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«Hoc speculum cotidie intuere»: le «Vitae matrum» e la «fabula depicta» di Lutgarda d’Aywières (1182-1246)
Questo nostro percorso prende le mosse da una raccolta di vite di donne, le Vitae matrum, scritte dal domenicano Tommaso di Cantimpré (1200?-1272) fra il 1231 e il 1248. Si tratta di un florilegio composto dal Supplementum alla Vita della beghina Maria d’Oignies (†1213) – che era stata scritta dal teologo Giacomo de Vitry (†1240) – e dalle biografie di altre tre religiose: Cristina di St. Trond (†1244), Margherita d’Ypres (†1234) e Lutgarda d’Aywières (†1246). Caratterizzando le protagoniste dello spicilegio tramite la vocazione alla vita ascetica, alla stregua dei padri del deserto,1 come vedremo, l’intento di Tommaso è quello di offrire un quadro esemplare, un modello di comportamento rivolto alle donne e per realizzare questo modello egli illustra vita, mors et miracula di queste quattro religiose belghe. Se fino ad allora gli agiografi avevano rivolto la loro attenzione solo alle nobili regine (si pensi, ad esempio, all’agiografia ottoniana)2, ora sono donne «comuni» (seppur caratterizzate da un’intensa esperienza mistica) come Maria, Cristina, Margherita e Lutgarda a rappresentare dei «prototipi» comportamentali. La nostra attenzione sarà rivolta segnatamente all’ultima delle Vitae: quella dedicata alla monaca Lutgarda d’Aywières, mistica e profetessa. In primo luogo analizzeremo la tradizione del testo; in secondo luogo indagheremo il rapporto fra testo e immagini, a partire da una mappatura delle visioni che il testo registra. Adotteremo in seguito tre prospettive critiche; la prima di esse è quella delle tecniche mnemoniche: si sottolineerà infatti la presenza di alcune immagini (come la figura mentale del quadrato) che servivano tanto a delineare un percorso esemplare, quanto a fissarlo nella memoria dei lettori. Rispetto agli studi di Giovanni Pozzi, di Claudio Leonardi, di Caroline Walker Bynum (e veniamo alla seconda prospettiva) cercheremo di dimostrare che alcuni motivi letterari e iconografici hanno una tradizione più antica di quanto si pensasse, sottolineando il fatto che esista una circolazione di motivi e immagini che accomuna i Paesi del Nord con l’Italia: in questo contesto la Vita di Lutgarda rappresenta un punto nodale. I testi saranno infine analizzati dal punto di vista dei generi letterari: la Vita di Lutgarda appare infatti debitrice, oltre che al genere biografico, alla tradizione del romanzo cortese.
Si cercherà quindi di capire che tipo di messaggio voglia filtrare quest’opera delle Vitae matrum prendendo in esame la biografia di Lutgarda per due ragioni. Morta Lutgarda, la badessa del monastero di Aywières dispone che il cantipretano, il quale aveva dato prova del suo talento di biografo scrivendo le agio-biografie di Maria, di Cristina e di Margherita, metta a sistema la Vita di Lutgarda, monaca che le altre religiose del monastero, rilassate nei costumi,3 avrebbero dovuto emulare.4 Estensore della biografia di santa Lutgarda, come vedremo, Tommaso può essere considerato uno dei primi agiografi a doversi porre5 il problema di come «trans-mittere» la vita di una monaca, creando un ideale, un exemplum nel quale le monache brabantine, avrebbero dovuto rispecchiarsi, sì che la comune monialis liegese potesse guardare al racconto della mater di Tommaso – letto? Ascoltato attraverso il medium dei predicatori come Tommaso? – , come termine di paragone, sì « (…) che ce se vedeva tucta, come quasi in uno specchio».6 Insomma: si può affermare che questa biografia ha valore particolarmente didascalico perché va considerata alla stregua di vademecum della monaca di allora.7 L’altro motivo per il quale abbiamo scelto di soffermarci sulla Vita Lutgardis, preferendola così alle altre, è il continuo dialogo fra testo e iconografia, al punto che si potrebbe pensare a questa Vita come a una fabula depicta. Tantissime le occorrenze figurative all’interno di questo libercolo e riposti i significati di questi punti di incontro fra dimensione testuale, figurativa e scritturale. Essendo persuasi dall’idea secondo la quale questa prossimità fra testo e iconografia è finalizzata a istituire la connivenza di un linguaggio pensato, sulla scia di chi ha dimostrato l’impossibilità di scindere il significato del leggibile e del visibile,8 vorremmo provare a leggere questa Vita Lutgardis alla luce della probabilità di rinvenirvi uno sviluppo articolato nei termini di un linguaggio doppio, con dei fini affatto particolari. Da un lato il linguaggio scritto, dall’altro quello figurato cooperano bellamente nel tentativo di trasmettere la speciale missione affidata agli Ordini nei confronti della comunità ecclesiale, missione sulla quale non indagheremo perché la nostra ricerca ha obiettivi strettamente legati all’analisi dei testi, anzi saranno proprio i testi (l’agiografia di Lutgarda, così come le opere letterarie con le quali questa Vita è interconnessa) a consegnarci dei «mattoni», attraverso i quali costruire un discorso che pure sottende dimensioni pluridisciplinari.
La storia dell’«antefatto» della «Vita Lutgardis» ossia le altre «matres»: la reclusa, la folle, la svanita
Per la redazione delle Vitae matrum Tommaso di Cantimpré si ispira alla Vita di Maria d’Oignies,1 che aveva segnato i prodromi del nascere di un nuovo genere letterario: il genere dell’agiografia mistica.2 Se nel caso dei primi tre medaglioni (Maria d’Oignies, Cristina di St. Trond e Margherita d’Ypres) l’agiografo costruisce i suoi testi facendo ricorso a testimonianze indirette relative alle semireligiose delle quali si scrive, nel caso di Lutgarda Tommaso trascrive la storia della propria madre spirituale rappresentando lui stesso un testimone. Il motivo che spinge il canonico regolare a mettere a punto la prima di queste Vitae è rappresentato dal fatto che il suo priore a Oignies, Egidio, gli ordina di stendere una gionta alla Vita Mariae Oignicensis che Giacomo da Vitry aveva composto; sarà questo slancio iniziale a determinare la redazione delle biografie successive, ma prima di passare alla trattazione delle Vitae, ci piacerebbe aggiungere qualcosa a proposito del loro autore.
Tommaso nasce nel 1200 o nel 1201 a Bellingen, un villaggio del Brabante fiammingo. Il padre aveva preso parte alla terza crociata al seguito di Riccardo Cuor di Leone e aveva mandato il futuro predicatore a studiare nella cittadina episcopale di Cambrai, avendolo destinato alla carriera ecclesiastica.3 Nel 1217, in qualità di canonico, il giovane entra a Cantimpré, dove è a contatto con il clima intellettuale dell’abbazia dei canonici regolari di San Vittore. Gli studi e gli interessi del brabantino sono all’inizio di carattere soprattutto scientifico ed è infatti il De natura rerum4 – un trattato di storia naturale a cui lavora per quindici anni – ad averlo reso noto. In seguito Tommaso compone un’opera in cui delinea un prototipo ideale di vita religiosa, che dovrebbe ispirarsi, secondo lui, alla società delle api.5 Poco prima di essere ordinato sacerdote, nel 1223, il cantimpratano comincia a stendere la Vita Ioannis, la biografia cioè dell’eremita e predicatore fondatore della comunità di Cantimpré.6 Dopo essere stato canonico regolare, si fa domenicano nel convento di Lovanio, lasciando Cantimpré e dedicandosi a una vita itinerante, sulla quale era stato instradato proprio da Lutgarda. «Sedotto» da questa madre santa, così come Giacomo da Vitry era stato, temporibus illis, «sedotto» da Maria d’Oignies, se il vitriacense si fa irretire dalla cattedra episcopale e dal cardinalato, lasciando Oignies nonostante Maria cerchi di trattenerlo, Tommaso segue fiducioso i consigli di Lutgarda di Aywières, la quale lo sprona a coltivare una vita più apostolica. Non a caso, nella conclusione del Supplementum, Tommaso rimprovera Giacomo con una requisitoria nella quale accusa il cattedratico di Parigi di non aver prestato ascolto alla beata Maria, beghina-reclusa del priorato di Oignies:
Nunc igitur ad te mihi redeundum est, Tusculane Praesul, Romanae Curiae Cardinalem. Verum quidem, ut in his quisquam potest advertere, verissimum Dei famula dixit, hominem voluntatis tuae te esse contestans, qui utique ad tam evidentissimas ipsius Ancillae Christi revelationes obstinatus ita fuisti, quod nullo modo moveri a voluntate propria potuisti.7
Il Supplementum alla Vita di Maria d’Oignies non vuole essere una nuova biografia, essa è più che altro un testo in cui è messa in rilievo la funzione profetica della beghina, che prende forma tramite un’indagine di Tommaso il quale, raccogliendo testimonianze di gente che ha conosciuto Maria direttamente, dà prova della veridicità delle profezie della donna. Per esempio quest’ultima aveva assicurato a Giacomo la costruzione di una nuova chiesa, secondo quanto le era stato rivelato nel corso di una visione; essa, come nel rapimento mistico, sarebbe stata di grandi dimensioni e caratterizzata dalla presenza di cinque altari. Era infatti scoppiato un incendio ai tempi della penitente all’interno della parrocchia, incendio che aveva devastato la struttura e i paramenti, ma la beghina aveva fatto presto a consolare il priore, assicurandogli la prossima costruzione di una chiesa nuova, grande e bella:
Consolare Pater carissime, consolare: damnum tibi istud infra decem annos incomparatabiliter Deus restituet, et quadrupliciter plus pro adipiscendis gaudebis ornatibus quam nunc pro perditis contristatus es. Sed heu me! quae tunc minime subsistens, ista non videbo. Nec fefellit eam promisso Deus; postea enim; quoniam venerabilis Iacobus in transmarinis partibus Acconensis Episcopus est electus, transmisit dicto Priori omnem insulam Episcopalem, cum aliis multis vestibus bissinis, et universa altaris vasa, cum diversis utensibilibus ministrorum eius ex auro et argento omnia fabricata. Portitor autem horum omnium, tanta velocitate mare transivit, infra dies videlicet quindecim, ut multis hoc incredibile videretur. Et hoc non mirum non sine divino miraculo, utique annorum decem tempus urgebat, quo haec Ancilla Christi complenda praedixerat.8
Mistica come Maria è pure la seconda delle «madri» di Tommaso: Cristina la folle. Come si legge nella Vita De S. Christina Mirabili Virgine, a St. Trond, una cittadina nella Valle della Mosa, abitano tre sorelle che, rimaste orfane, organizzano nuovamente la gestione della casa. Se la prima si dedica alla preghiera e la seconda alla casa, la terza, Cristina, porta le bestie al pascolo.9 Zelante contemplativa, Cristina muore prematuramente, ma durante la celebrazione dei funerali, la morta fa un salto fino al soffitto, balzando dal feretro. «Rimase lassù, in alto, per tutto il tempo della messa, appollaiata sulle travi come un uccello spaventato, e non ci fu verso di farla scendere».10 Tommaso, anche in tal caso, compie un’indagine per sincerarsi della verità dei fatti, cercando di «intervistare» gente che aveva conosciuto personalmente Cristina, ad esempio la reclusa Yvette de Léau,11 con la quale Cristina «la folle» aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita.
Con questa donna assistiamo quindi a un evento nuovo: per la prima volta una donna scende fino all’Inferno e vede il Purgatorio, per ritornare successivamente sulla Terra. Due le funzioni legate al valore storico dell’esperienza di Cristina: da un lato il compito affidatole di descrivere ai viventi, una volta ritornata su questo mondo, l’aspetto dell’aldilà (in quanto lei, morta e risorta, l’aldilà lo ha conosciuto), dall’altro la volontà di far vedere come al genere umano – che Cristina rappresenta – sia offerta la possibilità di scontare le proprie colpe attraverso questi viaggi nel Purgatorio, grazie ai quali sarà concesso in seguito di ascendere al Paradiso. Interessante sarebbe capire quali siano i modelli agiografici d’ispirazione; questi potrebbero essere copiosi, per esempio i racconti dei morti che tornano sulla Terra per riferire su ciò che è altro dalla Terra. Bronto, Bonello, Fursy, come pure Guthlac, Wetti e Alberico, via via fino a Tnugdol e san Patrizio,12 rappresentano certamente un antefatto, un precedente, eppure con Cristina si verifica un evento importante: non siamo davanti a una resurrezione, a una rinascita posta nei termini di un corpo che ritorna, appunto perché Tommaso parla di corpo «subtilis», riccorrendo spesso alla metafora della donna-uccello. Cristina non si ripresenta in Terra col suo corpo, vi ritorna in forma di spettro, secondo i dettami della coeva tradizione della Renania, in cui fioriscono a iosa racconti sull’apparizione dei morti.13
La pastora di St. Trond è sciamanica: si getta nel fuoco, nell’acqua ghiacciata, salta sulle pale dei mulini a vento, penzola dalle corde del patibolo, si fa sbranare dai cani, e nonostante il sangue scorra, lei resta illesa:
Tunc coepit Christina agere illa, propter quae a Domino remissa fuerat. Ingrediebaturque clibanos ignivomos, ad coquendum panes paratos, cruciabaturque incendiis velut aliquis nostrum, ita ut horrifice clamaret prae angustia, nec tamen in egredientis corpore laesura forinsecus apparebat. […] Sub aquis Mosae fluminis glaciali tempore frequenter ac diutius morabatur, adeo ut in iis, sex diebus et eo amplius permaneret. […] In hyeme etiam sub rota molendini ibat erecta stare, ita quod aqua dilaberetur per medium caput et membra eius. Veniebat etiam cum aqua natans aliquando, cadebatque cum aqua super rotae circuitum, nec ulla laesura tamen apparebat in membris. In rotis etiam, in quibus piratae aliquando cruciari solebant, more tortorum flectebat cura et brachia sua, et tamen, cum descenderet, non apparebat fractura in membris suis. Ibat etiam ad patibulum, et se inter latrones suspensos laqueo suspendebat, ibique uno die vel duobus suspensa pendebat. Saepiusque quoque sepulchra mortuorum intrabat, plangebatque ibi peccata hominum. Media etiam nocte quandoque surgebat, et canes totius civitatis S. Trudonis provocans ad latratus, quasi bestia fugiens praecurrebat, insequebanturque eam canes, et per silvas atque condensa spinarum agitabant eam, ita ut nulla pars corporis eius a plaga remaneret immunis, et tamen cum sanguinem diluisset, nullum laesurae vestigium apparebat.14
Pare esserci una coscienza comune della dimensione patologica del comportamento della mistica Cristina, tanto che le sorelle e gli amici pensano sia posseduta dagli spiriti maligni; inoltre la donna respinge la morale comune perché mangia in casa dei ladri e degli assassini, dividendo con loro il pane dei furti (II, 23).15 Segnaliamo anche un’affinità rispetto alla mistica Angela da Foligno: come Angela, Cristina beve l’acqua contaminata dalla lebbra:
Et postquam ista optulimus eis, lavimus pedes feminarum et lavimus manus hominum, maxime cuiusdam leprosi qui habebat manus valde fracidas vel marcias et perditas, et bibimus de illa lotura. Et tantam dulcedinem sensimus, quod per totam viam venimus in magna suavitate ac si communicavissemus. Et videbatur michi recte quod ego comunicassem, quia suavitatem maximam sentiebam sicut si comunicassem, quia suavitatem. Et quia quedam scarpula illarum plagarum erat interposita in gutture, ego conabar ad glutiendum eam et reprehendebat me coscientia expuere sicut si comunicassem, quamvis non expuerem ed eiciendum, sed ad deponendum eam de gutture.16
Il vero protagonista dell’opera, ha notato Alessandra Bartolomei Romagnoli, sembra essere però il corpo di questa reclusa dei boschi, un corpo che si fa docile strumento dell’anima e suo prigioniero, e si assiste infatti a veri e propri dialoghi fra l’anima e il corpo:
Et tamen cum iniuste aliquid acquisitum, et sibi in elemosynam datum comederet, videbatur ei quod ranarum ac bufonum viscera aut intestina serpentium deglutiret. Unde in esu talium clamabat quasi parturiens: «O Christe, quod agis mecum? Sic quare me crucias?»; tundensque pectus et corpus, dicebat: «O anima misera, quid desideras? Quid concupiscis haec orrida? Cur iis soridibus vesceris?».17
La Vita di Margherita d’Ypres – e veniamo alla terza delle Vitae matrum – è un modello parenetico pensato perché i domenicani si dedichino alla cura degli animi femminili; Sigieri (il padre spirituale della fanciulla) distoglie infatti Margherita dal proposito del matrimonio e la poverina acconsente, dedicando la propria verginità a Dio, donandosi a un tipo di vita che non è né monastico né strettamente beghinale. La ragazza trascorre il resto della propria vita in famiglia, assorta nella contemplazione, docile e virtuosa, mentre i parenti cercano di distoglierla da questo suo strano proposito di nubilato, da queste pratiche oranti che la portano a rifuggire da ogni distrazione mondana, rendendola completamente svanita. Un giorno compare sul suo braccio una stella, di cui la madre non capisce il significato:
De eo quod stella apparuit in humero eius
Sedens aliquando cum matre sua et sorore illius, sua matertera, de Deo invicem conferebant. Nec mora. In momento stelle clarissime lux visa est in humero Margarete et cum mater obstupefacta exclamaret: «Quid est hoc, filia?», respondit: «Non paveas, mater, quoniam Dominus in medio nostri est», et hoc secundum illud, quod olim dixerat Dominus: Ubi duo vel tres congregati fuerint in nomine meo, in medio eorum sum (Mt 18, 20).18
Un’altra funzione assolta da questa biografia, data l’iniziale infatuazione della giovinetta nei confronti di un pretendente, è dimostrare come, anche per le anime sante, sia difficile smarcarsi dalle seduzioni terrene. Quello che qui ci interessa porre in risalto è poi il legame di Margherita con le immagini: sin da bambina comincia a flagellarsi, dopo aver visto in chiesa la figura di Cristo crocifisso;19 racconta a Sigieri un sogno in cui Gesù le appare con tre corone d’oro – a lei ne consegna una «pro voto castitatis», le altre due, dice Cristo, saranno consegnate alle sue sorelle, ma queste dovranno meritarsele:
Sompniavi, inquit, si tamen somnium vocari debet, ignoro, quia nunquam vel in seculo posita in sermone aut ecclesia dormitavi. Illa hoc dicens necdum cognoverat Dominum, nec umquam ei fuerat revelatum. Cui idem spiritualis pater eius ridendo respondit: Quid, inquit, filia sompniasti? – Vidi, ait, quasi in sompniis, sed, ut cortissime scio, evidentius tamen, vidi, inquam, lucidissime Dominum meum Iesum Christum, cum tribus michi aureis coronis astare et unam capiti meo imponens dixit: Hanc tibi, filia, pro voto, quod michi feristi, confero castitatis; reliquas duas sororibus tuis, si tecum perseveraverint, repromitto. Quo audito, ille spiritualis pater eius in Domino ex totis visceribus exultavit, animadvertens et videns, quod Deus sua gracia iuvenculam visitasset et quod acceptus ei iam esset fructus, quem in novella planta efficaci sermone rigaverat.20
Lutgarda: storia di una monaca
Come le altre tre agio-biografie, la Vita Lutgardis, che analizzeremo tra poco, sembra risentire molto dell’idea di santità che sottostà al modello femminile paolino. Le pagine di san Paolo dedicate alla santità non intendono, come sappiamo, quella costituita «populi credentis intuitu», stabilita dai processi istituzionali, dagli albi e dai codici; la santità della «letteratura» paolina fa fede alla testimonianza oculare e riguarda la condotta di chi, come le madri di Tommaso di Cantimpré, sta spesso ai margini della società.1 Lutgarda (come le altre protagoniste delle Vitae matrum) non è una nobile regina altomedievale di cui ci si appresta a trascrivere vita e miracoli,2 si tratta di una donna «normale», come nel caso «dei santi paolini, uomini e donne, ai quali il linguaggio apostolico di Paolo e della sua cerchia assegna originariamente questo attributo di aghios nella ferialità silenziosa o anche dimenticata della loro vita».3 Indagando le parole del Santo, ci si imbatte in quei famosi «divieti» imposti alle donne, veti che si rievocano qui per il motivo che stiamo per vedere. Paolo aveva affermato:
Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea (1 Cor 14, 33-35).
Queste stesse inibizioni sancite da san Paolo avrebbero fatto da punto d’appoggio ideologico alla Periculoso, la bolla di Bonifacio VIII risalente al 1298, con la quale sarebbe stata imposta la vita claustrale al «sottobosco» europeo di cellanae, reclusae, bizzoche e beghine che, al di fuori di una precisa identità istituzionale, vivevano presso municipi, palazzi, ponti, cattedrali, ma pure nelle foreste e nei dirupi, presso gli ospizi, gli eremi e le curie.4 Lutgarda rappresenta, già si anticipava, lo specchio delle virtù monastiche, la monaca da emulare e ricordare per la sua sottomissione e la sua obbedienza, sotto le quali giace tuttavia il potere della preghiera d’intercessione (così come nel caso delle donne delle quali si parla in 1 Cor 11,5)5 e in tal senso si può forse affermare che testi come la Vita Lutgardis preparano il terreno alla costituzione bonifaciana.6
Il valore della Vita è inoltre strettamente legato a finalità soteriologiche perché Lutgarda, specchio di tutte le monache, è compartecipe all’azione redentrice:
La Vita Lutgardis rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell’autocoscienza cristiana, perché la mistica di Aywières vive nella consapevolezza del valore costruttivo e dell’energia spirituale della sofferenza quando essa viene offerta nel segno della croce. Abitando nel cuore di Cristo, tutta raccolta nelle sue piaghe gloriose, Lutgarda partecipa all’opera di redenzione del mondo.7
Profetessa di principesse e castellane,8 unica interlocutrice del fantasma di Maria di Roavia,9 ammonitrice di sacerdoti, essendo dotata di grazia nel linguaggio,10 la monaca Lutgarda di Aywières, come dicevamo, è l’ultima delle quattro matres di cui Tommaso di Cantimpré ci trasmette la biografia. Benedettina originaria di Tongeren, nelle Fiandre, era passata all’età di ventiquattro anni (intorno al 1205) al Cistercio di Aywières, in Brabante, nella diocesi di Liegi. La mistica, dotata di xenoglossia, infaticabile quanto a tenacia nelle lunghe e severe astinenze, è presentata da Tommaso, nel libro secondo, una volta eletta priora (II, 20), essendo lei la candela più splendente del monastero, come fosse un candelabro, una candela posta sulla sommità del candelabrum «poiché non era giusto che una lucerna tanto grande fosse di lato sotto il moggio»:
Præterea, quoniam tantam lucernam latere sub modio non decebat, posita est super candelabrum; ut fulgor gratiæ eius omnibus appareret. Præposita ergo, id est priorissa ancillarum Dei in monasterio S. Catharinæ uno omnium consensu electa est, et concessa: abbatissam enim habere in ipso monasterio non solebant.11
Quando nel 1246, il sedici di giugno, la santa madre Lutgarda si addormenta per sempre nel catafalco custodito dalle cistercensi del monastero di Aywières, il suo corpo risplende col candore dei gigli, la sua pelle è come di bisso al tatto di chi la palpa, gli occhi spalancati, vitrei, ritti verso il cielo, quasi fosse una bambola di cera:
Proinde proprium ex natura morientium est, ut in morte livido pallore nigrescant: pia autem Lutgardis, in signum innocentiæ virginalis, candorem in morte cum nitore lilii in facie prætendebat. Oculos in cælum (ut dictum est) instante hora mortis diu ante clausos aperuit, nec eos postea in morte vel post mortem reclusos habere potuit: quia ipse oculorum gestus, iter, per quod transierat spiritus, indicavit. Cutis autem totius corporis eius tantæ lenitatis a contrectantibus est reperta, ut sub palpantis manu byssus pariter candens et lenis plenissime crederetur: nemirum simplex hæc sine felle columba, lotos lacte puritatis oculos habuit, quæ speculabatur residens iuxta fluenta plenissima.12
Questa scena in cui è descritta la monaca esanime è arricchita dalla composizione di alcuni versi, nello stile di un epitaffio, versi composti dalla fedele compagna di Lutgarda, Sibilla de Gagis, i quali avrebbero costituito il ricordo della defunta, apposti nel lato destro del coro del convento di Aywières, il lato in cui la morta era solita pregare:
Lutgardis luxit; vitam sine crimine duxit; [cum epitaphio]
Cum Christo degit, quam lapis iste tegit.
Esuriens hæc et sitiens cælestia, luxit;
Mera dies, sponsi facies, illi modo luxit.
Hæc speculum vitæ, flos claustri, gemma sororum;
Fulsit in hac pietas, compassio, gloria morum.13
Da notare la triplice anafora del verbo luceo («luxit», brillò), ripresa nell’ultimo verso da «fulsit». Oltre ad alcune rime interne, che danno forse luogo a un insieme stilisticamente un po’ goffo («luxit» – «duxit» v. 1, «degit» – «tetigit» v. 2, «esuriens» – «sitiens» v. 3, «dies» – «facies» v. 4), riluce al v. 5 l’espressione «speculum vitae», riferito al valore dell’esemplarità della vita in cui rispecchiarsi.
Le sequenze qui riportate hanno tutti crismi di frammenti polinodali: hanno un impianto agiografico, quindi didascalico, ma presentano in pari tempo finalità soteriologiche ed elementi di raccordo rispetto ad altri testi coevi, testi di monache e beghine vissute tra le Fiandre e il Brabante, ma pure di religiosae mulieres tedesche e, come già segnalava Romana Guarnieri, forti tangenze nei confronti delle Vitae delle bizzoche del Centritalia.14 Tommaso di Cantimpré scrive la vita di Lutgarda e più in generale queste Vitae matrum prendendo coscienza progressivamente del valore di queste mulieres, del tracciato descritto dal vissuto di tutte loro le quali pur vivendo ai margini dell’istituzione ecclesiale e del contesto sociale, divengono exempla.15 Sono opere enciclopediche, arazzi densi di informazioni estremamente preziose per ricostruire l’ambiente del tempo, dai menologi dei benedettini, dei cistercensi e delle spiritualità cui i reclusori beghinali erano legati, via via sino alle finalità propagandistiche con le quali queste donne divengono i simulacri di un culto che va impresso e trasmesso, attraverso i testi e le immagini.