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3 Ripensare la dinamica delle opposizioni parlato/scritto: processi e prodotti

Il modello di Koch e Oesterreicher, pur relativamente noto anche in Italia, è stato tuttavia usato da pochissimi autori italiani (tra cui, per es., Palermo 1994; Berruto 2005) e la questione della differenziazione parlato/scritto è stata affrontata in modi un po’ diversi a seconda degli ambiti di ricerca.

Il confronto puntuale tra parlato e scritto, al di là di eventuali premesse sulla priorità della lingua parlata su quella scritta (cf. De Mauro 1971), non è stato di norma oggetto di indagine nell’ambito delle principali ricerche sul parlato apparse in Italia tra gli anni ’80 del secolo scorso e il primo decennio del nuovo secolo (cf. Sornicola 1981; Voghera 1992; Bazzanella 1994; Cresti 2000; Albano Leoni 2009), mentre lo è stato più spesso in quelle su testo e testualità (per es., Lavinio 1990, 31, che rielabora lo schema di Gregory 1967, 681; Bernardelli/Pellerey 1999, 53–62) e in quelle esplicitamente dedicate alla scritturalità (per es., Serianni 2003, 13–22). Le ragioni di questa differenza appaiono abbastanza ovvie considerando che nella contrapposizione parlato vs. scritto il polo marcato è naturalmente lo scritto, non il parlato, ed è dunque lo scritto che ha più spesso maggior bisogno di definirsi rispetto al parlato che non viceversa.1 Una procedura di analisi diversa è ora invece in Voghera (2017), che dimostra e argomenta la grammaticalità del parlato anche attraverso il confronto sistematico con testi scritti appartenenti a generi diversi, cosa che le consente di evitare in partenza alcune insidie sulle differenze tra parlato e scritto di cui tratteremo più avanti.

È comunque sul versante sociolinguistico italiano che la questione parlato/scritto è stata da più tempo oggetto di discussione (Voghera 2017, 9), soprattutto in un’ottica variazionista, cioè in termini non di testo/discorso ma di varietà di lingua all’interno del diasistema. È infatti in quest’ambito che è nato e si è affermato il concetto di ‘diamesia’, termine coniato da Mioni (1983; se ne veda la discussione critica in Berruto 2012 e Pistolesi 2015) per indicare una quinta dimensione di variazione, dipendente dal mezzo e dal canale. Il termine è ormai stabilmente entrato nel lessico della linguistica (in lingua) italiana, benché alla fortuna terminologica non corrisponda ancora, allo stato, una soddisfacente integrazione teorico-pratica rispetto alle altre quattro più note dimensioni di variazione (diacronia, diatopia, diastratia e diafasia). Infatti, dati anche i particolari problemi posti dalla storia linguistica dell’italiano, se in un primo tempo la diamesia finiva spesso per venir sovrapposta soprattutto alla diastratia (cf. Voghera 1993, 32–35), oggi è con la diafasia che la diamesia rischia più spesso di confondersi (cf. Berruto 2012, 25 e 54–57; Pistolesi 2015). Sono interessanti, in questo senso, anche le diverse soluzioni grafiche adottate da Berruto per rappresentare le diverse varietà dell’italiano (cf. Berruto 1987 e 2012, 24 vs. 2011, 1551), così come le domande che pone l’incerto statuto diamesico delle scritture digitali quale trapela per es. dal confronto dei grafici di Antonelli (2011, 51 vs. 2016, 238) proposti come aggiornamento di quelli di Berruto (pubblicati nel 1987, poi riproposti in Berruto 2012, 24). La questione delle pertinenze della diamesia rispetto alle altre dimensioni di variazione è quindi, in breve, un problema ancora aperto.

Pur non potendo parlare, tecnicamente, dell’esistenza di veri e propri ‘modelli’ italiani da considerare alternativi a quello di Koch e Oesterreicher, si ha tuttavia l’impressione che la procedura generalmente preferita (soprattutto in ambito didattico) per caratterizzare il parlato di contro allo scritto sia, o sia stata, spesso, un po’ sulla falsariga dello schema-continuum in Lavinio (1990), quella basata sull’ideale contrapposizione di uno specifico formato di discorso parlato da considerarsi (proto)tipico2 con un più generico formato di testo scritto da considerarsi anch’esso (proto)tipico,3 così da individuare il massimo possibile di differenziazione tra parlato e scritto attraverso il minor numero possibile di tratti.4 Si tratta di un procedimento che comporta però diversi problemi che, oggi, nell’era degli ipertesti e delle scritture digitali, si palesano in modo molto più evidente rispetto al passato. Tra questi, per esempio, il rischio sempre in agguato di far scivolare il prototipico in stereotipato e quello di far apparire in qualche modo ibridi, e comunque molto marcati, anche un certo numero di formati di discorso e di testo (sia parlati che scritti) in realtà non così marcati e inusuali nella normale vita linguistica del parlante. Senza bisogno di richiamare il digitale e i nuovi media, basti pensare al parlato dialogico spontaneo tra estranei, di solito assai più formale e controllato rispetto a quanto di norma avviene tra amici e familiari, oppure alle scritture informali spontanee tra amici e familiari. Il fatto è che si ha ormai a che fare con società fortemente alfabetizzate che hanno da tempo interiorizzato la scrittura, e che sperimentano già da un secolo particolari forme di oralità secondaria o ‘di ritorno’ che non potrebbero esistere senza la scrittura. Gli sviluppi attuali della rivoluzione digitale, con tutti i loro effetti dirompenti nell’ambito della comunicazione (compresa la nascita di nuovi generi di discorso), avvengono cioè in un mondo già profondamente rivoluzionato dal precedente passaggio dalla cultura tipografica a quella elettronica (telecomunicazioni) e in cui oralità e scrittura sono, da più tempo ancora, già notevolmente intrecciate e interdipendenti (Ong 2002, 132–135; Palermo 2017, 15–50). Ciò significa che le contrapposizioni parlato/scritto di tipo massimalista richiederebbero comunque qualche ripensamento, anche a prescindere dalla rivoluzione digitale e dall’avvento dei nuovi media. E, a maggior ragione, appare più adeguato o accorto l’impianto gerarchicamente molto articolato del modello di Koch e Oesterreicher. La sua dimensione concezionale (2007, 25–35; per la sua dimensione mediale cf. paragrafo 5), per esempio, si presenta, sì, anch’essa, attraverso coppie di parametri contrapposti (come pure si farebbe in rappresentazioni di tipo massimalista, per es. spontaneità o elaborazione in tempo reale vs. pianificazione), articolate però in sottogruppi (condizioni comunicative e strategie di verbalizzazione) e interrelate non più all’interno dell’opposizione fra parlato e scritto, ma all’interno di quella più ampia tra vicinanza e distanza comunicative. Il continuum Nähe/Distanz è infatti pensato come un ‘supercontinuum’ che è sintesi finale di più (sub)continua diversi, e il cui scopo ultimo non è la sintesi generale delle differenze parlato/scritto ma la ‘profilazione’ degli specifici generi testuali presi di volta in volta in esame (per esempio lettera privata, sermone, intervista, ecc.; cf. Koch/Oesterreicher 2007, 28s.; Oesterreicher/Koch 2016, 29–31). La diversità rispetto ad altri modelli e procedure di contrapposizione parlato/scritto non potrebbe esser quindi più grande.

Va infine osservato che in una tipica contrapposizione massimalista di norma non verrebbero messi a confronto due diversi tipi di testo, o due diversi tipi di discorso, cioè due items, per così dire, sullo stesso piano, ma uno specifico tipo di discorso parlato, la conversazione ordinaria, che rappresenta un processo verbale dinamico, con un generico tipo di testo scritto che rappresenta invece (sia che si tratti di saggio espositivo, di testo giuridico o altro) un prodotto finito e chiuso e, per ciò stesso, inevitabilmente statico o non dinamico.5 C’è dunque da chiedersi se molti dei tratti differenziali che emergono da questo tipo di confronti, più che alla modalità parlata o scritta in sé, non debbano essere invece attribuiti in primis alla profonda diversità che necessariamente esiste tra un processo che mostra il farsi di un discorso (esplicitamente dialogico) e il risultato finale di un processo ormai invisibile, cioè un prodotto verbale finito e rifinito (spesso apparentemente monologico), che rappresenta solo la parte conclusiva di un processo più ampio e in cui, per tradizione e convenzione, ogni traccia del processo di costruzione (e di eventuale co-costruzione) dovrebbe anzi restare quanto più possibile nascosta (cf. Voghera 2014, 211; Calaresu 2021). Uno dei cambiamenti più dirompenti delle forme più innovative di scritture digitali è proprio la visibilità all’interno del testo del suo stesso processo di costruzione: si comincia così a profilare il superamento della tradizionale distinzione tra testi (in quanto prodotti) e discorsi (in quanto processi): gli attuali ipertesti sono infatti, in misura crescente, disponibili a mostrarsi anche come processi, cioè come iperdiscorsi (cf. paragrafo 5).

I risultati del confronto parlato/scritto sarebbero in ogni caso un po’ diversi se confrontassimo processi con processi, per esempio la conversazione dialogica parlata con tutta la produzione scritta (e orale) che corrisponde alle diverse fasi di stesura di un testo scritto, lasciando o rendendo visibili tutti i vari interventi nel tempo sia dell’autore che di eventuali commentatori ‘esterni’, oppure con il processo di scrittura (non sotto dettatura) di un testo alla lavagna durante una lezione scolastica, oppure, appunto, con il processo di costruzione di un ipertesto nativo digitale come per esempio una voce di Wikipedia.6 Oppure, viceversa, se confrontassimo prodotti con prodotti, cioè testi con testi, per esempio un testo parlato nato da un originario discorso parlato più o meno accuratamente preparato e poi registrato e pubblicamente o privatamente trasmesso nella sua rifinita versione finale (su tv, radio, piattaforma web, dispositivi portatili, ecc.),7 con un tradizionale testo argomentativo o espositivo scritto. È lecito supporre, infatti, che sia proprio da questo tipo di confronti, e con una procedura un po’ più analitica e un po’ meno sintetico-generalista, che possa emergere in modo più realistico il massimo della differenza tra discorsi/testi parlati e discorsi/testi scritti – non solo nei termini della dimensione concezionale ma anche di quella mediale (cf. paragrafo 5).

4 Nähe, Distanz e nuovi media

Diciamo subito che nel complesso la correlazione tra condizioni comunicative, strategie di verbalizzazione e canale fonico/grafico elaborata nei lavori di Koch e Oesterreicher può reggere, con minimi aggiustamenti, alla prova della descrizione dei nuovi generi nati e sviluppatisi grazie al digitale. Anzi, presenta dei tratti di flessibilità che ben si adattano a descriverne il magmatico panorama: per esempio la natura non binaria e concezionale dei parametri comunicativi (e il loro presentarsi come liste aperte) consente di tener conto di variazioni anche minori e minime nelle condizioni di produzione/ricezione dei testi. Questa impalcatura teorica si presta quindi egregiamente a rappresentare la fluidità dell’organizzazione sintattico-testuale dei vari generi di scrittura digitale e il carattere stesso della comunicazione in rete. Inoltre, il fatto che le condizioni pragmatico-contestuali siano distinte dai tratti linguistici consente di correlare i due piani senza incorrere nel cortocircuito che in passato ha portato a considerare alcuni tratti linguistici propri dell’oralità solo perché statisticamente più frequenti in alcune tipologie di testi.1

I cambiamenti introdotti dalla comunicazione digitale suggeriscono tuttavia degli adattamenti del modello anche per la parte concezionale. Questi aspetti non potranno essere oggetto di riflessione sistematica in questo saggio;2 tuttavia andrà almeno osservato che riguardo alle strategie di verbalizzazione (Versprachlichungsstrategien) le nuove modalità di produzione e fruizione dei testi in rete richiederebbero di ridefinire l’ancoraggio alla situazione e, più in generale, il rapporto tra testo e contesto (Situations- und Handlungseinbindung), la dialogicità (Dialogizität) e la distanza fisica tra gli interlocutori (physische Nähe). Ma, più di tutti, andrebbe rivisto il parametro della privatezza/pubblicità (Privatheit).3 A ben vedere tutte e tre le dimensioni in cui Jucker e Dürscheid (2012, 44s.) scompongono quest’ultimo, e cioè il grado di accessibilità pubblica, la natura dei contenuti e la realizzazione linguistica più o meno concezionalmente improntata alla vicinanza (Nähe) sono stati interessati da forti assestamenti nella comunicazione digitale, in particolare grazie alla diffusione dei social media. Contenuti e modi un tempo riservati al dominio privato hanno invaso la sfera del discorso pubblico (si pensi all’evoluzione/deriva del linguaggio politico); inoltre la collocazione di un messaggio su un certo livello della scala di accessibilità pubblica non è più governabile dall’autore: un messaggio originariamente concepito per un ristretto gruppo di destinatari può essere condiviso a cerchie più ampie o addirittura, potenzialmente, a tutti gli utenti della rete. Sulla terza componente, il tipo di lingua utilizzata, torneremo più diffusamente nei prossimi paragrafi. Un altro parametro andrebbe poi aggiunto al modello: quello relativo all’emittente, carico di nuove possibilità nel web 2.0, dove un testo può essere il risultato dell’interazione di più voci e punti di vista. È in corso infatti una riflessione generale sul concetto di autore e autorialità (cf. ad esempio Landow 2006, 125–143) alla luce del fatto che alcuni testi in rete sono frutto di una cooperazione plurima e il concetto stesso di autore, per come si era definito nella civiltà moderna, è stato fortemente messo in discussione dalla circolazione delle informazioni in rete.4

Quanto al rapporto tra parametri concezionali e canale, come è noto Koch/Oesterreicher (1994, 587) sostengono la sostanziale indipendenza dell’oralità – intesa come categoria concettuale – dal canale di trasmissione (sulla problematicità dell’uso del termine medium, eccessivamente polisemico, torneremo più avanti). E adoperano quest’ultimo termine in un’accezione che rimane volutamente al di qua di tutte le considerazioni riguardanti una definizione a grana più fine del rapporto tra medium e canale su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. Siamo cioè abbastanza lontani dalle note prese di posizione di McLuhan (1962; 1964) sulla dipendenza del messaggio dal medium che lo veicola da cui hanno preso le mosse i successivi media studies. Dürscheid (2016, 360) chiarisce lapidariamente il senso in cui i due autori hanno adoperato medium nei loro lavori, e cioè «die Realisierungsform einer Äußerung, genauer: die Dichotomie phonisch/grapisch – nicht mehr und nicht weniger».

Questa scarsa attenzione per il mezzo potrebbe essere stata alimentata dall’interesse rivolto dagli autori principalmente alla diacronia, dal loro occhio più attento a descrivere generi testuali già acquisiti e consolidatisi nel tempo come frutto di specifiche tradizioni discorsive che non alle nuove forme di comunicazione, ancora fluide e poco codificate. Ebbene, la portata delle innovazioni introdotte dai nuovi media richiede di rivedere, in relazione ad alcuni fatti, questa posizione (Schneider 2016) puntando i riflettori proprio sulle caratteristiche legate al canale e ai tratti contestuali della comunicazione. Sono quindi necessarie alcune riflessioni supplementari per cogliere le specificità delle scritture digitali, che vadano oltre la communis opinio della scrittura digitale come un semplice trasferimento dell’oralità sul canale grafico-visivo: un written speech (cf. Ferrara/Brunner/Whittemore 1991; Berruto 2005), o un parlato grafico nel modello di Koch/Oesterreicher.5

Alla luce di queste considerazioni si impone una riflessione che rimetta al centro dell’attenzione quegli aspetti mediali tutto sommato posti in secondo piano da Koch e Oesterreicher (cf. paragrafo 5). Loro stessi del resto, nei loro ultimi lavori, hanno rivolto l’attenzione ai nuovi media e si sono posti il problema della tenuta del loro modello in relazione alle nuove tecnologie, soffermandosi per esempio sulla natura multimodale della EMC e considerando la chat uno degli esempi più interessanti di avvicinamento alla lingua della vicinanza attraverso il canale grafico-visivo (Oesterreicher/Koch 2016, 53). Manca nei loro studi – per ovvi motivi cronologici – una specifica attenzione per lo scritto trasmesso dialogico, che si sta manifestando nel web 2.0 in vari modi, diversamente da quanto avveniva nel mondo predigitale.6 Noi ci occuperemo in questa sede soprattutto di vedere come reagisce la griglia di parametri dei due autori all’analisi della comunicazione sui programmi di messaggistica istantanea. Tra i programmi in circolazione sceglieremo WhatsApp, il più diffuso nel mondo occidentale.7

5 La dimensione ‘mediale’ e le condizioni semiotico-contestuali

L’articolato modello di Koch e Oesterreicher, nel distinguere in partenza la dimensione ‘mediale’ dei testi da quella ‘concezionale’, dichiaratamente riprende ed elabora un precedente modello di Ludwig Söll degli anni ’70 (cf. Oesterreicher/Koch 2016, 19–22). Più precisamente, dichiarandosi maggiormente interessati alla seconda dimensione, Koch e Oesterreicher rielaborano ed espandono solo la parte concezionale del modello originario di Söll, lasciando praticamente invariata la parte ‘mediale’ (2007, 20–22). È giusto ricordare questo punto giacché sembrerebbe proprio la dimensione ‘mediale’ quella oggi più criticata e contestata (cf. per esempio Dürscheid 2016; Schneider 2016).

Effettivamente, così com’è, il trattamento della dimensione mediale pone alcuni problemi. Intanto, già l’uso della parola ‘medium’ è problematico, non solo a causa dell’eccessiva esuberanza semantico-referenziale del termine1 (cf. Raible 2014, 362–364; Schneider 2016), ma soprattutto perché ‘fonico’ e ‘grafico’ sembrano richiamare più il canale che non il medium (cf. Voghera 2017, 19), sia che quest’ultimo lo si intenda materialmente come mezzo, strumento, supporto, dispositivo, ecc., oppure ‘immaterialmente’ come azione o procedimento (come per esempio in Schneider 2016, 342–348). Si tratta, in tutti i casi, di lessico scivolosissimo: nella confusione tra medium e canale sarebbe già incappato, stando a Eco (2014; 2016), anche lo stesso McLuhan (1964).

Un problema più importante nel modello di Koch e Oesterreicher è, piuttosto, a nostro parere, il fatto che, a differenza della dimensione concezionale del testo, quella mediale venga tutta risolta all’interno dell’unica coppia non graduabile del modello (fonico vs. grafico), mentre richiederebbe anch’essa un trattamento a grana più fine e, quindi, una maggiore articolazione su più parametri, non tutti dicotomici. Così com’è (cf. Koch/Oesterreicher 2007, 20–22), essa consente comunque quattro differenti combinazioni una volta che si incrocino due coppie di parametri: fonico vs. grafico (dal punto di vista del ‘medium’ – per noi canale) con parlato vs. scritto (intesi però solo dal punto di vista concezionale, cioè dell’ideazione e organizzazione anche stilistica del testo/discorso), ottenendo così due possibilità che rappresenterebbero, da un lato, gli esiti ‘prototipici’ (il parlato fonico e lo scritto grafico), e, dall’altro, due esiti non prototipici (il parlato grafico e lo scritto fonico). È una soluzione a suo modo brillante, ma certamente insufficiente anche solo a fronte della varietà di tipi e generi testuali pre-rivoluzione digitale, e soprattutto, come osserva Voghera (2017, 190), è fonte di potenziale confusione fra modalità parlate e scritte. L’impasse veniva in parte risolta dai due studiosi scomponendo e articolando meglio la dimensione concezionale all’interno della sintesi più ampia fornita dal supercontinuum vicinanza/distanza. Ma, come spiega molto bene Voghera (2017), l’utilizzazione di un certo canale (o ‘medium’ per Koch e Oesterreicher) impone al codice varie condizioni sia di tipo semiotico che comunicativo:

Per non incorrere in fraintendimenti, è necessario introdurre subito una distinzione, cui faremo spesso ricorso: quella tra canale e modalità. Indicheremo con canale di comunicazione o trasmissione la via fisica di trasmissione o propagazione di un segnale: il canale fonico-uditivo, gestuale-visivo, grafico-visivo indicano quindi i canali normalmente usati per parlare, comunicare con le lingue dei segni, scrivere. Indicheremo invece con modalità di comunicazione l’insieme delle condizioni semiotiche e comunicative che un canale solitamente e/o preferenzialmente impone all’uso di un codice di comunicazione, per esempio al linguaggio verbale. Il fatto che nelle nostre società alcune forme del rapporto tra canale e modalità si siano culturalmente e storicamente stabilizzate non ci deve indurre a credere che tra canale e modalità ci sia un rapporto meccanico: possiamo adottare infatti più modalità di comunicazione pur usando lo stesso canale. […] tra canale e modalità non vi è un rapporto biunivoco, ma un rapporto di correlazione: dato l’uso di un determinato canale è molto probabile che si sviluppi una modalità di comunicazione con specifiche caratteristiche. (Voghera 2017, 19; corsivo dell’autrice)

Le precisazioni di Voghera sembrano quindi suggerire la strada per superare i problemi legati alla parte ‘mediale’ del modello di Koch e Oesterreicher: per comprendere le correlazioni tra uno stesso canale (per esempio il grafico-visivo) e le diverse modalità di comunicazione che questo consente (per esempio lo scritto tradizionale a stampa di contro allo scritto digitale) c’è bisogno di prendere in considerazione più condizioni semiotiche e comunicative. In altre parole, la distinzione tra grafico e fonico da sola non basta a caratterizzare ‘medialmente’ testi e discorsi e c’è bisogno di più parametri anche sul lato semiotico oltreché su quello più tipicamente pragmatico-comunicativo, già in larga misura corrispondente alle ‘condizioni comunicative’ del supercontinuum vicinanza/distanza di Koch e Oesterreicher.

Inoltre, ed è questo un problema su cui non inciampa solo il modello di Koch e Oesterreicher, qualsiasi rappresentazione, pur sintetica, delle condizioni contestuali di un testo/discorso dovrebbe tener conto sia delle differenze tra produzione e ricezione che della pluricanalità, che è possibile nei testi (prodotti) e immancabile nei discorsi (processi). Per fare solo un esempio banale, ma molto pertinente anche per la riflessione sui nuovi media: non necessariamente, all’interno della stessa interazione, i parlanti/scriventi usano solo gli stessi codici e gli stessi canali dei propri interlocutori/destinatari, ed è francamente difficile immaginare discorsi/testi reali che non presentino, in misura maggiore o minore, pluricanalità, multimedialità e multimodalità (cf. Kress 2010; Voghera 2017).

A partire da queste riflessioni, facendo tesoro sia delle osservazioni di Voghera (2017) sia delle note distinzioni di Jakobson (1960, 353s.) sui fattori costitutivi di ogni atto comunicativo, abbiamo provato ad abbozzare un’ipotesi, riassunta in Tabella 1,2 che comprenda quei parametri necessari, a parer nostro, per integrare la parte mediale del modello di Koch e Oesterreicher, individuandone otto: canale, strumento, natura del segnale, vincoli, codici, contatto, turnazione, tempi. La maggior parte dei parametri che riguardano invece le relazioni tra gli specifici interagenti (per esempio, familiarità vs. estraneità) e tra interagenti, messaggio e contesto specifico (per esempio, ancoraggio situazionale vs. disancoraggio), nonché contenuto e strutturazione compositiva del messaggio (per esempio, strutturazione aggregativa vs. integrativa), sono già stati previsti da Koch e Oesterreicher nella parte concezionale del modello.


1 . CANALE di trasmissione e di ricezione del segnale: A. di Produzione; B. di Ricezione – Relazione tra Canali di Produzione e Ricezione: (a) gli stessi in Produzione e Ricezione; (b) in parte o del tutto diversi – Tipi di Canale coinvolti: *cognitivo-inferenziale [sempre]; fonico-uditivo; visivo; tattile; altro (in interazioni mediate da strumenti elettronici)
2 . STRUMENTO (ciò che consente e/o coadiuva la propagazione del segnale): A. di Produzione; B. di Ricezione (a) naturale (corpo): apparato fonatorio-acustico e/o altre parti del corpo semioticamente usate; (b) artificiale (strumento esterno, protesi, dispositivo extracorporeo): (i) tecnologie semplici o meccaniche (es. scalpello, pennello e inchiostro, ecc.); (ii) tecnologie complesse (dispositivi che operano smaterializzazione e rimaterializzazione del segnale)
3 . NATURA DEL SEGNALE (correlata a canale e strumento) (a) volatile; (b) permanente – Azione dello strumento sulla forma materiale del segnale: (a) mantiene caratteristiche individuali del mittente (per es. la sua voce, la sua calligrafia); (b) standardizza e spersonalizza (per es. sintesi vocali, caratteri di stampa)
4 . VINCOLI e restrizioni (di tempo, di spazio, o altri tipi di vincoli) A. al messaggio di partenza; B. alla (possibile) replica (a) fisiologici, dati dai limiti del corpo umano; (b) dipendenti dalla tecnologia di trasmissione e dall’eventuale tipo e forma di supporto materiale (per es. dimensioni del foglio o dello schermo, tempo massimo a disposizione per produrre messaggi orali, ecc.)
5 . CODICI : A. di Produzione; B. di Ricezione – Relazione tra Codici: (a) identici in Produzione e Ricezione; (b) in parte o del tutto diversi – Tipi di Codice: (a) sistemi linguistici propriamente intesi: lingue storico naturali: orali, scritte, segnate (ASL, LIS, ecc.), tattili (Braille), ecc.; (b) altri codici non verbali – In caso di uso di più codici diversi, usabili: – anche in contemporanea (o in sovrapposizione simultanea), per es. parole e gesti – solo in successione lineare (accostati ma non sovrapposti) (cf. anche Canale, Natura del segnale e Tempi)
6 . CONTATTO con interlocutore a) in presenza, faccia a faccia; b) non in presenza; la comunicazione è differita i) nello spazio; ii) anche nel tempo
7 . TURNAZIONE e possibilità di replica (a) tecnicamente possibile: ma (i) non prevista; oppure (ii) prevista e strutturalmente necessaria oppure non necessaria: (b) tecnicamente non possibile – Condizioni rispetto al messaggio di partenza (cf. VINCOLI ) (cf. commenti liberi, filtrati, moderati ecc.): (a) paritarie (con le stesse condizioni); (b) non paritarie (con condizioni diverse)
8 . TEMPI di Produzione e Ricezione (a) sincroni o quasi del tutto sincroni (ricezione in corso prima della fine del turno del parlante/scrivente); (b) semi-sincroni (ricezione comunque posteriore alla fine del turno del parlante/scrivente) (c) del tutto asincroni – Tempi per la fruizione del messaggio: (a) liberi; (b) condizionati – Tempi tra Ricezione e possibile Replica: (a) liberi; (b) condizionati

Tabella 1:

Otto condizioni contestuali: bozza per una possibile griglia di analisi ‘mediale’

Gli otto insiemi di condizioni sintetizzati nella tabella dovrebbero aiutare a configurare e a caratterizzare la diversa modalità di discorso in esame, o anche, più specificatamente, lo specifico genere di discorso, per esempio una conversazione parlata faccia a faccia, di contro a una conversazione telefonica tradizionale o a una digitata su WhatsApp. La descrizione complessiva di un certo tipo di testo o di discorso richiederebbe poi, ovviamente, la successiva integrazione con i parametri previsti per la dimensione concezionale, dal momento che la tabella rappresenta semplicemente, come si è detto, una provvisoria proposta di aggiornamento solo per la dimensione ‘mediale’ del modello di Koch e Oesterreicher.

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9783823303473
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