Читать книгу: «Arena Uno: Mercanti Di Schiavi », страница 15

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Il fato ha voluto che girassimo per Water Street – proprio l’isolato dove vivevo io. Ho il batticuore mentre mi accorgo che stiamo per arrivare al mio appartamento. Non posso fare a meno di chiedermi se c’è papà a guardarmi, a guidarmi. O forse mamma, nel caso sia morta. Forse è lei che mi sta guardando. Anche se forse si sta prendendo gioco di me. Mi vuole rimproverare. Dopo tutto, è qui che l’ho abbandonata, tanti anni fa. Poteva venire con me. Ma non se ne sarebbe andata mai. E lo sapevo. Ancora una volta, sento di avere fatto quello che andava fatto in quel momento – per me, e soprattutto per Bree. Cos’altro avrei dovuto fare? Stare seduta con lei ad aspettare la morte?

Non riesco comunque a non vedere dell’ironia in tutto quello che è successo. Ho preso Bree e siamo scappate verso un posto più sicuro, ma lei è stata catturata, e io sono tornata qua, dove tutto è iniziato: probabilmente non la riporterò mai più indietro. E per come mi sento adesso, non penso che sopravviverò più di qualche ora. Alla fine, cosa ci abbiamo guadagnato ad andarcene? Se fossi rimasta con mamma, almeno saremmo morte tutte assieme, in pace. Invece di una lenta e tormentosa morte per fame. Forse in fondo mamma aveva ragione.

Superiamo il palazzo del mio appartamento e mi preparo a vedere com’è adesso. So che è ridicolo, ma una parte di me pensa che mamma potrebbe essere ancora lì, seduta alla finestra. Ad aspettare.

Il mio palazzo è ridotto a un cumulo di macerie sepolte sotto la neve. Fra i massi cresce dell’erba alta: dev’essere crollato tempo fa. È un pugno nello stomaco. Casa mia non c’è più. Mamma se n’è andata davvero.

“Che c’è?” domanda Logan.

Mi ero fermata. Sono immobile con gli occhi fissi. Abbasso la testa, gli afferro la spalla, e vado avanti.

“Niente” rispondo.

Ci addentriamo nella zona commerciale di South Street Seaport. Ricordo che mi sedevo qui a guardare i ciottoli luccicanti e tutti quei negozi costosi: mi sembrava di essere nel posto più incontaminato del mondo. Un posto immutabile. Adesso non vedo che devastazione. Non ci sono nemmeno cartelli, né segnali che facciano capire cosa ci fosse in passato.

Giriamo a sinistra sulla Fulton e scorgo il mare in lontananza. È il crepuscolo, nuvoloni grigi si ammassano all’orizzonte, e appena vedo il mare a pochi isolati, sento finalmente accendersi la speranza. Le tracce dell’autobus proseguono per questa strada, e finiscono al molo. Ce l’abbiamo fatta.

Allunghiamo il passo e sento una botta di adrenalina attraversarmi il corpo non appena mi rendo conto che Bree potrebbe essere qui, alla banchina. Controllo inconsciamente la cintura delle armi prima di ricordarmi che non ne ho più. Non è un problema. Se lei è lì, troverò un modo di liberarla.

Procediamo per il molo alberato, un tempo affollato di turisti e ora desolato. Gli alti velieri storici sono ancora lì che galleggiano – ma adesso sono soltanto dei gusci marci. Alla fine del molo vedo l’autobus. Mi metto a correre, col cuore in gola, sperando che per qualche motivo Bree sia ancora a bordo.

Ma ovviamente l’autobus è stato scaricato tempo fa. Raggiungo il fianco dell’autobus e vedo che è vuoto. Controllo la neve e vedo le tracce delle ragazze scaricate che portano verso la rampa di una nave. Guardo verso l’acqua, e in lontananza scorgo una larga chiatta arrugginita, distante forse un chilometro, attraccata a Governors Island. Stanno scaricando una fila di ragazze. Bree è tra loro. Lo sento.

Avverto una scarica di fiducia. Ma anche di rassegnazione. Abbiamo perso la nave. Siamo arrivati troppo tardi.

“C’è un’altra nave di mattina” dice Logan. All’alba. C’è sempre, ogni giorno. Dobbiamo solo aspettare. E trovarci un riparo per la notte”.

Se sopravvivete a stanotte”, dice una strana voce dietro di noi.

Ci voltiamo.

Davanti a noi, a tre metri, ci sono una dozzina di persone in tenuta militare gialla. Al centro sta uno che dev’essere il loro capo. La faccia è parzialmente fusa, deformata, come quelle degli altri. Ha un aspetto ancora peggiore di quello delle Biovittime, se possibile. Forse è perché ha vissuto nella zona contaminata.

In qualche modo, sono riusciti a prenderci alle spalle. Siamo inferiori di numero, e non c’è proprio partita se si considerano le armi nelle loro cinture e le pistole che hanno in mano. Non abbiamo chance.

“Siete nel nostro territorio adesso” continua. “Perché non dovremmo uccidervi?”.

“Vi prego” supplico. “I mercanti di schiavi hanno preso mia sorella. Devo liberarla.

“I mercanti di schiavi non ci piacciono tanto quanto non piacciono a te. Passano di qua con i loro autobus pensando che sia il loro territorio. È IL MIO TERRITORIO!” urla, con la faccia smostrata e gli occhi fuori dall’orbita. “SENTITO? È IL MIO!”.

Scatto all’indietro come sento la sua voce, così distorta dalla rabbia. Sono al capolinea per stanchezza e dolore, e riesco a stento a reggermi in piedi.

Fa un passo verso di noi, e mi tengo pronta a un attacco. Ma prima di poter anche finire di pensare, inizia a girarmi tutto. Gira e gira, e prima di capire qualcosa, cado a terra.

Poi, diventa tutto nero.

VENTINOVE

Mi sforzo di aprire gli occhi. Non so bene se sono viva o morta, ma se sono viva, non pensavo che la vita potesse essere così: ogni muscolo del corpo è in fiamme. Ho i brividi e tremo, non ho mai avuto tanto freddo in vita mia – e mentre brucio, sento allo stesso tempo correre del sudore freddo sulla nuca. Ho i capelli attaccati a un lato della faccia, e sento tutte le articolazioni farmi più male di quanto riesca a descrivere. È come la peggiore febbre che ho mai avuto – ma cento volte peggio.

L’epicentro del dolore è nel polpaccio: pulsa e sembra più grande di una palla da bocce. Il dolore è così intenso che strizzo gli occhi, stringo i denti, e spero in silenzio che qualcuno me lo tagli.

Mi guardo in giro e vedo che sono stesa su un pavimento di cemento, al piano superiore di un magazzino abbandonato. Sul muro ci sono grosse finestre da fabbrica, il vetro per lo più in pezzi. Entrano folate improvvise di aria gelida, portando raffiche di neve, con i fiocchi che atterrano direttamente nella stanza. Attraverso le finestre riesco a vedere il cielo notturno, la luna piena, bassa, fra le nuvole. È la luna più bella che abbia mai visto, e riempie il magazzino di una luce soffusa.

Sento una mano gentile sulla spalla.

Alzo il mento e riesco a girare un pochino la testa. In ginocchio accanto a me c’è Logan. Mi sorride. Non voglio pensare all’aspetto orribile che devo avere, e mi sento in imbarazzo a farmi guardare da lui.

“Sei viva” dice, con voce sollevata.

Penso a cos’è successo, cercando di ricordare dove mi trovavo l’ultima volta. Ricordo il porto… il molo… Sento un’altra ondata di dolore alla gamba, e una parte di me vorrebbe che Logan mi lasciasse morire. Prende un ago, lo prepara.

“Ci hanno dato una medicina” dice. “Vogliono che tu viva. Non gli piacciono i mercanti di schiavi tanto quanto a noi”.

Cerco di comprendere quello che dice, ma la mia mente non funziona alla perfezione, e tremo così tanto che mi battono i denti.

“È penicillina. Non so se funzionerà – né se è vera penicillina. Ma dobbiamo provare”.

Non ha bisogno di dirmelo. Sento il dolore che dilaga e so che non c’è alternativa.

Mi tiene la mano, e io stringo la sua. Poi si sporge in avanti e porta l’ago verso il polpaccio. Un secondo dopo, sento la punta affilata dell’ago penetrare nella carne. Faccio un corto respiro e gli stringo forte la mano.

Logan spinge l’ago in profondità e sento entrare del liquido che brucia. Il dolore va al di là di quello che posso sopportare, e mio malgrado, sento le mie urla riecheggiare per il magazzino.

Non appena Logan toglie l’ago, entra un’altra fredda raffica di vento e neve, che mi fa gelare il sudore sulla fronte. Provo nuovamente a respirare. Vorrei guardarlo, ringraziarlo. Ma non ci riesco: gli occhi, pesanti, mi si chiudono da soli.

E un momento dopo, sono di nuovo andata.

*

È estate. Ho tredici anni, Bree ne ha sei, e gironzoliamo mano nella mano per le movimentate stradine del porto. Strabordano di vita, sono tutti in movimento, e Bree ed io corriamo per le strade di pietra, ridendo di tutte le persone buffe che vediamo.

Bree gioca una specie di gioco della campana sul marciapiede, facendo salti e saltelli ogni due passi, mentre io dietro cerco di ripetere i suoi movimenti. Questa cosa la fa ridere esageratamente, e inizia a ridere ancora più forte quandomi metto a inseguirla attorno a una statua.

Dietro di noi, ci sono i miei genitori che sorridono, mano nella mano. È una delle poche volte che me li ricordo felici assieme. È anche una delle poche volte che ricordo mio padre fare qualcosa insieme a noi. Ci seguono dietro, a distanza, ci controllano, e non mi sono mai sentita così protetta in vita mia. Il mondo è perfetto. Saremo sempre felici come in questo momento.

Bree trova un’altalena basculante, è euforica, ci va di corsa e salta su. Non perde tempo, sa che salterò dall’altro lato per bilanciare il peso. E infatti lo faccio. È più leggera di me, e mi assicuro di non saltare troppo forte, in modo da farla rimanere in equilibrio.

Sbatto gli occhi. È passato del tempo, non so quanto. Adesso siamo al parco che c’è di fronte al mare. I nostri genitori non ci sono, e siamo da sole. È il tramonto.

“Spingimi più forte, Brooke!” strilla Bree.

È seduta su un’altalena. Allungo le braccia e la spingo. Va sempre più in alto, accompagnata da una risata euforica.

Alla fine, salta giù. Fa il giro e mi viene ad abbracciare, stringendomi le manine attorno alle cosce. Mi metto in ginocchio e le do un abbraccio come si deve.

Lei si fa all’indietro e mi guarda sorridendo.

“Ti voglio bene, Brooke” dice sorridendo.

“Anch’io ti voglio bene” le rispondo.

“Sarai sempre la mia sorellona?” domanda.

“Certo” rispondo.

“Promesso?” domanda.

“Promesso” dico.

*

Apro gli occhi, e per la prima volta da non so quando, non ho dolore. È incredibile: mi sento nuovamente in forma. Il dolore alla gamba è quasi sparito, il rigonfiamento si è ridotto alle dimensioni di una pallina da golf. La medicina ha funzionato.

Anche dolori e ferite varie sono sensibilmente migliorati, e lo stesso vale per la mia febbre. Non sento più tanto freddo, e non sudo così tanto. Mi è stata data una seconda opportunità.

È sempre scuro. Non riesco ancora a vedere la luna: chissà quanto tempo è passato. Logan è ancora seduto accanto a me. Come mi vede, stende immediatamente le mani e mi passa un panno bagnato sulla fronte. Non ha la giacca; l’ha messa addosso a me. Mi sento in colpa, deve stare gelando.

Sento una nuova ventata di stima verso di lui, lo sento più vicino che mai. Deve davvero tenere a me. Vorrei potergli dire quanto l’apprezzo. Ma in questo momento, sento la testa andare troppo lenta e non sono in grado di formulare frasi.

Allunga le braccia, mi mette una mano dietro la testa e me la solleva.

“Apri la bocca” dice delicatamente.

Mi mette tre pillole sulla lingua, poi mi versa in bocca dell’acqua da una bottiglia. Ho la gola così asciutta che ci metto un po’ a ingoiare – ma alla fine, sento che scende. Sollevo un altro po’ la testa e faccio un altro grande sorso.

“La febbre sta scendendo” dice.

“Mi sento molto meglio” rispondo, piena di ritrovata energia. Afferro la sua mano e la stringo forte come per ringraziare. Mi ha salvato la vita. Un’altra volta. Lo guardo. “Grazie” dico seria.

Sorride, poi leva di colpo la mano. Non so come interpretarlo. Non gli piaccio tanto quanto penso? Lo fa solo per senso del dovere? Ha un’altra persona? Sono andata troppo oltre? O è solo timido? In imbarazzo?

Mi domando come mai me ne preoccupo tanto, e di colpo realizzo: provo qualcosa per lui.

Protrae le braccia e prende qualcosa dallo zaino.

“Ci hanno dato questo” dice.

Tira fuori un pezzo di frutta secca e me lo porge. Lo prendo meravigliata: ho già i crampi dalla fame.

“E tu?” domando.

Scuota la testa, come in segno di resa. Così non la mangio. Spezzo la mia parte a metà e gliela metto in mano. Accetta con riluttanza. Divoro il mio pezzo, ed è probabilmente la migliore cosa mai mangiata. Sa di ciliegie.

Sorride mentre mangia, poi infila le mani nello zaino ed estrae due pistole. Me ne porge una. La osservo con meraviglia.

“È carica” dice.

“Devono proprio odiarli i mercanti di schiavi” dico.

“Vogliono che liberiamo tua sorella. E vogliono che gli facciamo più male possibile” dice.

Sento la pistola pesante nella mano; è una bella sensazione quella di avere nuovamente un’arma. Finalmente, non mi sento più indifesa. Ho una chance per combattere e liberarla.

“La prossima nave parte all’alba” dice. “Mancano poche ore. Ce la fai?”

“Sarò su quella barca pure se fossi un cadavere” dico, e sorride.

Mentre osserva la sua pistola sento il forte desiderio di conoscerlo di più. Non voglio fare la ficcanaso, ma è così silenzioso, enigmatico. E mi sento sempre più legata a lui. Voglio sapere di più.

“Dove stavi andando?” gli chiedo. Ho la voce rauca, la gola secca, e viene fuori un suono più ruvido di quanto volessi.

Mi guarda perplesso.

“Se fossi scappato, all’inizio. Se avessi preso quella barca”.

Distoglie lo sguardo e sospira. Segue un lungo silenzio, e dopo un po’ mi chiedo se risponderà.

“Ovunque” risponde alla fine “lontano da qua”.

Sta nascondendo qualcosa. Non so perché. Ma sento che è tipo da avere un piano più concreto.

“Da qualche parte andavi” dico. “Qualche posto in testa ce l’avevi”.

Distoglie lo sguardo. Poi, dopo un lungo silenzio imbarazzato, dice “sì, c’era”.

Dal suo tono è chiaro che non pensa di poterci arrivare ormai. Dopo una lunga pausa, mi rendo conto che non parlerà di sua spontanea volontà. Non voglio costringerlo, ma devo sapere.

“Dove?” domando.

Distolgo lo sguardo, e vedo che per qualche motivo non mi vuole parlare. Forse non si fida abbastanza di me. Poi finalmente parla.

“Si dice che è rimasta una città. Un posto sicuro, inviolato, dove tutto è perfetto. Cibo e acqua in quantità. La gente là vive come se non ci fosse mai stata una guerra. Sono tutti in salute. Ed è al riparo dal resto del mondo”.

Mi guarda.

“È lì che stavo andando”.

Per un attimo mi chiedo se non mi sta prendendo in giro. Deve rendersi conto che sembra incredibile – quasi infantile. Non riesco a credere che una persona matura e responsabile come lui creda in un posto del genere – e nemmeno che formulerebbe un piano per raggiungerlo.

“Sembra un posto delle fiabe” dico, sorridendo, aspettandomi quasi che mi dica che stava scherzando.

Ma con mia sorpresa, mi guarda improvvisamente storto.

“Lo sapevo che non avrei dovuto dire niente” dice con voce ferita.

Rimango scioccata dalla sua reazione. Ci crede davvero.

“Scusa” dico. “Pensavo che stessi scherzando”.

Sposta lo sguardo, imbarazzato. È difficile per me anche solo capirlo: ho smesso tempo fa di pensare che al mondo possa ancora esistere qualcosa di buono. Non posso credere che sia ancora aggrappato a queste convinzioni. Fra tutte le persone, proprio lui.

“Dove si trova?” domando. “Questo posto?”.

Fa una lunga pausa, come se stesse pensando se dirmelo o no.

Poi dice: “è in Canada”.

Sono senza parole.

“Volevo risalire l’Hudson in barca. E andare a vedere di persona”.

Scuoto la testa. “Beh, tutti dovremmo credere in qualcosa” replico.

L’attimo stesso in cui lo dico, me ne pento. Ho parlato in maniera troppo dura. È sempre stato il mio problema – non riesco mai a trovare le parole giuste. Sono troppo dura, troppo critica – proprio come papà. Quando mi innervosisco, o mi imbarazzo, o mi vergogno di dire quello che penso – soprattutto con i ragazzi – a volte dico cose sbagliate. Quello che volevo dire era: è bellissimo che tu creda ancora in qualcosa. Anch’io vorrei poterlo fare.

I suoi occhi si incupiscono e le sue guance arrossiscono. Vorrei rimangiarmi quello che ho detto, ma è troppo tardi. Il danno è fatto. Ho rovinato tutto.

Cerco di pensare al volo a qualcosa, qualsiasi cosa, per cambiare argomento. Non sono brava nelle conversazioni. Non lo sono mai stata. E potrebbe essere troppo tardi per recuperare.

“Hai perso qualcuno?” domando. “In guerra?”.

Sono un’idiota totale. Che domanda stupida. Di male in peggio.

Respira profondamente, lentamente, e adesso sento di averlo davvero ferito. Si morde il labbro di sotto, e per un attimo, sembra che stia trattenendo le lacrime.

Alla fine, dopo un interminabile silenzio, dice: “tutti”.

Se quando mi sveglio domattina dovesse essersene andato, non lo biasimerei. Mi stupirei se restasse. È chiaro che a questo punto la cosa migliore da fare sarebbe stare zitta e aspettare l’alba.

Ma c’è un’altra cosa che ho bisogno di sapere, una cosa che mi sta tormentando. E non posso fare a meno di pronunciare le parole:

“perché mi hai salvata?” domando.

Mi guarda intensamente, con gli occhi arrossati, poi volta lentamente lo sguardo. Si gira, e non capisco se vuole rispondermi.

C’è un lungo silenzio. Il vento fischia dalle finestre rotte, i fiocchi di neve cadono sul pavimento. Gli occhi si fanno pesanti e inizio a riaddormentarmi. L’ultima cosa che sento, prima che gli occhi mi si chiudano del tutto, sono le sue parole. Sono così flebili e sommesse che non so neanche se le sta dicendo o me lo sto sognando:

“perché mi ricordi qualcuno”.

*

Per diverse ore non faccio che entrare e uscire dallo stato di sonno, in parte sognando e in parte rivivendo cose accadute. In uno di questi flashback, mi torna in mente quello che è successo il giorno che abbiamo lasciato la città. Per quanto avrei preferito dimenticarlo, sta riaffiorando tutto.

Quando trovai Bree in quel vicolo, circondata da quei ragazzi, e lanciai la molotov – avvenne una piccola esplosione e seguirono delle urla. Ero riuscita a colpire il capobanda: era diventato una palla di fuoco. Correva freneticamente, mentre gli altri cercavano di spegnerlo.

Non persi tempo. Mi misi a correre in mezzo al caos, superai il ragazzo in fiamme e raggiunsi Bree. L’afferrai e corremmo verso i vicoli, scappando da loro. Ci inseguirono, ma conoscevamo quelle stradine meglio di chiunque altro. Tagliammo per alcuni palazzi, entrando e uscendo da passaggi meno conosciuti, passando sopra cassonetti e staccionate. In pochi isolati, li avevamo completamente seminati ed eravamo al sicuro nel palazzo di casa nostra.

Era l’ultima goccia. Dovevo lasciare subito la città. Non era più sicuro qui – e se mamma non l’avesse capito, allora saremmo partite senza di lei.

Schizzammo nel nostro appartamento, e andai dritta verso la stanza di mamma. Stava seduta sulla sua sedia preferita a guardare fuori dalla finestra, come sempre, in attesa che papà tornasse.

“Noi ce ne andiamo” dissi con tono deciso. “È troppo pericoloso stare qua. Per poco non uccidevano Bree. Guardala. È sotto shock”.

Mamma guardò Bree, poi di nuovo me, senza dire una parola.

“Non tornerà” dissi. “Accettalo. È morto”.

Mamma si chinò e mi diede uno schiaffo. Ero esterrefatta. Ricordo ancora il dolore.

“Non dirlo mai più” mi disse con cattiveria.

Strizzai gli occhi, furiosa con lei per essersi permessa di colpirmi. Non gliel’avrei mai perdonato.

“D’accordo” le risposi furiosa. “Puoi vivere nel tuo mondo quanto ti pare. Se non vuoi venire, non sei costretta. Ma noi ce ne andiamo. Vado sulle montagne, e mi porto Bree”.

Sbuffò come a prendermi in giro. “Ridicolo. I ponti sono chiusi”.

“Prenderò una barca” risposi prontamente. “Conosco qualcuno che ci porterà. Ha un motoscafo e ci porterà sull’Hudson”.

“E come farai a permettertelo?” mi chiese con tono freddo.

Esitai un po’, mi sentivo in colpa. “Ho venduto il mio orologio d’oro”.

Mi guardò stringendo gli occhi. “Vuoi dire l’orologio d’oro di papà” ribatté.

“L’ha regalato a me” la corressi. “E sono sicura che vorrebbe vedermi farne buon uso”.

Distolse lo sguardo, disgustata, e si rimiese a fissare la finestra.

“Non capisci?” continuai. “Nel giro di poche settimane questa città verrà distrutta. Non è più sicuro qua. È la nostra ultima occasione per andarcene”.

“E come ci resterà tuo padre quando tornerà a casa e non ci troverà? Quando scoprirà che l’abbiamo abbandonato tutte quante?”

Fissai mamma, incredula. Era davvero persa nel suo mondo.

Lui ci ha abbandonato” ribattei. “È partito volontario per questa stupida guerra. Nessuno gli ha chiesto di andarsene. Non tornerà. E questo è esattamente quello che vorrebbe che noi facessimo. Vorrebbe che sopravviviamo. Non che ce ne stiamo sedute in qualche stupido appartamento ad aspettare di morire”.

Mamma si girò lentamente e mi guardò con i suoi impassibili occhi grigi. Aveva quella terribile determinazione, la stessa terribile determinazione che ho io. A volte mi odio per quanto le assomiglio. In quel momento capii dai suoi occhi che non si sarebbe piegata mai e poi mai. Si era messa in testa che la cosa giusta da fare era aspettare. E una volta che si era messa in testa qualcosa, non c’era modo di farle cambiare idea.

Ma dal mio punto di vista, la sua fiducia era mal riposta. La doveva riporre in noi. Le sue figlie. Non in un uomo che era più devoto a combattere che alla sua famiglia.

“Se vuoi abbandonare tuo padre, vai pure. Io non vengo. Quando vedrai che il tuo piano non funziona e che non riuscirai a risalire il fiume, puoi anche tornare. Io sarò qua”.

Non aspettai un secondo di più. Afferrai Bree per la mano, mi girai e uscii impettita dalla porta, insieme a lei. Bree piangeva, e sapevo che dovevo portarla via rapidamente. Mi fermai un’ultima volta davanti la porta.

“Stai sbagliando” le dissi.

Ma non si degnò nemmeno di girarsi, di salutare. Sapevo che non l’avrebbe mai fatto.

Aprii la porta e la sbattei dietro di me.

E quella fu l’ultima volta che vidi mamma.

Возрастное ограничение:
16+
Дата выхода на Литрес:
09 сентября 2019
Объем:
293 стр. 6 иллюстраций
ISBN:
9781632911025
Правообладатель:
Lukeman Literary Management Ltd
Формат скачивания:
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