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XXXVII
Tardi, ma in tempo…
Ambedue fecero bella mostra di loro prodezze; chè il Montalto, come è noto, era una lama gagliarda, e il Cigàla, come aveva detto con acconcia frase egli stesso, non era una sbercia. Ma più andavano innanzi, e più era facile il vedere che Aloise superava di gran lunga il suo avversario. Non schermiva, egli, scherzava col ferro; or senza muovere passo e quasi senza sforzo di mano, scompigliava un assalto; or minacciava a sua volta, incalzava, facendo luccicare la punta della spada sugli occhi del nemico, o rigirandola in rapidissimi cerchi sul petto di lui, nè mai sferrava la botta. Il Cigàla, così paziente come era animoso, assaliva senza fiacchezza, ma altresì senza stizza, e parando come meglio poteva, lasciando al fato la cura del resto. Ma il giuoco durava, e un dubbio gli balenò nella mente, e tremò d'essersi apposto. I suoi padrini, intanto, ammiravano il suo coraggio, ma tremavano forte per lui.
Essi ad un tratto respirarono, e il Giuliani e il Pietrasanta del pari. Stanco di quelle schermaglie, Aloise aveva voluto compir l'opera con un colpo maestro. In un batter d'occhio il Cigàla era stato disarmato; la spada, trattagli a forza dal pugno, balzava tre passi discosto sul terreno.
– Ah, lode al cielo! – esclamò il Morandi. – Per un meschino battibecco di politica, io spero che basti.
– Se già non ce n'è d'avanzo! – aggiunse, in atto d'assentimento, il Giuliani.
E tutt'e due si movevano, per frapporsi e farla finita. Ma ciò che videro allora, li fece rimaner sospesi.
Aloise guardava il suo avversario, additandogli con piglio imperioso la spada, che giaceva sul terreno. Il Cigàla era rimasto perplesso, e con occhio mesto interrogava l'animo di Aloise. Questi allora, come ravvedendosi, fece un passo innanzi, porse la sua spada al Cigàla, che l'accettò silenzioso, e raccolta quell'altra, si rimise in guardia, temperando l'atto con una parola cortese.
– Da leali cavalieri! Io fo voto che la mia vi porti fortuna.
– Ma non basta, signori? – si provò a dire il Morandi.
– Pare di no: – disse il Cigàla, con accento malinconico. – Non ci badate, amici; abbiamo concertato noi ogni cosa. —
E si rimise in guardia a sua volta. Aloise, lo ringraziò con un cenno del capo, e il duello ricominciò.
– Soltanto, non mi risparmiate, come avete fatto finora; – soggiunse il Cigàla; – ch'io farò il mio potere.
– __Allah kerim!__ – rispose il Montalto, coll'accento e col piglio dell'arabo fatalista.
Ma tosto, per tema d'esser capito, ingaggiò un assalto vigoroso. Le lame si cercavano, si seguivano in giri traditori, si allacciavano, si sbrigavano con celerità meravigliosa. Il Cigàla faceva tutto il poter suo, ma sempre rompendo la misura, che non bastava a tanto incalzar di proposte. E tuttavia, egli ben lo vedeva, la lama di Aloise non giungeva mai al suo petto. Affascinato dal suo sguardo, indietreggiava parando, e minacciando vanamente; i suoi occhi già più non badavano alla lama; solo il pugno, istintivamente, seguiva il ferro avversario. E v'ebbe un istante che egli, così stretto da vicino, e non toccato mai, diede un'occhiata mestissima al suo avversario, e le sue labbra mormorarono, tra lo sgrigiolar delle spade, il nome di Aloise. Ma il suo avversario, proprio in quel mezzo, aveva conseguito l'intento; sollevata la punta della sua lama per modo che non offendesse il Cigàla, s'era spinto sotto la misura, precipitato contro il ferro nemico; indi balenava un tratto colla spada in alto, e stramazzava al suolo.
L'orribile scena era durata due minuti, non più. All'improvvisa catastrofe, accorsero i padrini per rialzare il ferito. Il Cigàla era rimasto attonito, esterrefatto; guardava il caduto con aria smarrita, e guardava la punta della sua spada, senza intendere per qual modo fosse tinta di sangue.
– Un suicidio! – esclamò sommesso il Mattei, mentre, inginocchiato al fianco di Aloise si disponeva a visitar la ferita.
– No; – rispose sollecitamente il giovine; – avevo troppo spinta l'azione, e mi sono infilzato. Cigàla, – aggiunse poscia stendendo la mano a quell'altro, che s'accostò a lui più morto che vivo, – senza rancore!
– Oh, Aloise! – gridò quegli, dando in uno scoppio di pianto, – dimmi che non sono stato io!
Aloise gli strinse la mano.
– Io te lo giuro, – proseguì l'altro, prostrato daccanto a lui, – te lo giuro per l'anima di mia madre, tu ti sei ingannato! Sentimi, Aloise, tu risanerai; il cielo ci concederà questa grazia. Vedrai allora il tuo povero amico, se meritasse un sospetto. Oh, io attendo ora, invoco una guerra sollecita, e una palla d'Austriaco, che mi tolga il rimorso. —
Fu un vaticinio; cinque mesi dopo, il Cigàla, valoroso cavaliere, dava la vita nell'ultima carica di Montebello.
– Chiedo un po' di silenzio! – disse il Mattei, che stava continuando la sua esplorazione chirurgica.
Ed aggiunse anco un'occhiata eloquente al Morandi e al Riario. Questi si avvicinarono al Cigàla, e lo trassero, sebbene riluttante, fuori del campo.
Rimasto solo coi medici e co' suoi padrini, Aloise rivolse la parola al Mattei.
– Orbene; – diss'egli a mezza voce, – e quel filosofo greco?
– Che dite voi? – chiese il medico.
– Sì, – continuò il ferito, – l'enfisema!
Il Mattei stette mutolo, ma non gli venne fatto reprimere un sospiro. L'uomo dell'arte aveva riconosciuto come la ferita fosse profonda pur troppo, e come il ferro del Cigàla avesse dovuto penetrare obliquamente fino al pericardio e all'orecchietta destra del cuore. Questo gli dicevano le sue esplorazioni, questo gli era confermato dal pallore estremo del volto, dal respiro che cominciava a farsi affannoso.
– Tanto meglio! – disse allora Aloise. – Debbo dir due parole al Pietrasanta, al Giuliani. Amici miei, vi ho fatto un tristo regalo. Perdonate! A che gioverebbe l'amicizia, se non potessimo fare assegnamento sovr'essa pel nostro bisogno? Ora io vi prego di un'ultima grazia… Portatemi stasera alla Montalda…
– Sarà impossibile… per molti giorni ancora… – balbettò il Giuliani.
– Vedrete che si potrà… senza pericolo! – rispose con un mesto sorriso il ferito. – Vorrei essere sepolto accanto a mia madre, e accanto a lui… che non sarà tardo a seguirmi. Anch'egli è ferito nel cuore. Ditegli che mi perdoni… di non averlo aspettato… e che il mio ultimo pensiero è stato per lui… —
Il Giuliani e il Pietrasanta si stempravano in lagrime. Il Mattei, col suo triste silenzio, diceva assai chiaramente che non c'era speranza.
Il ferito aveva chiuse le palpebre. Il suo volto s'era fatto smorto; solo il respiro affannoso lo diceva ancor vivo, e mal vivo.
– Ho freddo! – mormorò egli poco stante. – Vorrei essere al sole. —
Il Pietrasanta e il Giuliani volsero gli occhi al Mattei. Questi assentì con un cenno del capo, ed anzi fu pronto, insieme coll'altro medico ad aiutarli, per trasportare il morente oltre l'angolo del palazzo. Tanto e tanto, di là si dova passare per condurlo dentro.
Il sole era presso al tramonto. I suoi raggi rossastri apparivano ancora dal ciglio dei colli, che nascondevano bensì l'orizzonte, ma non il vasto padiglione di porpora sotto il quale veniva morendo la luce dell'astro.
– Bel sole! bel sole! – disse Aloise, riaprendo le palpebre, e volgendo una languida occhiata a quello splendore di cielo. – Come è bello il tuo morire… ed il mio! Grazie, Mattei! Giuliani, grazie! Sarei morto volentieri in guerra, per la mia patria. Non ho potuto aspettare! E tu, Enrico… —
Il Pietrasanta chinò il viso su quello del giacente, quasi per coglierne le ultime voci.
– Non amare, Enrico… non amare!.. Ci si lascia… – Un grido del Pietrasanta gli tolse di finire la frase.
– Che cosa? – domandò il morente. – Che cosa hai veduto?.. Lui?
– E lei; – rispose il Pietrasanta, sollevandolo amorevolmente tra le sue braccia. – Coraggio, Aloise, coraggio! —
Ma prima ch'egli avesse finita la sua esortazione, una donna smarrita all'aspetto, come fuori di sè, veniva tutta lagrimosa a buttarsi ginocchioni a' piedi del ferito.
– Ah! – mormorò Aloise, riconoscendola, e stendendo le braccia verso di lei.
Il duca di Feira, che l'aveva accompagnata fin là, rimaneva alcuni passi discosto, pallido, ansante, anch'egli più morto che vivo.
– Come qui? – gli chiedeva il Mattei. – Fosse almeno arrivato dieci minuti prima.
– Ahimè! – rispose il vecchio gentiluomo. – Fu già molto per noi aver saputo il luogo e l'ora dello scontro. Il cocchiere, sventuratamente, non conosceva bene la strada. Così abbiamo perduto mezz'ora. E anch'io speravo tanto che la signora potesse giungere in tempo! Ella aveva così bene disposto ogni cosa! —
Era ella, infatti, la marchesa Ginevra, che il giorno innanzi, dopo il malaugurato incontro col signor di Montalto, aveva capito da un improvviso rannuvolarsi del suo cavaliere, per solito di umor così gaio, che qualche cosa dovesse succedere. Non gli aveva chiesto nulla; ma quella sera stessa, chiamando a sè con qualche pretesto gli amici comuni dei due gentiluomini, era venuta a capo di stabilire un buon servizio di esplorazione. Quella mattina stessa aveva saputo che la sfida era corsa, e dove fosse e per qual ora il ritrovo. Lo stesso Riario si era lasciato cavare il segreto di bocca. E allora, senza por tempo in mezzo, aveva mandato a chiamare il duca di Feira, chiedendogli di accompagnarla al luogo dello scontro. Non sentiva ragioni; non vedeva difficoltà, non curava pericoli, non temeva di ciò che potesse parerne in casa sua, e molto meno di ciò che potesse dirne la gente. Non voleva quel duello, il cui esito poteva esser fatale a qualcheduno. Ma infine, il signor di Montalto era un fortissimo schermidore, ed anche un cavaliere generoso; tratto sul terreno il suo avversario, si sarebbe mostrato anche umano, risparmiando il Cigàla. Era questo il pensiero del duca. Ma il duca non l'aveva capita. Che importava a lei del Cigàla? Appunto perchè il signor di Montalto era un cavaliere generoso, ella temeva per lui. E non voleva essere abbandonata in quel tristissimo frangente dal duca; alle due del pomeriggio l'aspettasse sulla piazza dell'Annunziata; avrebbero presa una vettura di piazza, e via, poichè sapevano dove fosse il ritrovo, ed erano sicuri di giungere in tempo. E il duca aveva acconsentito. Come fare altrimenti, del resto? Anch'egli incominciava ad impensierirsi, per gli stessi timori di lei. Ed erano corsi sull'orma dei combattenti; ma giungevano tardi; colpa del cocchiere, che non conosceva bene dove fosse la villa Riario; più che colpa del cocchiere, ironia del destino!
Intanto la bella Ginevra era già tutta prostrata al fianco del morente. Si erano ritirati gli amici, intendendo la gravità del momento: solo era rimasto, perchè avvicinatosi allora, il Mattei. Lo vide Aloise, e stendendogli la mano con atto supplichevole gli disse:
– Ah, dottore, ancora pochi istanti di vita!
– Sì, sì e speriamo di uscirne ancora; – rispose il Mattei; – ma siate calmo, Aloise. – Un lieve sorriso increspò le labbra del giovine.
– Son calmo, sì, calmo… e contento; – diss'egli. – O Dio, che momento è questo? Siete dunque voi, madonna Ginevra? – soggiunse, volgendosi alla bellissima creatura, che stava sempre prostrata, inclinando il volto su lui.
– Io, sì, – rispose ella, avvicinandosi ancora; – io, che vi ho sempre amato, Aloise. —
Sussultò alle inattese parole il morente, e aperse gli occhi, quanto più gli venne fatto, contemplandola estatico.
– Non Aloise; – mormorò egli poscia. – Goffredo… Goffredo Rudel! La contessa di Tripoli, pietosa, è venuta a consolare gli ultimi momenti del suo servo fedele.
– Fedele, sì, ma senza fede in lei! – diss'ella, con accento di dolce rimprovero. – Che idea, questo duello!
– Dica questo suicidio! – esclamò il Mattei, traendosi indietro, con le palme alla fronte.
– Ah, il cuore me lo diceva, pur troppo! – gridò la marchesa, impallidendo. – Come tutto ha concorso ad ingannarlo! Ed anche io, conoscendoti male, mi ero tanto ingannata! Aloise, dimmi che mi hai perdonato!
– Vi adoro; – rispose il giovine, con un filo di voce, in cui si raccoglieva tutta l'anima sua.
E le sue labbra, già fatte smorte, si muovevano implorando. E sovr'esse intendendo la muta eloquenza dell'atto vennero ardenti a posarsi le labbra di lei.
– Sono felice; – diss'egli. – Come è più dolce, ora, il morire! Sia ringraziato il Signore della misericordia, ed accolga l'anima mia! —
Il doloroso momento si avvicinava. Una spuma rossastra apparve sulle labbra del giacente; al sommo del petto un tremito violento e continuo indicava gli sbalzi del cuore, così rapidi e pazzi, sul punto di ridursi all'inerzia finale. Ancora una volta il morente tentò di aprir gli occhi; ma non gli venne fatto che a mezzo, e le sue mani si irrigidirono in una stretta suprema su quelle di Ginevra. Era l'addio della partenza. L'ultimo raggio del sole si nascondeva dietro il colle di Coronata, e l'anima di Aloise di Montalto fuggiva da quelle labbra smorte che il bacio di madonna Ginevra aveva poc'anzi allegrate, premiando l'amor più profondo e più forte che mai sentisse il cuore di un uomo.
La povera Ginevra fu tratta a forza di là dal Mattei, e ricondotta in città dal duca di Feira, che seppe dominare il suo profondo dolore per confortare l'altrui. Il vecchio gentiluomo era avvezzo oramai a soffrire. Andò dunque al suo ufficio di pietà e di cavalleria: lo aspettassero i dolenti amici alla villa Riario, dove sarebbe ritornato sollecitamente all'obbligo suo.
Di ciò ch'era venuto, dopo lo scontro fatale, fu giurato da tutti i presenti il segreto: anche per qualche tempo fu mantenuto, e quel tanto che ne sfuggì poi alla discretezza di alcuni, fu piuttosto vagamente accennato che detto. Ma qualcheduno, e in quella medesima sera, dovette pur chiedere perchè la marchesa non fosse in casa per l'ora del pranzo, e perchè, tardi arrivata, si chiudesse nelle sue camere, non volendo veder nessuno, negando di dar ragguagli, sdegnando di scendere a giustificazioni.
Il marchese Antoniotto aveva un suo modo particolare di manifestare la sua scontentezza; ma quel modo non si poteva usare con la marchesa Ginevra, come con la gente di servizio, o con altra classe dei suoi dipendenti. Perciò il tiranno di Quinto si chiuse in un mutismo, che non era senza una cert'aria di dignità, e diciamo pure di grandezza. Ma il giorno seguente, essendosi sparsa la voce del duello e della morte del signor di Montalto, il marchese Antoniotto non ebbe bisogno di sapere più altro; e stette più duro che mai.
La spiegazione domestica, per altro, non poteva farsi troppo aspettare; e venne infatti, dopo una diecina di giorni. Più lente a venire furono le conseguenze di quella spiegazione. Anche più lente le avrebbe volute il marchese Antoniotto; per togliere ogni appiglio a sospetti, a ciarle di scioperati, consigliava di non chiuder l'uscio ai piccoli ricevimenti, e di far buona cera alle visite. Ma sarebbero state ipocrisie; la marchesa Ginevra non ne volle sapere. Così venne la necessità di una risoluzione ardita: lei, per ragioni di salute, all'aria delle Langhe, nel suo castello di Valcalda; egli, per ragioni di studio, nella villa di Quinto.
Ciò che avvenne di lui s'è già visto; di lei si può aggiungere che dal suo castello, diventato convento, non uscì più fin che visse, tranne due volte l'anno, per giungere alla stazione di Pontedecimo, e salire di là fino alla Montalda. Per il primo anno ebbe il duca di Feira, ospite cavalleresco, e compagno premuroso nella visita alle tombe dei Montalto: lui morto indi a poco, ebbe ospiti cortesi i Salvani, che l'accompagnavano fino all'ingresso della chiesina di famiglia, lasciandola sola lunghe ore davanti alla tomba di Aloise.
E così fu per quindici anni ancora. Poi, ella non apparve più. La bella Ginevra dagli occhi verdi, la più ammirata tra le belle di cui Genova andò sempre meritamente superba, era morta. Felice anche lei! Tardi, ma in tempo per elevarne lo spirito, si era animato il suo cuore.