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Читать книгу: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I», страница 7

Various
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Sei pontefice, o re? L'ultimo nome
Mai non si udiva in Roma; e se di Cristo
Il vicario tu sei, saper dovresti
Che sol di spine fu la sua corona.
 

Con l'Arnaldo si chiude il ciclo della tragedia classica. E si chiude, per l'opera e per l'autore, degnamente; ond'è che a ragione l'Italia onorò il Niccolini come i Greci onorarono i suoi poeti nazionali: e dal Foscolo che, giovane, lo chiamò giovane di santi costumi, al Carducci che, vecchio, lo chiamò sacro veglio, tutti s'inchinarono a lui, come nella comedia di Aristofane si inchina il coro al passaggio di Eschilo che dai regni di Plutone la patria richiama tra i vivi in un momento di pubblico pericolo.

 
Alzate or tutti voi
Le sacre faci ardenti.
Lo scortate, onorandolo co' suoi
Carmi, coi suoi concenti. —
 
* * *

E qui mi fermo.

L'arte, o Signori, fece il suo dovere verso la patria. Nei momenti tristi, la confortò coi ricordi; nei momenti di abbandono, la incitò coi rimproveri; nei momenti di lotta, la servì con le opere. L'Italia politica fu una creazione letteraria. Non siamo dunque tanto difficili a giudicare l'arte della prima metà del secolo! Di altro che di belle imagini e puri profili e armoniose strofe; di altro, di altro ell'era occupata, che di se stessa! La fantasia batteva dolorosamente le ali tra i ruderi della storia e i ferri delle prigioni; la parola aveva singulti, esclamazioni, vibrazioni d'anima in pena. Il teatro aveva l'aspetto di un Foro; e sui rostri del palcoscenico, ogni autore era un oratore in difesa della causa nazionale. Dietro le scene, intanto, si preparava qualcosa di più che la catastrofe di un gruppo di personaggi ideali: si preparava, e si sforzava a precipitare, la catastrofe del gran dramma secolare del popolo italiano! Che importa la forma? In certi tempi, la letteratura è azione. La miglior opera d'arte è nella creazione di un fatto; e il massimo successo dell'artista è nel trionfo di quel fatto ch'egli è concorso a creare od a render possibile.

Quali sono i titoli dei drammi nella prima metà del secolo? Potete pure dimenticarli, o Signori, senza per questo recare offesa agli autori alla letteratura. La gran produzione del nostro teatro nazionale è una, e si chiama il Quarantotto: – protagonista, l'Italia, che dopo tanti errori e tante cadute, riconquista l'unità del suo spirito, e afferma contro tutti i suoi oppressori, contemporaneamente, la sua volontà e la sua personalità. – L'arte donde quella produzione è derivata, oggi non esiste più: si è consumata nel fuoco stesso che l'ha prodotta. Ma le ceneri restano sacre. Esse conservano ancora, e conserveranno a lungo' nell'avvenire, il calore del cuore e della mente della grande generazione che ridiede all'Italia una vita, agli Italiani una patria!

LE BELLE ARTI DALL'HAYEZ AI FRATELLI INDUNO

CONFERENZA
DI
UGO OJETTI

Signore e signori,

Nella critica dell'arte odierna è di moda il pessimismo, anche perchè è facile fare a meno di conoscere quel che si disprezza. Non è più una quistione di temperamento, d'umor nero ed arcigno o d'indole entusiastica e presto fanatica; è addirittura una quistione di metodo logico. Oggi le lodi dei critici non sono che rari segni bianchi sopra una tavola nera. Io penso invece che sia più sincero e, al pubblico, più utile, delinear le proprie opinioni in nero sopra una pagina bianca. Anche nelle arti belle e anche in Italia la seconda metà del secolo che ora si chiude è gloriosa, quanto nei fatti della politica. Forse da quattrocento anni di qua dalle Alpi l'inno all'uomo – nella realtà e nel sogno, nel presente e nella speranza – non era stato innalzato con così franco volo, non aveva fatto fremere i cieli con sì ampie penne, quanto ora. Forse da quattrocento anni l'uomo non ha amato la vita, la sana nobile laboriosa vita della perfettibilità, quanto ora. Forse da quattrocento anni l'arte non è stata così sincera, l'anima così presso alla superficie su dal profondo vorticoso mare delle apparenze.

Certo, se mai nella storia dell'arte nostra e più largamente dell'estetica nostra è stato tempo in cui ogni arte convenzionale e gelidamente formale, ogni arte, secondo il valor volgare della parola, retorica sia stata ripugnante al gusto diffuso, è questo in cui noi abbiamo la ventura di vivere. Ho detto ripugnante ma non incomprensibile. Quasi cinquant'anni di positivismo e di illuminato determinismo dànno ormai alle menti moderne la snellezza della versatilità, l'oggettività d'esame necessaria a veder con curioso e sereno studio i gesti e le parole di coscienze estetiche per fortuna dissimili dalle nostre, a comprenderle, a giudicarle, direi quasi a gustarle senza fastidio, specialmente quando nel confronto noi possiamo dedurre a nostro vantaggio un progresso solare, e possiamo concedere al nostro orgoglio e al nostro presente ottimismo una qualche soddisfazione.

Corrado Ricci che due anni fa con la sua agile cultura e col suo affascinante garbo di dicitore vi intrattenne su le arti belle nei primi venticinque anni del secolo, vi condusse fino agli inizii di quella pittura che per il suo procedere parallelo alle letteratura fu detta romantica.

Quale era il gusto del pubblico verso il 1825? Quell'epoca, direbbe oggi Gabriele Tarde, era artisticamente un'epoca non di creazione ma di moda. Fede ed amore in altro che non fosse la materia e la material forma dell'opera erano cosa vana. L'immaginazione bastava a dare il tema, anche una semplice immaginazione illustrativa, suddita umile della letteratura – fosse questa letteratura storia o poesia. L'estetica winckelmaniana e le enfasi su l'Apollo soddisfacevano ancora le anime, e le maiuscole platoniche degli aggettivi Bello e Buono parevano un mirabile ornamento ad ogni orazione accademica. «I lavori più nobili di coloro che operarono in questa classica terra,» per dirla con lo stile d'allora, derivano ancora nel fatto dal David, nella teoria dal Lessing e ancora si credeva con lo Schlegel che la tragedia antica non fosse stata che della scultura. La Teoria del Bello di Francesco Ficker tradotta in italiano può esser considerata come il riassunto di quello che predicavano pittori e scultori e architetti i quali, al cospetto di Dio e dei sovrani e dei colleghi, erano fecondi più che facondi oratori. «Il bello, in arte, è la rappresentazione di un'idea sotto forma sensibile conveniente, per via della quale si risvegli l'armonico esercizio delle facoltà dell'anima»: questa è la definizione precisa dove quel conveniente e quell'armonico annebbiano e gelano ogni speranza d'una sincerità anche prudente. Non il vero e non l'emozione per simpatia gli artisti si propongono, ma il nuvoloso metafisico prototipo od archetipo il quale era, proprio secondo le parole del Ficker, «un oggetto di somma perfezione pensato per mezzo delle idee e concreato o reso percettibile ai sensi con la fantasia.» Parole che oggi in cui la nozione della relatività e della mutabilità del bello è penetrata anche nella mente della folla, sembrano e sono incomprensibili, se non ingenue. Victor Cousin poneva a base d'un suo discorso sul bello le frasi di Diotima a Socrate nel Convito: «Bellezza eterna non generata e non caduca, scevra d'aumento e di diminuzione, che non è bella in una parte e brutta in un'altra, bella solo in un tempo, in un luogo, in un rapporto, bella per gli uni, brutta per gli altri, bellezza disciolta da ogni forma sensibile, da mani, da viso, da corpo, che non è nemmeno il tal pensiero o la tale scienza particolare, che non risiede in alcun essere diverso da sè stessa, come in un animale, nella terra, nel cielo in altra cosa, che è assolutamente identica e invariabile per sè medesima, di cui tutte le altre bellezze partecipano, in maniera però che il loro apparire e disparire non recano a lei nè diminuzione nè accrescimento nè il più leggero mutamento.»

Nè questa che noi cultori dell'estetica psicologica potremmo chiamare teologia del bello, accennava a svanire verso le nuvole donde era scesa. Era tenace come una religione ed assiepata da intrichi di pregiudizî. Questo cosiddetto processo ideale che valeva mutilazione nella vita, falsità nella produzione, aveva i suoi fanatici e i suoi pontefici e, nelle Accademie, le sue basiliche. Nel 1834 ancora il professor Tommaso Minardi, cavaliere di più ordini, presidente e cattedratico di pittura nell'insigne e pontificia Accademia romana di San Luca, rappresentante onoratissimo del più puro purismo e del più pietoso pietismo overbeckiano, ripeteva in un solenne discorso quella esatta definizione del bello ideale con tanta fede, che in una copia che io posseggo, ritrovo di suo pugno questa solenne dedica a un amico: «Tu che comprendi la ragion delle cose, leggi e di' a me, Tommaso Minardi, se imbroccai il Vero.» E il vero naturalmente ha il V maiuscolo. Ancora, nel 1842 Alessandro Paravia, professore di eloquenza alla regia Università di Torino, lodava gli artisti «i quali altro non fanno che riprodurre quanto di più vago e magnifico a lor si mostra… Se ben, a che dico io, il riproducono? Meglio era dire il migliorano.» Ancora, nel 1857 Niccolò Tommasèo stampando qui a Firenze l'opuscoletto su la Bellezza e civiltà o delle arti del bello sensibile diceva che «il bello è ordine, è Dio, e l'ideale non è accozzo di belle forme in una, come si narra abbia fatto Zeusi nel suo famoso quadro; l'ideale è un'idea colta attraverso le cose.» E nello stesso anno Pietro Selvatico credeva necessario lungamente dissertare su la Opportunità di trattare in pittura anche soggetti tolti dalla vita contemporanea; sebbene il Tommasèo e il Selvatico ormai chiedessero al loro Bello Ideale la potenza di commuovere, riducendo così finalmente a teoria quella nostra pittura romantica che già declinava, anzi già – come vedremo – era vinta.

Gli scrittori d'estetica, lo so, arrivano sempre in ritardo paragonati agli artisti creatori, e non fanno che dedurre dalle premesse che questi hanno già poste con le opere. Anche Ruskin è venuto dopo Turner. Figuriamoci se il Tommasèo non doveva arrivare almeno quindici anni dopo il Bacio dell'Hayez!

Ma il ritardo più doloroso è quello dei pittori italiani paragonati ai pittori di Francia. Tra il venti e il trenta mentre in Italia è ancor vivo e glorioso, – massimo tra i classicheggianti davidiani teatrali e lividi copiatori di statue, il Camuccini che ha dipinto la Moglie di Cesare e dipinge ancora per Bergamo la Giuditta che ringrazia Iddio dopo aver ucciso Oloferne, per Praga la Discesa di Gesù al Limbo, pei Torlonia l'Ingresso di Francesco Sforza in Milano, e soltanto l'Agricola e il Landi a Roma, Pietro Benvenuti e Luigi Sabatelli a Firenze tentano togliergli, imitandolo, la fastosa egemonia paragonabile a quella del Thorwaldsen in scultura, – in Francia il Géricault, il Delacroix avevano redento per varii modi l'arte dalla stupida cieca tirannia del cosiddetto stile e Corot era già stato in Italia e aveva dipinto il Ponte di Narni, il Colosseo e l'isola di San Bartolommeo.

Se una lotta visibile era in Italia, e sopratutto a Roma, era tra quei neoclassici davideggianti alla Camuccini e i puristi tedescheggianti alla Minardi. Overbeck, Cornelius, Veit, Schnorr avevano già dipinto a Via Sistina nella casa degli Zuccari per commissione del cavalier Bartholdy console di Prussia, e nella Villa Massimo al Laterano avevano su per tutte le pareti con pallidi ma chiari colori illustrato con composta placidità Dante, il Tasso e l'Ariosto. Anzi in quegli anni il «nazareno» Overbeck, detto allora l'Angelico del secolo decimonono, ponendo in atto un antico piissimo voto, dipingeva estatico la fronte della Porziuncola francescana ad Assisi, in Santa Maria degli Angeli, sotto la cupola del Vignola.

Ora noi, dopo cinquant'anni, riuniamo sotto una stessa accusa gli avversarî, e a leggere l'opuscolo del Bianchini sul Purismo nelle arti o quello del Selvatico sul Purismo nella pittura e a guardar a Roma o a Perugia, dove egli fu per parecchi anni direttore dell'Accademia, i disegni anche più dei pochi squallidi dipinti del Minardi, non possiamo comprendere perchè le due scuole così timide di contro al vero non si riconoscessero sorelle in un comune peccato originale: quello di imitare una imitazione. A noi sembra che tanto valesse condurre in pellegrinaggio gli studiosi e gli stranieri qui a Firenze ad ammirare in casa Mozzi Il giuramento de' Sassoni a Napoleone dopo la battaglia di Jena dipinto dal Benvenuti o al palazzo della Gherardesca a godere il suo Conte Ugolino nella torre di Pisa, quanto su su per la scalinata di Piazza di Spagna farli a Roma salire a venerare gli affreschi dell'Overbeck e dello Schadow a casa del Bartholdy.

Quando l'Hayez pensionato veneziano s'era, anni prima, presentato a Roma al Canova con le commendatizie del Cicognara, questi gli aveva parlato così: «Conosco lo scopo della sua venuta ma non il programma dei suoi studî: ritengo che l'intenzione sarà di studiare Raffaello e l'antica scultura greca per formarsi un'idea del bello che certamente quei sommi maestri hanno saputo scegliere dal vero.» E nei consigli del grande di Possagno i due indirizzi già si raccoglievano in un elogio che oggi da chiunque sarebbe mutato facilmente in un biasimo. Se da un lato le sculture classiche erano l'ideale che nei loro quadri camucciniani mettevano in moto come altrettanti manichini creati diciassette diciotto secoli prima a Roma o ad Atene o ad Alessandria pel loro comodo e pel loro piacere, dall'altro i nazareni tedeschi dalla lunga chioma e i loro seguaci italiani con minor rispetto aggiustavano madonne, santi ed angeli del Ghirlandajo o del Perugino col nobile scopo di riempire le tele che loro erano state allogate da qualche nobile, da qualche cardinale o da qualche confraternita. Col vero si aveva il minor rapporto possibile, perchè il pericolo della volgarità era pericolo di insuccesso e di scomunica. Se il vero ideale per molto tempo era stato Talma l'attore eroico e magniloquente, ora anche questo simulacro è sdegnato dai puristi che si inginocchiano prima di dipingere, o meglio prima di copiare. In un elogio del Minardi scritto nel '21 quando dalla direzione dell'Accademia perugina cui l'aveva raccomandato quattro anni prima lo stesso Canova egli passò a Roma ad insegnare disegno figurativo in San Luca, si dice che per lui rivisse l'antico spirito perugino; e doveva dirsi che da lui si erano lucidate le antiche forme peruginesche. Se non fosse il colorito incenerato e la leziosa sdolcinatura dei tipi e dei gesti, se non si sentisse a ogni segno e ad ogni pennellata la stereotipata abilità di composizione e di ricomposizione sostituita alla franca geniale spontaneità dell'invenzione come la luna invece del sole, tutta l'opera del Minardi potrebbe nel metodo paragonarsi a quelli affreschi e a quei quadri che i più tardivi e i più torpidi discepoli di Pietro Perugino componevano adoperando a pezzo a pezzo i cartoni del maestro e voltandoli da un fianco o dall'altro e magari a una tunica d'apostolo infilando le braccia, i piedi e la faccia della Santa che loro era stata per pochi scudi e per mezzo sacco di grano allogata. Ma le più stentate pitture di Tiberio d'Assisi e le più tardive opere di Giannicola Manni hanno ancora e sempre l'afflato divino e la sincerità e la sicurezza che a questi importanti monotoni sillabatori di poemi eterni mancano, e giustamente.

Intanto ad uso di questi miticissimi castissimi soavissimi pittori dal color di manteca e dal disegno esemplarmente calligrafico si venivano scrivendo vite e panegirici di Raffaello e di Perugino, dello Spagna e del Francia, del Ghirlandajo e magari del buon frate Lippi come se fossero stati altrettanti santi passati in terra belli e compunti, a miracol mostrare. E il Rio con l'Art chrétien raccogliendo dieci anni dopo tutte queste agiografie sarà considerato l'ideale storico dell'arte, e il padre Marchese nel 1846 fisserà in un breve enfatico scritto i suoi entusiasmi su quei puristi, che alla sua nobile anima parvero rinnovatori fecondi laddove non erano che plagiarî sterili gelidi e timidi.

Forse la parola plagio è troppo cruda per quegli onesti, perchè il loro plagio fu incosciente ed essi credettero fare opera di purezza commettendolo, e anche perchè ne furono puniti dall'immediato oblío tanto che i più di loro morti anche venti o dieci anni fa, oggi son rinnegati financo dai discepoli, e dal pubblico abbandonati nelle ultime sale delle accademie e delle pinacoteche.

Non a loro torna l'omaggio che ogni giorno in Francia ravviva la memoria di ogni più oscuro pittore della libera scuola del Trenta; e in Germania stessa a Düsseldorf o a Monaco la pittura nazarena prima di Kaulbach o di Piloty è, più che biasimata, dimenticata. Per molto tempo essa gelida e diligente ha vissuto perchè nessuno vi trovava qualcosa da biasimare. «Queste grandi tele non insegnano nulla di nuovo e non lasciano alcun ricordo; sono corrette, decenti e fredde» diceva nel 1828 lo Stendhal uscendo dallo studio del Camuccini e avrebbe potuto dire lo stesso delle poche tele del Minardi.

Un vanto però va dato ai puristi intorno al Minardi, che in realtà fu solo un maestro e specialmente al senese e gentile Luigi Mussini fraterno amico dell'Ingres onorato così in Francia come in Italia, pittore e scrittore. Ed è un vanto di tecnica. Qui più cospicuamente si vede la rispondenza fra i puristi in pittura e i puristi in letteratura; qui più chiaramente Tommaso Minardi ci appare come il Basilio Puoti del pennello, e il suo Discorso su le qualità essenziali della pittura italiana scritto nel '34 continua venticinque anni dopo la Dissertazione su lo stato presente della lingua italiana presentata dal Cesari all'Accademia milanese.

Essi abbandonarono quelle larghe masse di chiaro e d'ombra con che il Benvenuti e il Camuccini e tanti altri minori preparavano nei dipinti le parti luminose ed oscure, senza curarsi di tòrre questi effetti dal vero, ma disponendoli con una luce teatrale, della cui falsità (come narra nelle sue Memorie l'Hayez, che andando a Roma venne a riverire Pietro Benvenuti qui a Firenze nel suo studio e lo vide dipingere la Morte di Priamo), si gloriavano apertamente. Così i loro colori furono chiari se non ricchi, e con le velature ritornarono a dare lucidità e trasparenza alle cose dipinte, e su le mura riaddussero in onore l'encausto e ritrovarono i buoni metodi del fresco. Nella prospettiva, poi, ricominciarono a conformare la grandezza degli oggetti ritratti alle dimensioni della immagine prospettica, quale è descritta nel taglio del cono visuale, al punto in cui l'artista si pone così da non dover spostare, come avveniva spesso nei macchinosi quadri davidiani e come purtroppo riavverrà in molti frettolosi romantici, il punto della veduta due volte almeno per una stessa pittura.

Il Benvenuti muore nel '44, il Camuccini e il Sabatelli nel '50, il Biscarra che dal '21 era stato da Carlo Felice chiamato a dirigere l'Accademia a Torino, muore nel '51. Il Biscarra che aveva studiato a Roma e aveva plagiato nel Caino il Delitto perseguitato di Prudhon, ebbe nella sua Accademia a direttore della scuola di disegno ornamentale quel Pelagio Palagi, bolognese, che nel '34 aveva osato nel reale palazzo di Torino e nelle ville di Pollenzo e di Racconigi distruggere tutte le delicatezze delle ornamentazioni Louis XV per sostituirvi le sue vuote classicherie lineari. Ma tutti costoro poterono prima di morire veder che nulla rimaneva loro fuor che gli onori. L'Hayez ormai trionfava, e il loro Olimpo color di mattone e sapor di niente era svanito. L'Hayez trionfava, e più che l'Hayez il popolo e la violenza del popolo trionfavano.

Ma perchè, per tanti anni la falsità e la imitazione e il gelo, contro ogni moda straniera, poterono seder sul trono e schiacciare ogni spontaneità di gusto? Non spetta a me in questa serie di letture definire le condizioni sociali, l'ambiente morale e politico dove l'arte ebbe a svolgersi, o meglio, dove l'arte ufficiale potè restare immobile.

Per quanto nel 1849 il Giusti rida amaramente della poca plebe sbrigliata in piazza, nel periodo che va dal '21 al '48, da quando a Modena Carlo Felice smentisce con celere prudenza la rivoluzione piemontese fino alle riforme del '47 e alle costituzioni del '48, l'aristocrazia e l'alta borghesia d'Italia non dettero che esempii di timorati desiderii platonici. Composte nel gesto e nelle parole, ammonite dalla brutta fine de' moti del '31 e del '33 esse si rammentano dell'unità e dell'indipendenza della patria quando sognano non quando agiscono. Il 1848 è stato voluto e ottenuto dal popolo: è bene rammentarlo. Uscito di prigione Silvio Pellico che, come il Tommasèo e il Cantù, s'era dato alla educazione, nei Doveri dell'uomo ha questo passo caratteristico: «Il progresso sociale verrà con le virtù domestiche e con la carità civile, o non verrà in alcun tempo. Lasciamo dunque stare le illusioni della politica, facciamo cristianamente quel bene che possiamo, ciascuno nel nostro circolo: preghiamo Dio per tutti e serbiamo il cuore sereno indulgente e forte.» Ci voleva altro, signori miei, e, in realtà, altro ci volle che la serenità e la indulgenza e la carità predicata dall'autore della Francesca da Rimini! Ai più franchi, come Massimo d'Azeglio, la tirannide interna premeva poco; l'importante era fare l'Italia con la libertà se era possibile, e, se no, anche col dispotismo, anche con l'aiuto dei principi, con la conciliazione di tutti gli elementi. Ma egli potè vedere che se gli individui non sono liberi, è inutile che sia libera la patria.

La scuola liberale lombardo-piemontese cui Pellico e d'Azeglio e Manzoni appartennero, e di cui – come disse il De Sanctis – Balbo fu il dottrinario, Gioberti l'oratore, Rosmini il pensatore, mettendo da parte la libertà come fine, volendo lasciare la società alle sue forze naturali perchè riescisse al progresso, respingendo ogni idea di violenza, sia che la violenza scendesse dall'alto, sia che salisse dal basso, non agitava che idee generali e larghe astrazioni e, soprattutto, era composta e misurata. Misurate e composte furono le classi dominanti finchè essa le dominò, cioè fino al 1848, cioè fino all'avvento della scuola democratica mazziniana.

Il neo classicismo che fu detto un involucro retorico mitologico, cioè una mitologia senza mito e una rettorica senza eloquenza – Camuccini, Landi, Benvenuti, Thorwaldsen, per non parlar che di quelli che verso il '30 sopravvivevano, – come poi il purismo minardiano, così placidi e frigidi, così lontani dalla realtà, così assestati, così teatralmente panneggiati o così misticamente diafani, poterono contentare formalmente quelle classi che uniche davano pane e lodi agli artisti. E specialmente lo poterono a Roma, dove fino a Pio IX non vi fu vita se non di antiquarî e di dotti pietisti, e specialmente a Firenze, che un grande critico disse essere a quelli anni soltanto «un passato illustre immobilizzato e regolato.» L'Arnaldo da Brescia, come tutti sanno, è del 1844.

Ho detto che il classicismo e il purismo poterono contentare formalmente le classi dominanti, perchè occorse la pittura romantica per appagarle anche con la sostanza.

La scuola liberale, considerando e studiando la società come una cosa reale e spontaneamente e indefinitamente progrediente, dovette interrogare, per giustificare la sua calma e benevola aspettativa, la logica della storia, cioè divenire una scuola storica. E la storia fu a base anche dei lavori di immaginazione e si videro pullulare i romanzi storici, le tragedie storiche, e le pitture storiche.

Certo, anche la pittura che si è convenuto di chiamare romantica, ebbe su lo scoppio della rivoluzione italiana un'azione molto indiretta: ma di ciò diremo quando avremo veduto che cosa essa sia, quali ne sieno stati i capi, e quali i gregarî. Paragonata alla letteratura romantica, ad essa manca il suo Manzoni. Francesco Hayez non ne fu che il Tommaso Grossi.

* * *

Alla fama se non alla gloria dell'Hayez giovò il momento storico che certo egli non creò, ma dal quale con versatile docilità si lasciò nella lunga onoratissima vita plasmare. La lettura delle sue Memorie purtroppo incompiute, sebbene esse non abbiano ne la vivacità fresca e inesausta dei Ricordi di Massimo d'Azeglio, nè la semplicità affettuosa di quelli di Giovanni Duprè, mostra limpidamente che egli è un pittore di transizione, non un rivoluzionario fanatico e fisso in ciò che egli creda essere la ideale verità infallibile. Troppi esempî di virile costanza e in letteratura e in politica e anche nelle belle arti – come vedremo parlando della scultura – in quei tempi avventurosi gli sorgono attorno, luminosi poli fissi a segnare la sua abile mobilità.

Egli che nel 1812, guidato dal marchese Canova, mandava al concorso dell'Accademia di Milano il Laocoonte famoso, tipo nel tema e nella tecnica di classicissima pittura, e nel '20 pure a Brera esponeva fra gli applausi il Carmagnola, e nel '30 i Profughi di Parga, eco degli entusiasmi filellenici, e nel 1848 firmava un autoritratto Francesco Hayez italiano di Venezia, e nel '67 mandava a Parigi la Battaglia di Magenta: è il vero riflesso pittorico delle vicende politiche intellettuali e sentimentali le quali mossero e commossero l'Italia nel periodo che oggi riassumiamo. È il vero filo direttivo nel labirinto delle opposte tendenze dei sogni che balzano d'un tratto in piena realtà, dei fatti che lampeggiano invano per un attimo e si spengono sotto la nebbia dell'utopia.

Dal classicismo lo svegliò il cannone degli Alleati, e l'impero napoleonico cadde mentre egli dipingeva sopra un'ampia tela Ulisse nella reggia di Alcinoo re dei Feaci, e riparò a Venezia dove stette tre anni a decorar sale di palazzi con lo stesso gusto tanto che nello studiolo del conte Zanetto Papadopoli dipinse Diotima che insegna a Socrate l'arte monocromata e Alcibiade nel gineceo quando è rimproverato da Socrate, dentro un fregio di amorini dove l'Amor feroce è simboleggiato dalla tigre, l'Amor leggero dalla farfalla, l'Amor forte dal leone, e così via!

Se egli non fosse stato quel pronto spirito che dicevo poco fa, voi vedete in quale palude si sarebbe annegato. Ma ode da Milano i richiami del vecchio suo amico Pelagio Palagi, e vi accorre ed espone il Carmagnola ed è salvo. Messosi così nella corrente, egli per sua ventura, non ne escirà più. L'ambiente è ben caldo; gli applausi, checchè egli poi ne scriva, lo confortano; l'amicizia con Tommaso Grossi lo esorta a perseverare.

Equilibrato compositore, direi quasi, con tutto il rispetto, coreografo sagacissimo, coloritore non oso dir veneziano, ma certo ammiratore dei Veneziani, disegnatore freddo ma onesto, poichè a Roma gli aveano ai primi anni diretto la mano gli inflessibili e impassibili neoclassici, ormai egli può abbandonarsi alla sua foga feconda, in gara coi letterati che han trovato il perfetto illustratore e lo chiaman fratello. Consigliere dell'Accademia di Brera, per qualche anno sostituto del Sabatelli cui poi nel 1850 succedette per trent'anni, ritrattista aulico di tutti i sovrani convenuti nel 1822 al congresso di Verona, protetto dall'arciduca Ranieri e dal Metternich da cui si vanta di essere stato a Vienna preso amichevolmente a braccetto, pittore nel soffitto della sala delle Cariatidi al palazzo reale di Milano quando si attendeva l'imperatore austriaco perchè cingesse la corona di ferro, se non fosse stato un pittore, sarei curioso di sapere come l'avrebbe giudicato il Guerrazzi. Ma in politica, anche nel 1899, ai pittori e agli scultori è permesso più di quel che sia permesso ai poeti, e io devo parlarvi solo della sua versatilità artistica. Certo è che quando nel 1872 Francesco Dall'Ongaro lo proclama giustamente il veterano della pittura italiana, a me par di vedere in quella parola veterano scritta dal glorioso reduce di Venezia una punta di benigna ironia.

Il Bacio è forse il quadro più noto dell'Hayez, e meritatamente. Il sentimento, anzi, l'impeto amoroso, non è stato segnato con altrettanta intensità in altri quadri di quell'epoca. Giulietta nella veste di un bel limpido azzurro è così abbandonata su le spalle e contro le labbra dell'amante, con gli occhi chiusi per la dolorosa delizia di quell'addio, e Romeo col mantelletto marrone con la maglia di color bucchero è così saldo a sorreggerla e leggiadramente virile, che anche oggi, a prima vista, nonostante il disgusto delle oleografie untuose che primamente ce lo hanno rivelato e la noia di tutte le romanticherie cantate per anni sotto la luna, ci commove, sebbene, per fortuna, non ci piaccia più.

E la commozione patetica fu appunto lo scopo di tutta quell'arte romantica. Il bello morale, come essi dicevano, è il loro Dio, e ogni scolaretto ripete dal Forcellini l'etimologia del bello, bellus, da bonellus cioè dal buono. La forma che nei classici era stata il fine, nei romantici diviene il mezzo per eccitare affetti. Tommaso Grossi appare allora superiore al Manzoni perchè egli fa piangere, Manzoni no. La così detta donna romantica è la sua fissazione; e la Fuggitiva, Lida, Ildegonda, Bice, Giselda sono il tema favorito dei pittori lacrimosi che, quando non furono l'Hayez, riuscirono spesso ad essere lacrimevoli.

Enumerare questi quadri dell'Hayez è impossibile e anche inutile. Di Imelda de' Lambertazzi, di Maria Stuarda, di Giulietta e Romeo, di Clorinda e Tancredi, della Congiura dei Fieschi, di scene delle Crociate da Pietro l'Eremita, alla Sete dei Crociati, egli fece tre, quattro, cinque variazioni in quadri grandi e in quadri a figure terzine, in bozzetti e in disegni. Così per i soggetti veneti, dal Carmagnola a Marin Faliero, da Vittor Pisani a Valenza Gradenigo, da Caterina Cornaro ai Due Foscari che voi avete qui alla vostra Accademia, egli fu di una attività da Briareo e di una varietà di combinazioni melodrammatiche degna di Felice Romani. E dall'estero le ordinazioni piovevano come le lagrime delle spettatrici. Nè perciò egli dimenticò i soggetti sacri, e anche, per tornare agli antichissimi, i soggetti mitologici. Ma per alcuno dei ritratti, massime per il suo agli Uffizi, essendo costretto a rendere il vero senza veli rettorici e patetici, egli merita di essere ricordato anche oggi. Quelli del marchese Lorenzo Litta, del conte Giovanni Morosini e di Antonio Rosmini, quando qualche volonteroso che forse non è lontano, farà la storia del ritratto nella pittura italiana, dovranno avere nel periodo che va dal '30 al '50 un posto d'onore. Così a Roma il Consoni, il Capalti, il Cochetti suoi contemporanei, non meritano una menzione per altro.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 октября 2017
Объем:
180 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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