina, una eccellente spuma di mare, che consola i miei ozi pomeridiani.

– Grazie! – soggiunse Lorenzo, respirando; – grazie, non per me, ma per gli altri!

– Che diamine! – disse di rimando il Nelli. – Siamo amici, o non siamo? Io fo il soldato e non lo sgherro; combatto, non lego. Se vi avessi incontrati in armi, avrei comandato il fuoco; il resto non mi risguarda, e se c'è un amico di mezzo, mi adopero a salvarlo. Ma badate, Salvani; voi siete accennato a palazzo Ducale come uno dei capi della rivolta; si citava appunto il tentativo della Darsena come una impresa che doveva esser guidata da voi. Perciò, come addetto al comando generale, ho scelto di venire da questa parte, e la fortuna, che ama i soldati, quando non fa buscar loro una palla in petto, mi ha usato cortesia da gentildonna. Or dunque, io vi consiglio a non tornare in casa vostra, questa notte. Avete amici a cui chiedere ospitalità? andate da essi; io non vi ho veduto, non vi conosco. —

E finita la sua orazione, il cortese capitano profferse la mano, in atto di commiato, al suo avversario.

– Voi avete un cuor d'oro, signor Rovereto! – disse il Salvani, stringendo quella mano tra le sue.

– Che! che! Se foste voi ne' miei panni non fareste lo stesso? Non imitereste l'esempio di que' due amici dell'antichità, che, incontratisi in campo, si strinsero le destre, in cambio di uccidersi, e barattarono le armature? Glauco e Diomede! Bei nomi! E i tempi in cui vivevano di tali valentuomini, ora si chiamano barbari!

– Siete tutti classici, quest'oggi! – notò, sorridendo, il Salvani. – Il Pietrasanta, stamane, pensava all'Eneide; voi questa sera mi citate l'Iliade. Il fatto è che gli uomini generosi e cortesi sono di tutte le età, e niente c'è di nuovo sotto il sole, nemmeno la tolleranza scambievole delle opinioni, che ha in voi un così nobil campione.

– Ah, Salvani, Salvani, se comandassimo noi?

– Che cosa fareste, se comandaste voi, Rovereto?

– Io?.. Vorrei anzitutto che non ci fosse più un palmo di terra italiana, dove rimanessero tirannelli a dividere, e forestieri a comandare.

– Mi accorgo che vorreste aver me per capo della maggioranza.

– E mio collega al ministero! Che bella cosa si annunzierebbe alla nazione! Un ministero Rovereto Salvani… Diamine! mi pare che rimangano molti portafogli senza titolare.

– O dove lasciate il Montalto, il Pietrasanta e l'Assereto?

– Avete ragione, perdinci! Saremmo cinque ministri, e i portafogli d'avanzo li terremmo noi stessi per interim. Sarebbe il ministero di San Nazaro, che varrebbe in fin dei conti come tanti e tant'altri. Ottima pensata! ho da sognarne, stanotte! Ma noi, – proseguì ridendo come un pazzo, il capitano, – stiamo qui a ciaramellare, come se avessimo tempo da buttar via. Statemi sano: io torno ai miei uomini.

– Addio, dunque, e ancora una volta, grazie!

– Zitto là; ne parleremo domani. Buona notte! —

E il Nelli, data una giratina sui tacchi, si allontanò speditamente, alla volta del suo drappello, che aveva avuto dieci o quindici minuti di riposo, in cambio di cinque.

Anche Lorenzo si mosse dal canto suo per andarsene. Ma dove? A casa non era prudente consiglio tornare; perciò gli parve acconcio di andare a chiedere ospitalità presso l'amico Assereto, dal quale avrebbe avuto novelle di casa sua.

Ma l'Assereto quella notte non aveva tenuto fede a' suoi lari, e Lorenzo fu accolto amorevolmente dalla famiglia di lui, che lo introdusse in una linda cameretta, daccanto a quella dell'assente.

Rimasto solo, il giovine si lasciò andare bocconi sulla sponda del letto, colle ginocchia a terra, ringraziando il Nume ignoto che lo serbava in vita e in libertà.

Egli non pensava a se stesso in quel momento, lo sapete; pensava a Maria.

III

Di una corte d'amore, la quale fu tenuta nel secolo decimonono.

Messer Lodovico Ariosto, chiamato a buon dritto il divino, non se la cavò neppur egli dai tortuosi meandri del suo meraviglioso poema, se non coll'umile spediente di correre innanzi e indietro senza posa, e, servitore sgobbone di tutti i suoi personaggi (che non erano pochi, nè docili), pigliar questo per mano e guidarlo per un lungo tratto di strada; tornar sollecito indietro e cavarne un altro dal pozzo; voltarsi qua e là, scendere e salire per pianure e montagne, navigar per mare oltre le colonne d'Ercole, volare financo alla luna, ed intricare e districare mai sempre le fila che gli avevan posto tra mani «le donne, i cavalier, l'arme e gli amori».

Lettori, avete capito il latino? Vi abbiamo condotti senza intoppo, o quasi, fino alla prima ora del 30 di giugno, e adesso ci conviene, per le necessità della nostra narrazione, rifarci indietro una mezza giornata. Tante fila s'intrecciano, s'imbrogliano e s'aggrovigliano intorno ai nostri personaggi! Abbiamo veduto come finisse la sua impresa Lorenzo Salvani; ora dobbiamo vedere come finisse la sua Enrico Pietrasanta, tirato a buon trotto dalla sua pariglia di rovani alla villa Vivaldi, nelle vicinanze di Quinto.

Nè basta. Siccome da lungo tempo non s'è più visto in scena Aloise, nè la bella Ginevra dagli occhi verdi, precederemo il Pietrasanta colla nostra fantasia, specie d'ippogrifo che va più veloce a gran pezza de' suoi baldi cornipedi.

Siamo dunque a Quinto, alle spalle del paese, in quel palazzo che sapete, murato a foggia di castello, con la sua torre che usciva da un lato dell'edifizio, rompendo ad angolo due acque del tetto; in quella magnifica villa, dove vi abbiamo condotti, nella prima parte di queste fedelissime cronache contemporanee, il giorno della prima scampagnata del convalescente Aloise.

Ogni cosa colà, il giardino, il prato, la selva, la campagna tutta quanta, ha mutato d'aspetto, per opera d'una rigogliosa vegetazione. Giacomino, il giardiniere ortodosso che sapete, ha fatto miracoli coll'aiuto della madre natura. Le aiuole, le ampie gradinate dei vasi d'ogni forma e misura, i canestri foggiati in terra sulle falde del prato, risplendono di mille fiori svariati, vaporano mille diversi aromi per l'aria serena. Le camelie, le violette e i giacinti, hanno ceduto il luogo allo stuolo moltiforme della flora d'estate. Le molli ninfee sono fiorite nel laghetto dove scherzano i cigni; le paulonie dall'alto fusto e dal largo fogliame verde cupo, si rischiarano in color di smeraldo alla luce del sole; nè più chiedendo il riparo della veste di paglia, le magnolie mettono al sommo d'ogni ramo le candide bocce pannocchiute dalle sottili fragranze. Ne' vasi, in bell'ordine disposti, fioriscono cento famiglie di pelargonii, di rose e di garofani, i mugherini indiani e le gardenie del Malabar, che derivano a noi i narcotici effluvii della terra natale. Nelle aiuole crescono gli elitropii dai lunghi e fogliosi steli, gli eliotropii delle cui ciocche odorose le donne gentili amano ornarsi lo sparato del camicino; gli umili mughetti mettono fuori i verdi litui fregiati di brevi campanellini bianchi; gli amorini d'Egitto si tengono modestamente a terra, dissimulando nel verde delle foglioline la poca apparenza dei fiori, ma non la soavità degli odori, gradito compimento, insieme coi dittami, e quasi cornice dei mazzi eleganti; le tuberose scarse di foglie, ma ricche di fiori, torreggiano qua e là; i gelsomini e le gaggìe salgono a spalliera, s'inerpicano lungo le amiche pareti.

Pari alle gaggìe nei loro serpeggiamenti, s'innalzano le asclepie, mostrando su tenui fili quasi innestate le larghe foglie coriacee e i carnosi fiori stellati. Più sfoggiatamente vestiti si levano in alto gli abùtili, e lasciano con leggiadra civetteria ricader mollemente tra i pampinosi tralci le graziose campanelle socchiuse, dai petali giallognoli e bizzarramente venati di scuro. Guardate il prato, com'è tutto d'un bel verde tenero! Qua e là il dolce declivio è interrotto da larghi ed alti ciuffi di foglie ricadenti a ombrello, lunghe, sottili, affilate e pieghevoli come lame di Toledo. È il ginerio argenteo, che protende in aria, su svelte asticciole, e lascia cullar mollemente da ogni soffio i suoi candidi pennacchi, che appaiono (qua la mano, secentisti!) altrettanti colonnelli dell'esercito di Flora. Più in là l'ibisco siriaco e l'africano, cresciuti ad arbusto, schiudono a centinaia i larghi calici bianchi e vermigli, dagli orli vagamente intagliati e dal fondo screziato. Sui margini della prateria, sbucano le iridi dal fitto delle loro foglie gladiate, a far pompa di grossi fiori turchinicci e odorosi. I cacti, orrida famiglia, mostrano, coi fiorellini nati dai dorsi villosi, che anco nel cuor più duro spuntano qualche volta i soavi pensieri. Le agavi americane, colle vaste foglie aguzze e dentate, sfidano il cielo a battaglia. E più lontano ancora, l'orizzonte è celato agli occhi da una fitta selva di salici, di conifere e di piante d'ogni maniera, che descrivono il fondo a quella scena incantevole.

Tutto è allegrezza, tutto è festa, nella ringiovanita natura. Come tutto vive, come tutto si spande, luce, colori, fragranze, armonie! Vedete i campi, aiuole naturali, canestri foggiati capricciosamente nel suolo dal giardiniere invisibile, dove nascono, vivono ed amano migliaia di tenere pianticelle, dalla graziosa pratellina alla severa piantaggine, dalla euforbia ingrata alla cedragnola pietosa, confuse tutte tra ogni maniera di erbe matte, vicino all'utile cicerbita, all'aromatica pimpinella, al timo e al mentastro odoroso, che formano anch'essi il loro giardino! Vedete più oltre l'erica gentile, inconsapevole dell'uso ingrato a cui la condannerà l'industria umana, quando sarà sfiorata e sfrondata; il corbezzolo ed il ginepro, tutti e due ricchi di frutti, a ristoro dei pennuti avventori, e il pino domestico e il selvatico, e gli elci superbi delle non caduche foglie, e il rovere e il sughero, lieti dei nuovi germogli, che tutti descrivono anch'essi il loro fondo a quel complesso di naturali bellezze!

Il sughero! Lo ricordate, o lettori, quell'albero di sughero, che Giacomino, il giardiniere, faceva notare ad Enrico Pietrasanta, il quale, profano quel giorno alle delicature poetiche, lo sentenziò buonissimo per far turaccioli? Ricordate che a' piè di quell'albero era una tavola di lavagna, con parecchi sedili rustici tutt'intorno? Ricordate che quella era, a detta del giardiniere, la Corte di Amore, così chiamata da gran tempo, e dove tutte le Vivaldi, madre, nonna e bisnonna di Ginevra, avevano sempre avuto per costume di recarsi a passare le ore più calde della giornata? Se ciò v'è rimasto in mente, ricorderete ancora che la bella Ginevra dagli occhi verdi usava starci tre o quattr'ore ogni giorno; che faceva metter cuscini sopra i sedili, un gran tappeto sulla tavola, e una bella tenda tirata fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole; che Giacomino ci portava fiori; la cameriera dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi, e gli amici convitati un subbisso di chiacchiere.

È il tocco dopo il meriggio; la vampa del sole che signoreggia liberamente il prato vicino, non penetra sotto il conserto fogliame degli alberi secolari; e l'ampio velario divisato a liste bianche ed azzurre, sospeso tra i rami sporgenti, vieta ai raggi indiscreti, che hanno potuto trapelare da qualche vano della frasca, di recar molestia alla gentil comitiva. Stridono con monotono metro le cicale su pei tronchi degli alberi soleggiati; le farfalle, screziate di mille colori e cosperse di polverina d'oro, vanno aliando qua e là, lungo le aiuole fiorite; le libellule, dalle svelte forme e dalle ali di zaffiro, si librano a volo sulla superficie del laghetto, che, solcata per ogni verso dalle candide prore dei cigni nuotanti, scintilla in riflessi d'argento.

Vedete ora, seduti al rezzo delle piante che v'abbiam detto, quali su rustici sgabelli di legno, quali su sedili di maiolica, foggiati a pila di cuscini vagamente istoriati, sei o sette gentiluomini. Fanno corona a tre dame, o, per dire più veramente, ad una sola. Le Grazie erano tre, tutte pari in bellezza, per modo che il riguardante rimanesse in forse a cui dare il vanto sulle altre due. Anche queste tre sono belle: ma una più dell'altre a gran pezza; di guisa che voi medesimi, o lettori, chiamati a giudicare, dareste il vostro voto alla marchesa Ginevra.

Padrona di casa, ella non può condurre la cortesia ospitale fino al segno di essere e di apparire inferiore in bellezza, o pari almeno, alle sue nobili visitatrici. La Giulia Monterosso, di cui già vi abbiamo dipinte le labbra tumide e coralline, le guance vivide come le pesche duràcine e gli guardi accesi che avrebbero rimescolato il sangue nelle vene al più tranquillo anacoreta della Tebaide, ha la sua villeggiatura poco lontano da quella di Ginevra, ed è spesso, quasi ogni giorno, presso di lei. Maddalena Torralba, la soave Maddalena, dai grand'occhi azzurrognoli, dalla carnagione di latte, tutta dolci pensieri e dolci parole, è da otto giorni, insieme col marito, ospite del tiranno e della tiranna di Quinto. Aveva stabilito di rimanere soltanto una settimana; ed ecco, è già incominciata l'altra, e Maddalena rimane, cedendo alla dolce violenza della Ginevra. Ma sabato se ne andrà, ella dice; i bagni di Voltaggio l'aspettano. Noi scommettiamo che non sarà neanche sabato, e i bagni, o, per dir meglio, i ballerini di Voltaggio l'aspetteranno ancora un bel pezzo. Maddalena è, come sapete, la più tenera amica di Ginevra, e, dove se ne tolga la Roche Huart, che vive a Parigi, e con cui la Vivaldi tiene assiduo carteggio, è anche la più amata. Ambedue sono state educate in Francia, nel medesimo convento; i loro caratteri, per ragion di contrasto, si combaciano e si fondono assai bene. Oltreciò, la Torralba fu la prima ad accorgersi dell'amor di Aloise per Ginevra, e questa, sebbene si schermisca, nè voglia lasciarsi cader parola a lui più benigna, ascolta tranquillamente le lodi del giovine dalle labbra della compassionevole amica. È riamato il poverino? Maddalena non giunge ad intenderlo, perchè Ginevra sorride sempre e mostra di non darsene gran pensiero, oltre i confini di quella eletta cortesia, di quella signorile dimestichezza, della quale è prodiga a lui, come ad altri parecchi; per esempio al vecchio De' Salvi, che se ne gonfia tutto quanto, e al giovine Cigàla, che non ci si fida per nulla.

Il nostro Aloise era quasi ogni giorno a Quinto, e andava facendo pazzie sopra pazzie, mandandole l'una di costa all'altra, come le avemmarie nella coroncina, e facendone tratto tratto alcuna più grossa, che tenesse luogo di paternostro. Il marchese Antoniotto lo vedeva di buon occhio, come il solo dei suoi giovani visitatori che si adattasse di buon grado alle sue tiranniche voglie di controversia politica. Sicuro; Aloise ragionava di politica, lasciandosi mettere colle spalle al muro al finire d'ogni disputa; inoltre giuocava a scacchi, e pigliava sempre scacco matto. Senonchè, di queste periodiche sconfitte, egli si ricattava in materia di coltivazione, della quale parlava come un __doctus in re__.

Aloise agronomo? Sissignori; agronomo col marchese Antoniotto, in quella guisa che era botanico colla marchesa Ginevra. E poi ci si venga a parlare delle vocazioni! Se lo aveste sentito, a disputare gravemente col suo ospite di terreni silicei, di magri e di grassi, dove meglio provasse la vite o l'ulivo; di nuove e più acconce maniere di sfruttare la terra; del tempo più adatto al taglio delle piante, e via dicendo, lo avreste tolto per un nobile campagnuolo, per un membro effettivo del Comizio agrario, o che so io.

Quando le conversazioni agricole andavano un po' per le lunghe (e questo avveniva ogniqualvolta ci fosse stato qualche dissidio nelle conversazioni botaniche) la marchesa Ginevra si faceva a liberare il giovinotto dalle ugne del marito e dai lacci della sua medesima eloquenza, chiamandolo ad altri e più geniali discorsi. Era pietà? era capriccio? Lo stesso Aloise non avrebbe saputo dirlo; ora gli pareva una cosa, ora l'altra. Intanto egli non s'era anche arrisicato a dirle: __vi amo__; nè ella mai gliene aveva pòrto occasione. E si struggeva, pensando che quella occasione non sarebbe venuta mai; giunto il mattino colla speranza, se ne andava ogni sera colla morte nel cuore, e ammazzava, siam per dire, i cavalli, per la furia di giungere a Genova, come li ammazzava il mattino pel gran desiderio di giungere a Quinto.

Il povero Aloise era per l'appunto in uno de' suoi più brutti quarti d'ora. Qualche nuvola era apparsa a contristare la serenità del suo mattino. La Ginevra, contegnosa oltremodo con lui, dacchè erano andati a sedersi sotto gli alberi, lo aveva a mala pena guardato; gli occhi della dea non si alzavano dal suo telaio da ricamo, se non per volgersi a questo o a quello de' suoi più ciarlieri vicini, accompagnando con graziose occhiate le sue graziose risposte. Luce di sguardi, musica di parole, armonia di sorrisi che non andava a lui, che a lui non era dato di libare, o gli si tramutava in veleno! Ma non aveva egli forse meritato quella severità di Ginevra? Non era egli rimasto un'ora senza parole, rispondendo a monosillabi, quando la pietosa Maddalena aveva tentato con qualche cortesia di tirarlo nella conversazione, quando il faceto Cigàla lo aveva stimolato con qualche arguta dimanda?

Così, scontento di lei e più ancora di sè medesimo, Aloise aveva lasciato il campo, per andarsene a passeggiare lungo la gradinata del palazzo, insieme col marchese Antoniotto, col De' Salvi e col Monterosso, il marito della Giulia, i quali disputavano di fabbricerie. Il Monterosso, uno dei fabbricieri della chiesa di Santa Geltrude, aveva lasciato correre, per alcuni e rilevanti restauri del vecchio organo, una spesa molto maggiore di quella che s'era tra colleghi convenuto di fare. Chi aveva a snocciolarli? I fabbricieri colleghi dicevano il Monterosso; egli per contro non voleva saperne, dappoichè (così argomentava) i restauri s'erano creduti necessarii, e se, nella progressione del lavoro, egli, incaricato di quella bisogna, aveva dovuto andar oltre nello spendere, non aveva fatto cosa che in sostanza non fosse stata decretata nel consiglio di tutti. E qui, controversia accademica tra il Monterosso e il De' Salvi, che voleva saper di ogni cosa; qui sentenze, disgressioni giuridiche del marchese Antoniotto, con qualche dimanda __pro forma__ ad Aloise, il quale doveva rispondere: «__et cum spiritu tuo__».

Come dovesse godersela in questi discorsi, lasciamo che pensiate voi, o lettrici. Egli non si era certo addottorato in leggi per venire a parar quella raffica di giurisprudenza dei suoi attempati colleghi in patriziato, ed esser quarto fra cotanto senno. E si noti che non la volevano smettere così presto; passeggiavano infervorandosi sempre più, e fermandosi ad ogni tratto per udir le sentenze del marchese Antoniotto, il quale amava ascoltar gli altri passeggiando, ma voleva parlare stando fermo e facendo star ferma l'udienza. Il Torre Vivaldi era senatore anche in villa.

Di certo, Aloise avrebbe potuto dire la sua, anco in materia di fabbricerie; ma gli tornava più comodo dar ragione suo ospite. Nè lo faceva per piaggeria; sibbene perchè non era sempre coll'animo presente alla disputa, e l'accennar del capo, e le rotte frasi di approvazione, gli davano licenza di pensare a tutt'altro. Epperò, ad ogni tratto, quando i quattro peripatetici avevano a dar volta per rifare la strada, uno di essi, Aloise, perdendo di vista l'organo e i fabbricieri, dava un'occhiata là dalla parte del prato, sospingeva lo sguardo fin sotto agli alberi, dove, più felici di lui, il Cigàla, il piccolo Riario, e il De' Carli soprannominato Tartaglia, stavano conversando colla bella Ginevra.

Vestita con quella cara semplicità che è lo sfoggio più conveniente della bellezza, Ginevra era seduta al suo solito posto, sotto l'albero prediletto, daccanto alla tavola di lavagna. Indossava una veste di quella seta tenue, leggiera, che i francesi chiamano __foulard__, bianchiccia di fondo e tutta disegnata a ciocche di minuti fiorellini. La vita era tagliata a mezzo scollo; ma, a dissimulare il sommo delle spalle ignude, e più ancora ad accrescere grazia a quella stupenda figura, le si girava intorno all'imbusto, secondo l'antica foggia di Maria Antonietta, un candido fisciù di velo trapunto, i cui capi (felicissimi capi, avrebbe detto il lezioso De' Carli) scendevano ad abbracciarle il giro di una vita, non troppo piena nè troppo snella, come vediamo essere stata condotta dal greco scalpello la vita di Venere. Teneva davanti a sè il suo telaio da ricamo, tra le stecche del quale era teso il canavaccio che ella con lana di svariati colori andava ricamando a punto in croce dei più graziosi rabeschi.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
25 июня 2017
Объем:
500 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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