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Читать книгу: «La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814», страница 5

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N. VII

REGNO D'ITALIA
Milano 8 maggio 1814.
LA REGGENZA DEL GOVERNO PROVVISORIO
Al Sig. Conte Guicciardi

La Reggenza ha letto la di lei memoria 29 aprile prossimo passato ed i relativi documenti.

Ella dovette sempre confermarsi nell'opinione che il di lei operato non aveva bisogno di giustificazione.

Nell'attestarle pertanto i sentimenti della particolare sua stima, dessa non fa che riconoscere nuovamente in lei quel diritto alla medesima, che le eminenti sue qualità personali ed i lunghi importanti servizi resi allo Stato le hanno da gran tempo meritamente acquistato.

La Reggenza poi, nella ferma opinione che la di lei convenienza non sia menomamente lesa, non crede di aderire alla richiesta fatta per la stampa della memoria di cui si tratta, giacché con ciò si farebbe rivivere delle animosità che vogliono essere sopite, e si urterebbe col principio adottato e proclamato dalla Reggenza, di coprire di un velo le cose avvenute.

Aggradisca, sig. Conte, le assicurazioni della maggior considerazione e somma stima.

Per la Reggenza. Firmato Verri Presidente
Il Segretario generale
Antonio Strigelli.

N. VIII

Nota delli Conti Veneri Presidente e Guicciardi Cancelliere del Senato Consulente del Regno d'Italia
A S. E. il Sig. tenente Maresciallo Generale Sommariva Commissario Imperiale

Alcune false voci, che il Senato, nella seduta straordinaria dal giorno 17 aprile, avesse proclamato al trono d'Italia il principe Eugenio, in allora Vicerè, ed a tal oggetto spedita una deputazione alle auguste potenze alleate, avevano sparso qualche allarme in Milano; quanto fosse ciò falso lo dimostrano gli atti di quel giorno che si rassegnano.

Nella successiva seduta ordinaria del giorno venti, una folla di persone, eccitata da chi credeva o affettava di credere siffatte voci, recossi al palazzo del Senato, impedí la regolare unione de' senatori, ed estorse dal presidente la qui unita dichiarazione. Persuasa poscia la stessa folla che ivi vi fosse il Ministro delle finanze Prina, lo ricercò invano per le stanze ove credevalo nascosto, e come sempre avviene in simili agitazioni popolari, disperse in gran parte gli effetti e le carte del Senato; di là si trasferí alla casa del detto Ministro, ed ebbero luogo que' tragici avvenimenti, che l'onore nazionale vorrebbe coperti di perpetua obblivione.

In tali luttuose circostanze, a freno di mali maggiori si credette di nominare un governo provvisorio della città e di unire i Collegi elettorali. Tutto derivava dalla lodevole intenzione di ristabilire la quiete. Le savie misure del governo provvisorio, l'imponente attitudine della guardia civica, l'ottima direzione del generale comandante in capo, ottennero l'intento piú presto di quello che si fosse potuto sperare.

Intanto fu proclamata la convocazione de' Collegi elettorali, esclusi però tutti i membri di que' dipartimenti che erano occupati dalle armate alleate (quantunque un rispettabile numero di essi si trovasse in Milano), o dimenticati i dotti e i commercianti degli altri dipartimenti. La prima operazione dei Collegi fu quella di confermare il governo provvisorio, e di estenderne l'autorità agli otto dipartimenti non ancora occupati, colla riserva di aggiungervi altri individui tolti dai medesimi. Ma ben tosto sorpassando ogni confine costituzionale, abolirono e modificarono imposte, annullarono o restrinsero leggi amministrative e giudiziarie, e dichiararono aboliti i primari corpi dello Stato, e fra questi quello del Senato, alla conservazione delli di cui diritti è diretta la presente nota.

A dimostrare la mancanza d'ogni autorità ne' Collegi per tale operazione, basta l'esame delle loro attribuzioni costituzionali e di quelle del Senato. L'unito allegato ne presenta l'analisi.

Le attribuzioni de' Collegi elettorali, come importa lo stesso loro nome, tutte si riducono a nomine, a presentazione di candidati. I Collegi, o sono generali o sono dipartimentali. I primi devono unirsi in tre camere separate di possidenti, di dotti e de' commercianti, e ciascuna camera nella città destinata dalla costituzione. I secondi si uniscono nel capoluogo del dipartimento in una sola camera.

Appare chiaramente dall'esame delle loro attribuzioni, che ambedue i Collegi elettorali di tutto il Regno, uniti nelle forme e nei luoghi costituzionali, non hanno alcun diritto di abolire altri corpi dello Stato voluti dalla stessa costituzione, per la quale essi esistono, e tanto meno poi il Senato, il quale per l'art. XV del sesto statuto costituzionale giudica sull'incostituzionalità degli atti de' Collegi elettorali.

Come mai dunque ciò che non avrebbero potuto fare tutti gli elettori del Regno, uniti legalmente nel numero di 1153, avrà potuto fare una frazione de' medesimi, che non oltrepassò mai il numero di 170? Nel qual proposito è da rimarcarsi che per la validità degli atti de' Collegi si richiede l'intervento almeno del terzo del loro numero totale. Cresce poi l'argomento per la circostanza che la maggior parte de' senatori furono nominati sulle proposizioni de' Collegi generali di tutto il Regno, e quindi al Regno intiero, e non ad una sola frazione appartiene il Senato. Né deve tacersi che la carica di senatore non si perde, se non per quelle cause per le quali si perde il diritto di cittadino, circostanza che rende ancora piú manifesta l'ingiustizia della pretesa abolizione.

Riducendo quindi ai semplicissimi termini la questione, ne emerge il seguente dilemma. O esiste costituzione, e deve esistere il Senato, che è il primo corpo permanente dalla medesima voluto, ed è solo autorizzato dall'articolo XVIII del sesto statuto costituzionale a far conoscere al Re i voti e i bisogni della nazione: o non esiste costituzione, e in tal caso neppure esistono Collegi elettorali, onde nulla e viziosa sarebbe la loro unione.

Le auguste potenze alleate hanno fatto la guerra alla Francia, e non ai popoli, ed hanno altamente proclamato colla pace del mondo l'indipendenza delle nazioni; in tutti i paesi occupati dalle loro armi vittoriose, hanno provvisoriamente conservate tutte le leggi fondamentali e le autorità nazionali sin tanto che nella maturità de' loro consigli determineranno la sorte dei medesimi. Tale è pure l'intenzione di S. E. il signore Maresciallo Conte Bellegarde, che nel Regno d'Italia le rappresenta, come appare dagli articoli IV e V della convenzione 23 aprile, e dal relativo proclama di S. E. il tenente Maresciallo generale Sommariva. Quindi all'acclamata loro imparziale giustizia ed illuminato loro giudizio appoggia il Senato e sottopone le tante e sí chiare ragioni che lo assistono, e conchiude la presente nota con le seguenti riflessioni:

Primo. Il Senato del Regno d'Italia nella sua deliberazione de' 17 aprile altro non vi propose che di venerare gli alti principi delle AA. PP. AA., inviando alle medesime rispettosi omaggi e suppliche per la finale cessazione delle ostilità e per l'indipendenza del Regno.

Secondo. Non può esistere costituzione nel Regno d'Italia, se con i Collegi elettorali non esiste anche il Senato.

Terzo. Ogni fiducia del Senato è intieramente riposta nella magnanimità delle AA. PP. AA., nelle convenzioni stipulate e ne' proclami emanati da' loro legittimi rappresentanti, anteriori in data e in promulgazione all'incostituzionale abolizione pronunziata da una sola frazione de' Collegi elettorali, la quale nemmeno fu fino al giorno d'oggi legalmente pubblicata, nè si conosce da' senatori, se non per essere stata inserita ne' pubblici fogli del giorno 27 aprile 1814.

Milano, li 29 aprile 1814.

Firmato Veneri, Presidente.
Guicciardi, Cancelliere.

La presente nota è stata sottoscritta ed approvata dagl'infrascritti conti Senatori,

Conte Moscati

Conte Paradisi

Conte Leonardo Giustiniani

Conte Luigi Massari

Conte Leopoldo Armaroli

Conte Tommaso Condulmer

Conte Sebastiano Bologna

Conte Barnaba Oriani

Conte Agostino Bruti

Conte Federico Cavriani

Conte Daniele Felici

Conte Sigismondo de Moll

Conte Simone Stratico

Conte Leonardo Thiene

Conte Giacomo Lamberti

Conte Testi

Conte Carlotti

Conte Francesco Mengotti

Conte Alessandro Volta

Conte Marco Serbelloni.

NOTE

Il Saint-Edme, pubblicando nel 1822 la sua traduzione francese di questa operetta, vi aggiunse alcune Notes du traducteur, delle quali per piú rispetti si deve tener conto; però ho creduto opportuno riferirle o riassumerle, con richiamo ai luoghi stessi cui il traduttore le appose. Nella nota (28) ho, naturalmente, corretti i molti errori nei quali il Saint-Edme cadde pei cognomi italiani, e v'ho aggiunto molte altre indicazioni di uffici e personaggi notabili del Regno italico.

SUGLI AVVENIMENTI DI MILANO
17-20 di Aprile 1814

RELAZIONE

Trascorsi ormai due anni dagli avvenimenti accaduti in Milano nell'aprile 1814, io, Carlo Verri, intraprendo a stendere una Memoria relativa a quella sfortunata epoca, che rimarrà lungamente scolpita negli animi dei Lombardi. Era mia intenzione di ciò fare, sino dal primo giorno nel quale seguí il movimento popolare; ma non mi è stato possibile. Le molte persone che vennero da me e l'essere io stato nominato Presidente del Governo non mi hanno lasciato libero il tempo. Avendo poi continuato a servire il Governo sino a tutto il 1815, distratto dagli affari ed essendo in debole salute, non ho saputo determinarmi a scrivere. Ora però che mi trovo in piena libertà e senza incombenza alcuna, io penso di esporre quanto la memoria saprà suggerirmi, né mi dilungherò in riflessioni, attenendomi a' soli e semplici fatti, dei quali io stesso fui personalmente testimonio e che constino per pubblici documenti, o tali, per pubblica fama, che non se ne possa dubitare, non avuto riguardo alle voci sparse e prive di sodo fondamento. Narrerò quanto io stesso ho veduto e quanto è accaduto a me: cosí questa mia relazione, che penso deporre nell'archivio di famiglia, darà qualche idea della cosa pubblica ed una notizia certa di quanto è accaduto a me come uomo pubblico in quell'epoca ed in seguito. Né sarà discaro agli individui della famiglia se, scrivendo di me, sarò forse diffuso, e se brevemente discorrerò degli impieghi ai quali sono stato chiamato prima dell'epoca che intendo descrivere, giacché il principale mio scopo è appunto quello di stendere una Memoria intorno a ciò che mi appartiene come uomo pubblico.

Nel 1802, mentr'io da qualche tempo viveva quasi abitualmente in campagna attendendo all'agricoltura, il conte Francesco Melzi, fatto vicepresidente della Repubblica Italiana, chiese di me e mi offrí una prefettura. Contavo già il cinquantesimonono anno d'età e con salute debole. Presi tempo a riflettere, poi accettai, sempreché fossi destinato alla prefettura del Lario in Como, città triste, ma che offriva la vicinanza dei miei fondi, della patria e del fratello cavaliere Giovanni in essa domiciliato. La fondata speranza di un buon Governo, lo Stato stabilito con pubblico trattato politico, il dovere che incombeva a qualunque probo cittadino di secondare la felice circostanza per il pubblico interesse mi determinarono all'assenso, avendo nei tempi antecedenti di rivoluzione della Cisalpina e dei variati governi vissuto affatto alieno da qualunque impiego. Erano le prefetture in quella loro istituzione di grado assai decoroso, ed erano i Prefetti quasi veri governatori; ma in seguito decaddero assai dal loro lustro.

Il vicepresidente Melzi avrebbe voluto destinarmi non a Como, ma in qualche altro dipartimento piú interessante, e probabilmente aveva fisso nell'animo quello del Mella, la cui capitale è Brescia. Ma le circostanze soprallegate fecero ch'io rimanessi nella mia prima adesione per il solo Lario in Como. Dopo circa un mese di sospensione, il vicepresidente, vedendomi costante, mi nominò per il Lario. Ma vari signori bresciani, mossi da propria opinione e probabilmente dal Governo istesso, mi fecero istanze assai lusinghevoli perché cangiassi di pensiero e accettassi il Mella, e tali furono le istanze che non senza imbarazzante difficoltà sarebbe accaduto che io mi dispensassi; al che si aggiunse una obbligantissima lettera del cittadino Villa, ministro dell'interno, colla quale mi partecipava il desiderio de' Bresciani e quello del Governo istesso, che io non mi rifiutassi per il dipartimento del Mella. Erano pertanto le cose a tal segno spinte che il rifiuto sembrava inurbana ostinazione, onde mi determinai a secondare l'istanza. Ma se la vivacità di quella nazione e le difficoltà che poteva presentare lusingavano e mi rendevano assai preferibile il Mella al Lario, pure la poca salute, la distanza da' parenti, dagli amici e dalle mie proprietà mi facevano preferire il Lario. Quindi in giugno del 1802 partii per Brescia: onorevolmente accolto, ivi rimasi fino al settembre del 1804, nel quale tempo ebbi una grave malattia di petto e fui nominato Consigliere legislativo. Quale memoria abbia fortunatamente lasciata di me nel dipartimento non istà a me il dirlo: il Governo ne fu contento e mi premiò coll'avanzarmi di grado in patria.

Venuto in Milano nel 1805 Napoleone per prendere la Corona di ferro, fece una nuova nomina per il Consiglio interinale di Stato, poi la fece stabile; ed in entrambe vi fui nominato. Poi, istituito l'Ordine della Corona di ferro, fui tra i primi nominato Commendatore, e n'ebbi la decorazione nella prima e sola funzione pubblica che si fece in Sant'Ambrogio, dalle mani del Principe Eugenio Viceré, seduto sotto il trono in piena formalità. Varie e distinte incombenze ebbi come consigliere, nelle quali anche fui nominato il primo ove si trattava di piú consiglieri nominati. Tale fu la commissione per la Dalmazia, ove io fui nominato per Zara e suo distretto; ma per motivi di salute mi dispensai. Cosí fui nominato il primo, e nei primi dipartimenti, come Ispettore di pubblica beneficenza.

Finalmente nel principio di aprile dell'anno 1808 il Principe Viceré, sebbene io per mia indole non avvicinassi né la real Corte né i Ministri, con maniere obbliganti mi chiese se avrebbe potuto disporre di me; al che risposi che tutto mi sarebbe stato gratissimo e ad onore, sempreché la mia poca salute ed i miei pochi talenti avessero potuto secondare le viste di S. A. R. Passati pochi giorni, il Principe con suo viglietto mi scrisse che mi disponessi a partire per Ancona e che conservassi il segreto che affidava alla mia discretezza. Poi volle a me solo manifestare il motivo della partenza, il quale era doversi da me organizzare i tre dipartimenti della Marca, cioè il Metauro, il Musone ed il Tronto. Comandava in essi, come governatore, il generale francese Lemarois. Volle il Principe ch'io carteggiassi direttamente con lui e diedemi per compagno Giacomo Luini, Consigliere uditore. Partii in aprile, pretestando un giro nei dipartimenti del circondario di pubblica beneficenza a me affidato, e giunsi in Ancona prima del giorno 21 del mese, epoca assegnatami. Rimasi in Ancona sino a tutto l'agosto, e ritornai in patria lasciando contente quelle popolazioni; e persino gli ecclesiastici di Roma non disapprovarono la mia condotta. Il real Governo ne fu contento ed il Principe, pagate le spese, mi regalò una bellissima tabacchiera col suo ritratto contornato di brillanti. Non è a tacersi essere io andato in quei dipartimenti senza istruzioni, senza notizie delle finanze, essendosi il real Principe interamente affidato, com'egli graziosamente diceva, alla mia saviezza.

Erettosi da S. M. l'Imperatore Napoleone il Senato del Regno d'Italia, ed essendosi riservata la nomina di alcuni, oltre quelli che gli fossero stati presentati dai Collegi elettorali in conformità dello Statuto, mi nominò Senatore con decreto del giorno 10 ottobre 1809.

Questa è la carriera da me percorsa nei pubblici impieghi, dai quali sono stato alieno fino all'anno cinquantesimo di mia vita e per i quali non ho mai fatto passo alcuno sia colla Corte, sia coi Ministri. Dal che facilmente si scorge che nel Governo della Repubblica italiana ed in quello del Regno d'Italia i sudditi chiamati a pubblico impiego ottenevano la confidenza del Governo, e non erano gl'Italiani trattati come semplici operai e sottoposti all'umiliante diffidenza, che disgraziatamente forma uno dei principali caratteri del Governo austriaco verso gl'Italiani.

Ciò premesso per notizia della famiglia, passo ora alla seconda epoca, cioè a quella del cangiamento di Governo. Scrivendo ciò che la memoria potrà fornirmi e senza prevenzione di partito, non esporrò che i fatti certi, dai quali potrà chi legge dedurre quelle conseguenze che offrono da loro medesimi. Parlerò molto di me, poiché la Memoria che stendo ha per iscopo principale appunto quello di lasciare in famiglia un documento di quanto m'è accaduto, perché possa da esso dedurre argomento delle stabilità politiche, e quanto meglio sia il fondare la felicità sull'esistenza propria, sulle abitudini e geniali occupazioni, sui lumi, sullo studio, di quello che sugli impieghi dipendenti sempre dall'altrui volere e dall'impensato cangiamento degli eventi politici ed amministrativi.

Era la sera del giorno 16 aprile 1814, quand'io essendo colla società di varie persone, che seralmente da me si sogliono unire già da vari anni, ricevetti lettera d'avviso che la mattina seguente si univa il Senato in seduta straordinaria. Convalescente per recente malattia di petto e debole assai, gli amici mi consigliarono a non intervenire alla seduta; ma riflettendo io che questa seduta, attese le cose di Francia e le sventure di Napoleone delle quali correvano incerte voci, doveva essere effetto di oggetto interessante, mi determinai d'andare al Senato, anche esponendo la propria salute. Ignorava di che trattar si dovesse; e la mattina del 17 me ne stavo seduto in letto trattenendomi in alcune geniali occupazioni ed attendendo l'ora di alzarmi, quando venne da me il conte Alfonso Castiglioni mio nipote. Premessi i soliti atti di famigliare amicizia, egli mi chiese se pensava di andare al Senato; al che risposi affermativamente adducendone il motivo. Continuò egli interpellandomi se mi era noto l'oggetto della convocazione, e risposi che lo ignoravo. Allora egli mi disse: «Io ve lo dirò. Trattasi di un messaggio al Senato per ottenere che il Principe Eugenio, viceré d'Italia, sia dichiarato re.» Ignorando io ciò che era accaduto in Francia, come s'ignorava da tutti, fui sorpreso e meravigliato, onde ne parlai con stupore non potendo persuadermi di quanto mi veniva detto; ma il conte Castiglioni mi assicurò in modo cosí deciso e fermo che dovetti in certo modo persuadermi essere vero quanto mi diceva.

Dopo breve dialogo partito il Castiglioni e rimasto solo, riflettei fra me medesimo cosa dovessi fare e dubitai se fosse prudente cosa il non intervenire alla seduta, giacché la poca salute mi offriva giusto motivo. Da una parte io sentiva le molte obbligazioni mie verso il Principe, che sempre mi ha distinto sebbene io non frequentassi la Corte; non ignoravo, d'altronde, che già da un anno il pubblico non gli era piú affezionato e che molto di lui si doleva. Rammentavasi l'ordine, da lui emanato, di dare cinquanta colpi di bastone ciascun giorno di un intero mese a' vari condannati ai lavori forzati in Mantova per essere fuggiti: decreto che fu eseguito per alcuni giorni, poi sospeso, essendosi da Mantova mandati in commissione speciale alcuni cittadini onde revocare sí terribile decreto, che riduceva quelli infelici a dura morte per cancrena. Né fece poca impressione nell'animo degli Italiani la condanna a morte per fucilazione del sig. … guardia d'onore, di famiglia distinta di Corinaldo, dipartimento del Metauro, per pensata e non effettuata diserzione. Varie altre cose spargevansi già da qualche tempo contro il Principe, e singolarmente alcune sue espressioni di disprezzo pe' militari italiani. Né poteva il pubblico tollerare l'influenza del signor Méjan, suo segretario degli ordini, né quella di qualche suo aiutante disprezzatore degli Italiani. Spiaceva inoltre che il signor Darnay fosse stato fatto Direttore delle poste, e dicevasi che le lettere erano tutte aperte, molte trattenute ed abbruciate. Il partito opposto al Governo esagerava questi fatti e declamava: i tributi gravosissimi diretti dal ministro Prina odiato dal pubblico; la coscrizione militare che offriva al macello tanta gioventú e che non lasciava famiglia che non fosse in profonda desolazione; la lusinga sempre facile nel popolo di migliorare la sorte presente con un nuovo Governo; la reazione del partito dei nobili e di quelli che dimenticati dal Governo speravano nelle vicende della guerra, dopo i disastri sofferti nel fine della campagna di Russia, davano animo ad eccitare il generale malcontento con tutti quei mezzi e con tutte quelle dicerie, che l'entusiasmo e la vivacità dei partiti hanno poste in opera in tante fatali circostanze dell'età nostra.

Questi pensieri ed il dubbio del carattere che il Senato fosse per assumere in cosí difficile circostanza, l'intimo sentimento mio di esprimere il mio voto sempre diretto dall'onore, dal dovere e dal pubblico bene, mi davano grande perplessità e timore di espormi inutilmente. L'incertezza delle notizie, l'ignoranza del vero stato politico delle cose, la volubilità degli eventi, la generale avversione al Governo francese, le declamazioni contro il Principe erano tutti oggetti gravissimi di seria riflessione. Considerando però che l'uomo appunto nelle circostanze difficili non doveva smentire il proprio carattere e che l'uomo appunto in queste occasioni deve prestarsi in favore dello Stato e del bene della società, mi determinai di andare al Senato nella ferma risoluzione di parlare con quella libertà che era di preciso dovere, quand'anche avessi dovuto sacrificare me stesso, e di ragionare in conformità di quanto fosse stato proposto alla discussione del Corpo, giacché realmente non sapevo immaginare sotto quale aspetto, con quali motivi e come potesse essere disposto l'affare.

Giunto al palazzo del Senato, dubitando che la prevenzione di alcuni individui, la debolezza di molti, le private viste ed un antecedente maneggio potessero indurre il Senato o ad essere sospeso o a non mantenere quel nobile carattere e quella saviezza che conveniva al primario Corpo del Regno, avvicinai due o tre senatori, e, chiesto loro se avessero notizia di quanto doveva trattarsi, essendomi stato risposto che lo ignoravano, dissi loro che l'affare doveva essere grave e che li esortava ad essere attenti e cauti contro qualunque sorpresa.

Era presidente il conte Veneri, modenese, ex-ministro del tesoro del Regno. Aperta la seduta, fu letto un messaggio del signor Duca di Lodi, guardasigilli del Regno, col quale annunziava al Senato che le vicende politiche e le circostanze esigevano la piú seria attenzione, ed essere necessario:

1º di spedire una Deputazione alle Alte Potenze alleate contro la Francia, onde interessarle a sospendere le ostilità e conservare il Regno coll'indipendenza dello Stato.

2º Convocare i Collegi elettorali.

Con questo messaggio venne proposta anche la forma del decreto da adottarsi, e dopo i due suddetti articoli eravi il terzo ed ultimo, col quale volevasi che

3º La Deputazione esprimesse alle Alte Potenze alleate il sentimento di riconoscenza che la nazione nutriva verso la persona del Principe Eugenio viceré, per l'ottima sua condotta nell'amministrazione pubblica.

Grande fu la sorpresa del Senato alla lettura di questo messaggio, col quale, tacendosi gli eventi accaduti in Mantova ed a Parigi, si vedeva invitato a cangiare il Sovrano. E veramente in quell'epoca destinata a tanti cangiamenti, si sono commessi errori politici da tutte le parti, e anche da chi aveva dati non piccoli saggi di esperimentata prudenza e saviezza; come si vede dall'irregolare, imprudentissimo messaggio del Duca di Lodi al Senato, e come meglio apparirà considerando gli effetti degli opposti partiti, dei quali l'uno fu tanto imprudente da muovere la plebe contro il Senato, e l'altro non seppe, con opportuni modi, operare in favore dell'indipendenza dello Stato. Cosí avvenne in Roma per la dissensione fra la nobiltà e la plebe, allorché odiando quella la facoltà tribunizia e questa la consolare, si crearono i Decemviri; imperocché in quella straordinaria circostanza gravi errori commisero il Senato, la plebe e i Decemviri.

Fatta al Senato la proposizione, io voleva chiedere la parola; ma il senatore Guicciardi mi prevenne e fece una mozione d'ordine, chiedendo come il signor presidente avesse convocato il Senato in seduta straordinaria, la quale non poteva farsi senza un decreto del Principe. Parmi che il presidente rispondesse che il Duca di Lodi, guardasigilli, era autorizzato e che le circostanze lo esigevano; ma quali fossero quelle circostanze ignoravasi dal Senato. Chiesi, dopo Guicciardi, la parola; ma sedendo io nel rango superiore, poiché le sedie stavano in due giri, l'uno piú alto dell'altro, il senatore Dandolo, che era appunto sotto di me nel circolo inferiore, si alzò e parlò con molta eloquenza e saviezza, ragionando sulle tante incongruenze, che di sua natura offriva quello strano progetto appoggiato a nessuna positiva notizia e solo in generale alle urgenti circostanze.

Dopo il conte Dandolo, chiesi la parola e mi limitai a poche domande: chiesi pertanto se l'imperatore Napoleone viveva o no, poiché le voci plateali ed il messaggio stesso davano luogo a supporlo morto; se, qualora fosse morto, non esistesse il figlio, re di Roma; se, vivo, Napoleone avesse abdicata la corona per sé e per la discendenza sua, senza di che il Senato si renderebbe colpevole di fellonia e di ribellione. Insorta cosí una viva discussione, voleva il presidente che senz'altro si adottasse il progetto di decreto; ma il Senato, per quanto mi sovviene, sulla ferma proposizione di Dandolo determinò che il progetto di decreto proposto al Senato fosse esaminato da una commissione, che ne facesse rapporto nello stesso giorno: la seduta fu dichiarata permanente. Fattosi lo scrutinio, furono nominati per la commissione Guicciardi, Bologna, Castiglioni, Dandolo, Cavriani, Verri e Costabili.

Rimaneva però sempre il dubbio con quale autorità legale vi fosse stata quella straordinaria convocazione; onde il Senato delegò Guicciardi, Dandolo e Verri, perché tosto si portassero personalmente dal Duca di Lodi per intendere da lui le facoltà che avesse, e se vi fosse un armistizio fra il Principe Eugenio e l'armata nemica, poiché il ministro Vaccari, mentre il Senato discuteva sull'interessante oggetto, accennò che si era fatto un armistizio. È da sapersi che i ministri potevano intervenire alle adunanze del Senato quando pure non fossero senatori, ed in quell'occasione i ministri Vaccari dell'interno e Luosi della giustizia, che certamente erano al fatto e consci di tutto, intervennero. Anzi si poté sapere in seguito, e la condotta loro lo confermò, che Vaccari singolarmente ed alcuni senatori, cioè Prina, Paradisi e Carlotti, avevano avuta parte nel formare un cosí strano e assurdo progetto, o per lo meno ne erano prevenuti; progetto che per le sue incongruenze appena sembra credibile. Né fu poca la maraviglia mia e di altri estimatori ed amici del Duca di Lodi, nel vedere che egli approvasse e potesse secondare e dar mano a tanta assurdità. E tale fu la sorpresa nostra che io, sull'istanza che alcuni mi fecero, mi portai al gran tavolo ove sedeva il presidente co' segretari, e chiesi di vedere la firma del Duca di Lodi, dubitando di qualche sorpresa; tanto era lo stupore. Esaminata la firma, vi trovai sottoscritto il Segretario Villa per espressa commissione di S. E. il Duca di Lodi impedito dalla gotta; ed il carattere era del Villa, a me notissimo.

Eseguendo la commissione del Senato andai subito co' senatori Guicciardi e Dandolo dal Duca Melzi, il quale ci partecipò l'armistizio, l'abdicazione di Napoleone e l'autorità a lui concessa per le occasioni straordinarie che potessero occorrere essendo assente il Viceré. Non è fuori di proposito di osservare che il Senato fu convocato in questo giorno 17 marzo, ad un'ora dopo mezzogiorno; che l'invito fu diramato il giorno antecedente e che l'armistizio suddetto non fu notificato che un'ora appunto dopo mezzogiorno del 17 istesso; come risulta dalla stampa pubblicatasi in Mantova, la quale incomincia, ecc.37

Ritornati noi al Senato, dopo lunga discussione, dichiarata permanente la seduta, partiti i senatori, rimanemmo noi sette delegati per esaminare e modificare il progetto di decreto stato proposto. Nessuna difficoltà si trovò nella forma dei due primi articoli del decreto, i quali furono facilmente tra noi ad unanimità di parere combinati, cioè:

1º Per l'invio di una Deputazione di tre senatori al quartiere generale delle Potenze alleate, onde supplicarle, in conformità de' liberali principî da esse pubblicati, non solo a sospendere, ma a cessare dalle ostilità e conservare il Regno con un sovrano indipendente.

2º Per la immediata convocazione dei Collegi elettorali.

Ma molte e gravi difficoltà insorsero nel combinare, ciò che riguardava il Principe viceré. Trattavasi, nel primo progetto di decreto presentato al Senato, di un elogio del Principe da farsi alle Alte Potenze alleate, e di tal natura che sembrava indicarsi il vóto della nazione per averlo in sovrano. Ma il Senato non poteva parlare in nome della nazione, non avendone la rappresentanza, e questa dovevasi considerare, in quelle circostanze singolarmente, come riposta ne' soli Collegi elettorali; al che si aggiungeva il fermento generale del popolo contro il Governo francese e le fatali declamazioni contro il Principe. Egli è ben chiara cosa che l'interesse personale dei senatori e fors'anche il vero interesse della nazione ottimamente combinavano colla nomina del Principe Eugenio in sovrano. Ed in quanto a me lo avrei bramato assai, onde, parlando in Senato, dissi: nessuno piú di me essere riconoscente e per dovere essere a lui affezionato; ma che sfortunatamente l'opinione generale da qualche tempo erasi cosí cangiata riguardo al Principe che pericolosa cosa sembravami il proporlo ed anche l'insinuarlo come bramato dalla nazione. Il fatto provò quanto fosse fondato il timor mio, come si vedrà nel seguito di questa relazione. Quindi, dopo tentati tutti i mezzi fra noi sette delegati alla riforma ed all'esame del progetto, né ritrovando il modo di formare il terzo ed ultimo articolo, combinando i nostri privati sentimenti colle sfavorevoli circostanze della generale opinione e col moto che scorgevasi nella città contro il Principe ed i Francesi, si stese un articolo nel quale il Senato esprimeva la sua riconoscenza verso il Principe. Nessuno di noi era contento di quel troppo semplice articolo e troppo meschine espressioni; ma che potevasi fare, quando il dire di piú esponeva il Senato al furore del popolo e la nazione ad una rivolta? Noi fummo occupati tutto il rimanente del giorno, studiandoci di trovare una piú onesta uscita; ma non ci fu possibile immaginarla.

37.[Il Verri accenna manifestamente alla convenzione militare di Schiarino Rizzino, la quale fu sottoscritta il 16 aprile 1814, ratificata dal maresciallo Bellegarde e dal Principe Eugenio il 17, e resa esecutiva con atto di cambio delle ratifiche sottoscritto il 17 a un'ora pomeridiana dai generali austriaci Neipperg e Dode e dal generale italiano Zucchi. Questi atti furono pubblicati sul Giornale Italiano del 19 aprile 1814].
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29 июня 2017
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