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Читать книгу: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I», страница 3

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Più altri esempi ci offrirebbero e la poesia burlesca e la comica del Cinquecento, e nell'età di decadenza que' tali poeti con cui vedemmo che il Giusti per le qualità sue esteriori si ricongiunge. Il Fagiuoli, in quel suo interminabile profluvio di Capitoli slombati, ha qua e là, a sprazzi, dei quadretti di genere, dove la lingua fiorentinissima (e ben poco ci corre da quella d'oggi) colorisce graziosamente que' suoi fantoccini dal vero. E il Saccenti, dipingendo, pur dal vero, la vita di provincia degli ultimi tempi medicei; e il Pananti, la girovaga del Poeta di Teatro ne' primi decennii del secolo; e il Guadagnoli, la Toscanina patriarcale dell'ultimo Lorenese, e il tran tran di quel mondo che, secondo la comoda teoria del ministro Fossombroni, andava da sè; non vengon meno, nè il Saccenti nè il Pananti nè il Guadagnoli, – mentre il buon marchese Angiolo d'Elci seguitava tranquillamente a scrivere le sue Satire in classico stile – non vengon meno davvero al dizionario che sonava in bocca dei loro valdarnesi e mugellani, e dei fedeli abbonati d'anno in anno al prezioso lunario di Sesto Caio Baccelli. Diciamo altresì che certi dialoghetti del Sesto Caio (il Baccelli infreddato, per esempio, o il Baccelli zoppo, o dello stesso Guadagnoli il bozzetto villereccio di Gosto e Mea), certe scenette pur dialogate del Pananti (quelle con lo zio prete, i battibecchi dei commedianti fra loro e col poeta), se non raggiungono l'efficacia drammatica che il Giusti infonde in quei bozzetti mirabili delle Istruzioni a un emissario, della Spia dopo le riforme, dei dopopranzo di Taddeo e Veneranda, delle disperazioni della moglie di Maso nel Sortilegio, son tuttavia derivazioni dalla medesima fonte che il Giusti è poi parso aver egli disuggellata.

Se non che il Giusti fu, e doveva essere, messo sopra a quelli altri, perchè nessuno di essi seppe o volle adoperare e temperare la lingua del popolo toscano alle alte cose alle quali lui la indirizzava; e nessun d'essi altresì aveva nell'anima ciò che il Giusti ci aveva, e che espresse nelle poesie che ho chiamate sentimentali; All'amica lontana, Affetti d'una madre, La fiducia in Dio, Il sospiro dell'anima, A Roberto nel 1841, A una giovinetta nel '43, e in quella stupenda, nona rima fra il '46 e il '47 a Gino Capponi, dov'egli, in cospetto del rinnovamento italiano e delle speranze magnanime, pronuncia il non sum dignus d'essere il censore del suo popolo risorto e ringiovanito. È il Giusti, che gareggiando con lo scalpello del Bartolini, scolpisce in un verso

 
quasi obliando la corporea salma
 

l'abbandono in Dio di chi non ha più altra speranza quaggiù. È del Giusti quella sublime espressione de' suoi ardimenti e sgomenti d'artista:

 
Sdegnoso dell'error, d'error macchiato,
or mi sento co' pochi alto levato,
ora giù caddi e vaneggiai col volgo!
 
 
E anch'io quell'ardua imagine dell'arte,
 
 
che al genio è donna, e figlia è di natura,
e in parte ha forma della madre, e in parte
di più alto esemplar rende figura;
come l'amante che non si diparte
da quella che d'amor più l'assicura,
vagheggio, inteso a migliorar me stesso,
e d'innovarmi nel pudico amplesso
la trepida speranza ancor mi dura.
 

Sono del Giusti, o Signore, di questo poeta degli Scherzi, i versi più belli forse ne' quali abbia mai parlato la madre al figliuolo:

 
Goder d'ogni mio bene
d'ogni mia contentezza il ciel ti dia;
io della vita nella dubbia via
il peso porterò delle tue pene.
Oh se per nuovo obietto
un dì t'affanna giovenil desìo,
ti risovvenga del materno affetto!
nessun mai t'amerà dell'amor mio.
E tu nel tuo dolor solo e pensoso
ricercherai la madre, e in quelle braccia
nasconderai la faccia;
nel sen che mai non cangia avrai riposo.
 

Di cotesta vena, che in quelli ed in altri suoi versi si effonde, talvolta, se volete, con un certo languore lamartiniano, ma altresì con una delicatezza d'imagini e soavità di concetti e nitidezza di frase, che li sollevano di gran tratto dalla comune maniera di certo romanticismo morboso; di cotesta, che è poi soprattutto vena d'affetto gentile; non c'è quasi poesia delle sue satiriche che non ve ne trapeli qualche stilla: in alcune poi, come nel Sant'Ambrogio, l'affetto è la nota dominante. Ben a dritto si sentiva egli lieto d'avere «di carità nell'onde temprato l'ardito ingegno, e tratto dallo sdegno il mesto riso.»

E più che io ripenso a tuttociò, e come questo sia uno dei distintivi nobilissimi della sua poesia, meno mi capacito, anche solamente per questo, come «scrittore di piccola mente» potesse (dispiace ricordarlo) potesse parere Giuseppe Giusti a Niccolò Tommasèo. E si avverta che il Tommasèo stesso, scrivendo al Capponi, riconobbe «elaborate e maestrevoli» le poesie del Giusti, vide in quel lavorío i «belli e svelti panneggiamenti dell'arte»; contuttociò, gli parve che negli sdegni e sogghigni «del poeta, il cuore non parlasse». E pregò il Capponi ad ammonirnelo: ma il Capponi, come vedemmo, d'altro sì l'ammonì, ma non di questo. Nè so invero chi possa, pur reverente all'autorità del Tommasèo, consentire con lui in cotesti giudizi. Poteva il Tommasèo trovare difetti, magari più difetti che virtù, nelle poesie del Giusti; la stessa sorte ebbero, presso l'austero critico, il Foscolo e il Leopardi: potevano offenderlo certe, come egli disse, «celie profane», e metteva fra queste anche il combinarsi alcune bizzarrie metriche, che al Giusti avean fatto comodo, con l'innodia popolare della Chiesa. Ma «scrittori di piccola mente» e senza espansione di cuore, erano rimasti gli altri satirici toscani, dai quali il Giusti si staccò, come vedemmo, e si sollevò: in lui, anche sottoposto a giudizio, non che severo, acre, è debito riconoscere altezza di mente, finezza d'arte, potenza di sentimento; e fra i restitutori della italianità, nel secolo che doveva finalmente veder rivendicata l'indipendenza e l'unità d'Italia, segnare con sicura mano il suo nome. Non faremo che sottoscrivere una sentenza di Alessandro Manzoni.

Il nome suo di poeta. Come prosatore, è minore d'assai; e francamente può dirsi che nelle sue prose, troppo spesso prevalga la maniera all'ispirazione. Le hanno esaltate oltre il dovere quei teorici della lingua parlata che dicevo poco fa. Stando ai loro criteri, si sarebbe dovuto scriver tutti a quel modo, e concluderne che solamente dopo sei secoli la lingua nostra avesse sciolto lo scilinguagnolo. Era un po' forte ad ammettersi; e quel vampo scolastico ha cominciato da un pezzo a dar giù. Io credo che il Giusti non avrebbe ambite lodi consimili, e che sopra teorie di tal fatta ci avrebbe architettato volentieri uno di que' suoi scherzi, coi quali ironeggiò sopra altre utopie non più fondate di questa. Del resto, la prosa sua la martellava, e come! Tormentava persino le lettere che scriveva agli amici; e il suo Epistolario, anche quando il Martini e il Biagi ce lo avranno dato genuino ed intero, seguiterà a farne testimonianza, anzi più espressa e sensibile. Quei difetti che abbiamo sentito il Capponi rilevargli, e che egli riconosceva, nella prosa stridono anche di più: perchè sono difetti (come il Capponi dice) di squisitezza; e la poesia, anche la familiare e satirica, consente alquanto più, che non la prosa, la ricerca del non comune, nel che appunto sta (come il vocabolo stesso significa) la squisitezza. Non è qui il caso nè il luogo: ma se volessimo esemplificare, sia dalla prosa sia anche dai versi, si farebbe capo le più volte ad abusi di locuzione figurata, con elementi non sempre coerenti fra sè e col soggetto, qualche altra volta a frasi e costrutti un po' sforzati; come pure non è lodevole certo scintillío di concetti continuato, che finisce con l'ingenerare stanchezza e monotonia. Tuttavia il Camerini, che fa anch'esso' quest'appunto della squisitezza, ha altresì queste parole: «Ma quella lettera a Drea Francioni dalle montagne pistoiesi, che finisce con la mirabile dipintura del ballo villereccio in casa del notaro, è bella come le sue più belle poesie.» E dice bene.

V

Nè per ultimo possiamo, anzi non dobbiamo, dimenticare ch'egli morì a quarant'anni. Morì col presentimento che la sua poesia fosse finita con lui, ed augurando che fosse. «Sento» scriveva nel '47, ma però nell'atto di raccogliere i suoi versi, «Sento che questo modo di poesia comincia a essere un frutto fuori di stagione, e vorrei elevarmi all'altezza delle cose nuove che si svolgono dinanzi ai nostri occhi con tanta maestà d'andamento… Se mi darà l'animo di poterlo tentare, certo non me ne starò: se poi non mi sentissi da tanto, non avrò la caponeria d'ostinarmi a sonare a morto in un tempo che tutti suonano a battesimo». E nel '48, preparando un'altra edizione, che doveva pur troppo uscir postuma nel '52 per cura del Capponi e del Tabarrini: «Perchè dovrei ostinarmi a straziare chi s'è corretto, se io appunto non desiderava altro che tutti ci correggessimo? E vero che agli errori e ai vizi di tempo fa, sono succeduti i vizi e gli errori delle cose recenti: ma io, lieto di vedere aperta la via del bene, non ho più cuore di menare attorno la frusta; e col mio paese ringiovinito, ritorno anch'io ai sogni sereni e alla fede benigna della primissima adolescenza. E questa fede posso dire non essersi spenta mai nell'animo mio; e il non aver derisa la virtù, e la stessa mestizia del verso sdegnoso, spero che valga a farmene larghissima testimonianza». Erano i giorni de' quali l'amico Panzacchi ha evocato qui, o Signore, dinanzi a Voi la giovinezza e la poesia; e in quei giorni appunto, il Giusti con parole di cittadino e d'artista, degni l'uno dell'altro, aggiungeva: «Ora che il popolo, eterno poeta, ci svolge dinanzi la sua maravigliosa epopea, noi miseri accozzatori di strofe, bisogna guardare e stupire, astenendoci religiosamente d'immischiarci oltre nei solenni parlari di casa. L'inno della vita nuova si accoglie di già nel vostro petto animoso, o giovani, che accorrete nei campi Lombardi a dare il sangue per questa terra diletta: ed io ne sento il preludio e ne bevo le note con tacita compiacenza. Toccò a noi il misero ufficio di sterpare la via; tocca a voi quello di piantarvi i lauri e le quercie, all'ombra delle quali proseguiranno le generazioni che sorgono. Lasciate, o magnanimi, che un amico di questa libertà che vi inspira la impresa santissima, baci la fronte e il petto e la mano di tutti voi. L'Italia adesso è costà: costà, ove si stenta, ove si combatte, e ove convengono da ogni lato, quasi al grembo della madre, i figli non degeneri, i nostri primogeniti veri.»

Primogenitura di cuore e di braccio, che, nonostante tutto, si è continuata sino ai dì nostri; e che, oggi compion tre anni, sul campo doloroso ma glorioso di Adua rese nuova testimonianza di fede e di sangue all'Italia e alla Civiltà. E se a me fosse lecito evocare dai sepolcri la immortale poesia della patria, oggi dal colle di San Miniato, memore della gloria di Firenze repubblicana, le ossa di Giuseppe Giusti manderebbero, fremendo, a quei valorosi il saluto d'Italia madre; e la voce, con la quale il Poeta accompagnava le prime battaglie per l'indipendenza, echeggerebbe sino a quelle plaghe lontane, dove i nostri figliuoli e fratelli, obbedendo alle leggi della patria, son caduti sotto la stessa bandiera.

Quella voce, per essere non atteggiata in misura di verso, non era però meno voce di poeta. Chè del resto, la musa del Giusti, e in quel tempo lieto e nel triste che poi subito sopravvenne (e le cui tristezze rimuginò egli, nelli estremi del viver suo, in pagine di Cronaca dolorose) la musa sua non sofferse già di tacere affatto. E come a Leopoldo secondo aveva, per le Riforme del '47, rivolto l'omaggio del libero verso,

 
Signor, sospeso il pungolo severo,
a te parla la Musa alta e sicura,
la Musa onde ti venne in pro del vero
acre puntura;
 

così in quell'effimero barattarsi di libertà infida e di licenza sconclusionata, che ricondussero tragicamente questa e le altre parti d'Italia, salvo il predestinato Piemonte, nell'antica miseria, il Giusti alle rime sentimentali, di cui pur di quel tempo lasciò tra le sue carte frammenti bellissimi, altre ne alternò della sua vecchia maniera, come la Repubblica (a Pietro Giannone); il Deputato (a Rosina); e (finiti o sbozzati) quei dialoghetti d'una supposta commedia, Granchio e Ventola, Trippa e Ganghero, Crema e Vespa; e i Sonetti epigrammatici, le Maggioranze, l'Arruffapopoli, scoccati fra una seduta e l'altra del parlamento toscano in Palazzo Vecchio; ed anche qualche svolazzo lirico d'un inno patriottico, rifioritura d'altro simile tentativo fatto da studente pei moti del '31. Non può dunque dirsi, che dinanzi alle cose grandi la sua poesia, che di tante piccinerie aveva fatta giustizia, si tenesse in disparte; nè molto meno gli si attaglia la similitudine trovata dal Guerrazzi, di Sansone che, dopo avere scosse le colonne del tempio, si ritragga impaurito de' calcinacci che cascano. Dopo il '48, non cascarono calcinacci, pur troppo: furono rovine, e non di ciò che il Giusti aveva cooperato a demolire, ma di quello che e il Giusti e il Guerrazzi, e tutti i preparatori, avevano per modi diversi faticato a mettere in piedi.

Altre rime poi, fra il '48 e il '49, hanno il sentore d'una maniera nuova, che senza sguagliar troppo dallo stile ormai caratteristico del Poeta, procede più severa e composta, parineggiando quasi, ma sempre con vivacità toscanissima. Di questo nuovo atteggiarsi della poesia giustiana è singolare documento l'Ode dello scrivere per le gazzette, dov'egli promette a sè medesimo che non più

 
in aperto motteggio
travierà la rima,
 

mentre pur vuole «ripigliare il pungolo», che nella beata illusione de' nuovi tempi avea creduto poter deporre: e si volge attorno, e vede la demagogia pullulata

 
come in pianura molle
scoppia fungaia marcida
di suolo che ribolle;
 

e da cotesto brutto spettacolo l'anima sua vola, e vola la strofa, alata veramente, all'ideale, da quei sozzi vapori ottenebrato, all'ideale della patria:

 
O veneranda Italia,
sempre al tuo santo nome
religïoso brivido
il cor mi scosse, come
nomando un caro obietto
lega le labbra il trepido
e riverente affetto.
Povera madre! il gaudio
vano, i superbi vanti,
le garrule discordie,
perdona ai figli erranti;
perdona a me le amare
dubbiezze, e il labbro attonito
nelle fraterne gare.
Sai che nel primo strazio
di colpo impreveduto,
per l'abbondar soverchio
anche il dolore è muto;
e sai qual duro peso
m'ha tronchi i nervi e l'igneo
vigor dell'alma offeso.
Se trarti di miseria
a me non si concede,
basti l'amor non timido
e l'incorrotta fede;
basti che in tresca oscena
mano non pòrsi a cingerti
nuova e peggior catena.
 

I primi versi di questa tenera filiale apostrofe sono stati scolpiti sulla base del monumento che fra i dolci colli del suo Monsummano lo ricorda ai credenti ancora nella religione della patria. Nè vi si leggono senza commozione, nè senza pensare che forse era quella (a me par di sentirlo con sicurezza) la forma evolutiva che ne'tempi novissimi avrebbe assunta la sua poesia. Que'tempi egli non vide, morendo sull'inizio del salutare decennio espiatorio, che ci condusse al '59. Le stanche ossa del Poeta posarono nel bel colle di San Miniato; e sulla tomba la parola del suo Gino attestò il compianto e l'onoranza d'Italia, per avere,

con arguto stile castigando i vizi senza toglier fede a virtù, inalzati gli uomini al culto dei nobili affetti e delle idee generose.

Mancò a quel decennio l'ammonimento del mesto e cruccioso suo verso; mancò ai giorni delle pugne supreme e della vittoria il suo canto augurale. Così non paia, o Signori, che sia mancata alla decadenza delle libere istituzioni, all'obliosa ingratitudine dei dopo venuti, all'offuscamento de' principii di moralità civile, all'infiacchimento delle energie d'una nazione che ahimè troppo presto sarebbe esaurita, sia mancata la educatrice satira del Poeta, il quale non avrebbe accettato gli si raddoppiassero gli anni brevi di vita concessigli, se avesse dovuto ripigliare da vecchio, non più il pungolo d'Orazio sopra una società intorpidita e restìa, ma il flagello di Giovenale sopra una degenerazione di cittadini che tradissero le sante speranze della patria, per virtù di Re e di Popolo, dopo secoli di pianto e di sangue, a sè medesima restituita.

Firenze, 1º marzo 1899.

G. G. BELLI E LA VITA ROMANA

CONFERENZA
DI
ALFREDO BACCELLI
I

Per intendere e giudicare convenientemente l'opera poetica dialettale di Giuseppe Belli occorre rievocare il quadro della vita romana quale fu dal 1830 al 1848, seguire il corso della vita di lui, penetrare nell'anima sua e comprenderla.

Roma si riassumeva allora nel Vaticano. Il supremo Pontefice, candido nella veste e magnifico, circondato dalle porpore cardinalizie e dallo stuolo solenne dei prelati, difeso dalla cavalleria dei dragoni dall'elmo crinito e lucente, appariva alle turbe come l'immagine della potenza divina in terra; e allo splendore delle forme esteriori rispondevano la forza e l'autorità che non conoscevano limite o legge.

La necessità di accrescere prestigio ai ministri della religione e di attrarre genti ed oro alla basilica universale aveva moltiplicato le feste e gli apparati; dal Corpus Domini a San Pietro, dal Natale e dall'Epifania alla Pasqua erano sempre cerimonie, scampanii, processioni: di quando in quando canonizzazioni, beatificazioni, pellegrinaggi.

Il giorno di Pasqua, dopo la messa, era solenne la benedizione del Pontefice dalla loggia Vaticana. Sulla piazza formicolavano migliaia di persone. A un tratto il crocifero entrava sulla loggia, e si faceva profondo silenzio. Tra i flabelli, sulla sedia gestatoria appariva il Pontefice, e, levata la mano, benediceva il popolo: le sacre parole sembravano squillare nel silenzio della piazza gremita. Dopo la benedizione tonava il cannone, s'alzava il rullo del tamburo, squillavano le trombe. Quasi abbracciati dalle due curve delle colonne vaticane, i cattolici di fuori commossi adoravano il Pontefice-Dio: i romani ammiravano lo splendore della festa ma argutamente sorridevano. Sorridevano, perchè quel papa divino essi lo conoscevano per un beone volgare, quella mistica benedizione vibrante di cristiano amore la udivano dalla bocca di colui che ordinava supplizi e prigionie; e i cardinali amavano le belle, gli alti dignitari vendevano cariche e favori.

Lo spirito simoniaco del clero cattolico, che aveva un tempo acceso i primi fuochi della Riforma, era giunto nella Chiesa di Roma al guadagno quotidiano. Basti rammentare che fino per la benedizione delle bestie il calendario notava il suo giorno: quello di Sant'Antonio; e si davano candele e si pagavano quattrini; e il privilegio, poichè tutto era privilegiato, di benedire asini, porci e capre lo godeva la confraternita di Sant'Eligio dei Fabbri-ferrai1.

Ma perchè fossero meglio allettati i forestieri che venivano nella metropoli e fosse rallegrato il popolo (dare panem et circenses), alle feste sacre si alternavano le feste profane.

Le ottobrate romanesche, come le maggiolate fiorentine, invitavano ai campi; ma poichè l'agro romano non si allieta di floridezze agresti, le gite avevano per fine i pranzi nelle osterie. Nelle botti o nei legni a quattro posti le minenti, avvolte le spalle ampie e matronali nei fazzoletti di seta dai colori vivaci, col seno opulente, costretto da una vita pure di seta, splendevano per collane, orecchini e fermezze d'oro. In altre carrettelle, divisi dalle minenti, sedevano i popolani, con le giacchette e i calzoni di velluto. Sul cappello fiori: e un cantare, un gridare, uno stamburare da per tutto. Ma poi dal vino le risse; luccicavano i coltelli, il sangue scorreva: le guardie del Papa non se ne curavano.

Non meno delle ottobrate erano famosi i carnevali romani. I carri con le maschere si commentavano come avvenimenti: le battaglie di fiori e confetti servivano per accendere gli amori, e sullo scalinone del palazzo Ruspoli nel Corso andavano a sedere, nascoste dalla maschera, signore nobili e belle; Massimo D'Azeglio ne sapeva. La corsa dei barberi entusiasmava il popolo, e i moccoletti spenti e riaccesi l'ultima sera come una miriade di lucciole illuminavano la morte del buon umore. Dopo, quaresima e digiuni. I romani avrebbero meglio tollerato qualche nuovo reggimento francese o una gabella di più, che il divieto del carnevale.

Si tentava così di distrarre verso le esteriorità delle feste l'animo dei romani: si dava sempre pascolo all'occhio perchè il cervello non avesse tempo di pensare. Guai, se avesse pensato!

Le leggi non si rispettavano; i privilegi e i monopoli più odiosi si concedevano ai favoriti del clero. Tutto e tutti dovevano cedere alla tirannia del prete, che con la forza della religione dominava nelle pareti domestiche, con la forza del governo sulle vie e sulle piazze. Non solo l'atto, ma la parola, il pensiero, il sentimento erano spiati e sorpresi e violentati; una mano di ferro intollerabile comprimeva propositi e palpiti: la dignità calpestata, la vita pubblica sepolta, le attività intellettuali imprigionate, gli affetti domestici insidiati. Sacerdoti onesti e buoni non mancavano; ma l'eccezione conferma la regola. Mastro Titta, il carnefice, eseguì in 68 anni 517 pene capitali; le prigioni rigurgitavano; gli esilî erano quotidianamente comandati.

Papa Gregorio, dal naso rosso e bitorzoluto per l'eccesso del bere, reazionario, freddo, crudele, proibiva gli asili d'infanzia, non permetteva la costruzione delle strade ferrate e financo vietava ai vetturini di percorrere più d'una determinata distanza al giorno.

Con questa mente e con questo cuore, governava i Romani. Il suo primo ministro un tiranno: il cardinale Lambruschini; il suo favorito un volgare: Gaetanino Moroni; il suo tesoriere uno sciocco: il cardinal Tosti.

I fasti della Corte e del Clero e le pensioni a principi e cardinali pesavano aspramente sul popolo; l'erario era esausto; s'imponevano nuove gabelle, la rapace mano regia colpiva fulmineamente i cittadini, e non si esitava a contrarre debiti all'enorme tasso del 65 per 100.

Ai tentativi rivoluzionari del 1830 e del 1831, soffocati dalla reazione più crudele, successero la carestia e il colèra del 1837.

Nè ai danni morali e materiali potevano riparare i romani. Essi non conoscevano industrie, non conoscevano commercio: le campagne squallide e deserte, la città muta e senza popolo. Gli studi scientifici tarpati e rinviliti dal dogma e dallo spirito retrivo; le arti e le lettere languenti. Ai romani il governo papale, per dominare sicuro con le baionette straniere, aveva vietato la genialità sapiente che sa far valere il giusto e l'onesto, il virile esercizio delle armi che tempra il carattere e prepara alle lotte, la produttività economica che dà i quieti agi e la indipendenza. Così Roma, se pur avesse voluto insorgere, non avrebbe saputo come nè con quali mezzi: e se voleva vivere, doveva ricevere il pane dal principe padrone o dalla bottega ecclesiastica.

Nè erano onesti i costumi. Migliaia di preti e frati, non sapendo o non potendo vincere i cattivi istinti, diffondevano la corruzione e dovevano, per difendersi, ricorrere alla violenza o alla ipocrisia. Il malo esempio dalle più alte cime discendeva alle radici: dal cardinale, al monsignore, al curato, al prete; dalla principessa, alla ricca borghese, alla popolana. Non mancavano nobili dame che concedevano agli umili i proprî favori: molte avevano più d'un amante: non rari mariti conoscevano e accettavano la protezione ecclesiastica sulla moglie: la facile concessione si pagava con doni o con sussidi; e se una ragazza si sentiva madre e invocava l'aiuto del curato o d'altro prete, ben dotata andava a marito.

Le vie della città sudicie: non decoro edilizio, non cura d'igiene, non comodo moderno. La notte rari lumi rompevano le tenebre delle viuzze tortuose: qua e là Madonne e Santi con lampade accese. I ladri imperavano da padroni, assalendo e depredando case e viandanti, senza che il Governo si curasse di proteggere la vita e gli averi dei cittadini. Il coltello sempre lampeggiante nelle osterie; il turpiloquio diffuso. Pei delinquenti volgari pietà negligenza; pei politici rigore tirannico; la libertà al ladro transeat, ma al giacobino non mai.

Quale, in cotesta vita, doveva essere la natura del popolo?

Il clima umido e molle, l'aria grave e non avvivata da ossigeno di piante, e forse anche l'eredità per l'ozio e l'abbandono secolare facevano il romano grave e neghittoso. Egli aveva retto giudizio, buon senso, intuito della convenienza, ma non conosceva vivacità ed entusiasmo. La storica grandezza lo aveva fatto superbo, il governo papale ignorante ed ozioso.

I romani erano grandi di animo: davano generosamente e non temevano la morte. Il decus antico come era rimasto nella linea del volto e del fianco muliebre, così era rimasto nel sentimento e nel tratto virile, ma sforzato e falsato e contorto dai mali influssi clericali; la dignità era degenerata in rozzezza. Festaioli e ridanciani, duri nella forma e propensi al lazzo, amavano il bel tempo e lo scialo, odiavano l'attività laboriosa. Eleganza di vita, squisitezza di sentimento, cortesia di forma non sapevano che fossero.

Erano troppo evidenti i vizi del clero e l'artificiosa esaltazione di santi e d'immagini miracolose perchè potesse fiorire nel cuore del popolo la fede pura che fa grandi e onesti: come l'idolatria sensistica era stata sostituita alla mistica adorazione dello spirito, la fede cedette il luogo alla superstizione. L'ignoranza e la fantasia diedero a questa corpo ed ombre; e da ciò leggendari timori, stregonerie e chimere.

L'ozio generava la mendicità, che governo e ambiente fomentavano: fare il povero era un'industria, si prendevano più che ora in affitto i bimbi per impietosire i passanti.

Così fatto dalla natura e dal corso degli avvenimenti, quale doveva mostrarsi il popolo romano di fronte al governo tirannico e tristo?

Aveva luce d'intelligenza e forza di senso morale per conoscere i mali profondi e dolersene: l'acume del retto giudizio gl'insegnava diagnosi e critica: ma il difetto di vivacità e d'infiammabilità non gli concedeva di appassionarsene, mentre la neghittosità naturale e l'abito dell'ozio gli vietavano di pensare al riparo e di porre in atto i propositi. La superbia soffocava il lamento, l'apatia spegneva l'ira. Che poteva restare? Quella che nella tradizione storica germogliò spontanea nell'animo dei romani, dalle antiche atellane alle moderne pasquinate: la satira.

Il popolo di Roma rideva amaramente, e sferzava a sangue uomini e costumi, non senza, talvolta, qualche tenue vena di humour, soffio moderno nello spirito antico. E nel periodo in cui visse il Belli, una maschera originale riassumeva la satira: quella di Cassandrino, impersonata in Filippo Teoli. Filippo Teoli era un orafo che il giorno lavorava ed osservava dalla sua bottega sul Corso, e la sera, di fronte al Caffè Ruspoli, nel Teatro Fiano, muoveva le sue marionette, motteggiando e deridendo. «Cassandrino (annota il Belli a un suo sonetto), l'attuale maschera, consiste in un vecchietto vestito alla moda dei nostri avi, alquanto ignorante ma arguto molto e fecondo di popolali facezie, che esprime con una voce veramente atta a muovere le risa»2.

Tale era la vita che si offriva a Giuseppe Belli come fonte della sua poesia dialettale.

II

Giuseppe Belli (Gioacchino non è che uno degli ultimi nomi impostigli al fonte battesimale) nacque in Roma il 7 settembre 1791 da Gaudenzio e da Luigia Mazio: gli antenati paterni erano stati computisti: il padre, con maggior fortuna e decoro, aveva intrapreso il commercio. Durante i rivolgimenti politici, poi che il generale Valentini, dalla famiglia Belli ospitato e occultato, fu dai Francesi mandato a morte, essa fu costretta a fuggire. Ma, passando la notte in un albergo del Regno di Napoli, fu derubata di diecimila scudi, cioè di tutto quanto possedeva. E in Napoli l'attendevano nuovi pericoli e stenti.

Se non che, tornato in Roma il pontefice Pio VII volle compensare il fedele amico, e Gaudenzio Belli ottenne un lucroso ufficio nella darsena di Civitavecchia. Allora i parassiti si addensarono intorno a lui: egli, generoso, li ospitava, e la sua casa risonava di feste e di risa, aperta a conviti di allegre brigate. Il piccolo Giuseppe, austeramente trattato dal padre, non si compiaceva di quei chiassi e di quel vivere grasso e ridanciano: anzi, melanconico, cercava la solitudine, fantasticava sentimentalmente la sera presso la riva del mare, e sovente si ritrovava cogli occhi umidi di pianto.

La famiglia ebbe a patire un nuovo furto di settemila scudi da sette grassatori mascherati, presso Civitavecchia, e così il futuro poeta satirico cominciava a conoscere per esperienza propria come fossero difesi le persone e gli averi dei cittadini dal governo pontificio.

Egli, sebbene severamente trattato, si mostrava poco attento e volenteroso nello studio del latino; ne le pene gravi (per essersi ritenuto un soldo il padre lo rinchiuse per tre giorni in una camera buia) gli corressero l'umore alquanto acre e vendicativo.

Frattanto, invasa la darsena da una mortale epidemia, Gaudenzio, prodigo della vita come già delle sostanze, si diede a curare i galeotti e a tentar ripari contro il flagello; ma prese egli stesso il contagio e ne morì.

Qui cominciarono disagi e dolori; Giuseppe, mandato alla scuola, studiava e vinceva i compagni, ma era insofferente delle battiture, metodo scolastico allora in voga; e non volendo sopportare una ingiusta pena abbandonò la classe.

Nel 1807 perdette la madre; ed eccolo, giovinetto appena, costretto a pensare alla famigliuola orfana e a soffrire amaramente della pietosa ospitalità dello zio, che gli faceva sentire tutto il peso della concessa elemosina. L'umore malinconico e gli avvenimenti lo venivano così formando pessimista.

Occupato, nella computisteria del Principe Rospigliosi, accenna a prendere la via dei disordini e a frequentare le male compagnie; così si eccita e si anima, e nel pessimista si prepara il sarcastico motteggiatore. Ma torna poi ai savi propositi. A 17 anni scrive i primi versi, italiani, che, come tutti gli altri italiani scritti dopo, erano senza impeto di sentimento, senza gagliardia di pensiero, senza grazia di forma.

1.Belli, II, 326.
2.Belli, III, 177.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 октября 2017
Объем:
180 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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