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Читать книгу: «Il fu Mattia Pascal», страница 13

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Mi recai allo stipetto a muro, in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò di volersene andare; io stupido, la trattenni; ma, già, come potevo prevedere? In tutti gl’impicci miei, grandi e piccini, sono stato, come s’è visto, soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco com’essa, anche questa volta, mi venne in ajuto.

Facendo per aprire lo stipetto, notai che la chiave non girava entro la serratura: spinsi appena appena e, subito, lo sportellino cedette: era aperto!

– Come! – esclamai. – Possibile ch’io l’abbia lasciato così?

Notando il mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima. La guardai, e:

– Ma qui… guardi, signorina, qui qualcuno ha dovuto metter le mani!

C’era dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano stati tratti dalla busta di cuojo, in cui li tenevo custoditi, ed erano lì sul palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto con le mani, inorridita. Io raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a contarli.

– Possibile? – esclamai, dopo aver contato, passandomi le mani tremanti su la fronte ghiaccia di sudore.

Adriana fu per mancare, ma si sorresse a un tavolinetto lì presso e domandò con una voce che non mi parve più la sua :

– Hanno rubato?

– Aspetti… aspetti… Com’è possibile? – dissi io.

E mi rimisi a contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a furia di stropicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che mancavano.

– Quanto? – mi domandò ella, scontraffatta dall’orrore, dal ribrezzo, appena ebbi finito di contare.

– Dodici… dodici mila lire… – balbettai. – Erano sessantacinque… sono cinquantatré! Conti lei…

Se non avessi fatto a tempo a sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per terra, come sotto una mazzata. Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella poté riaversi ancora una volta, e singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da me che volevo adagiarla su la poltrona e fece per spingersi verso l’uscio:

– Chiamo il babbo! chiamo il babbo!

– No! – le gridai, trattenendola e costringendola a sedere. – Non si agiti così, per carità! Lei mi fa più male… Io non voglio, non voglio! Che c’entra lei? Per carità, si calmi. Mi lasci prima accertare, perché… sì, lo stipetto era aperto, ma io non posso, non voglio credere ancora a un furto così ingente… Stia buona, via!

E daccapo, per un ultimo scrupolo, tornai a contare i biglietti; pur sapendo di certo che tutto il mio denaro stava lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare da per tutto, anche dove non era in alcun modo possibile ch’io avessi lasciato una tal somma, tranne che non fossi stato colto da un momento di pazzia. E per indurmi a quella ricerca che m’appariva a mano a mano sempre più sciocca e vana, mi sforzavo di credere inverosimile l’audacia del ladro. Ma Adriana, quasi farneticando, con le mani sul volto, con la voce rotta dai singhiozzi:

– E inutile! è inutile! – gemeva. – Ladro… ladro… anche ladro!… Tutto congegnato avanti… Ho sentito, nel bujo… m’è nato il sospetto… ma non volli credere ch’egli potesse arrivare fino a tanto…

Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del fratello, durante quelle sedute spiritiche…

– Ma come mai, – gemette ella, angosciata, – come mai teneva lei tanto denaro, cosi, in casa?

Mi voltai a guardarla, inebetito. Che risponderle? Potevo dirle che per forza, nella condizione mia dovevo tener con me il denaro? potevo dirle che mi era interdetto d’investirlo in qualche modo, d’affidarlo a qualcuno? che non avrei potuto neanche lasciarlo in deposito in qualche banca, giacché, se poi per caso fosse sorta qualche difficoltà non improbabile per ritirarlo, non avrei più avuto modo di far riconoscere il mio diritto su esso?

E, per non apparire stupito, fui crudele:

– Potevo mai supporre? – dissi.

Adriana si coprì di nuovo il volto con le mani, gemendo, straziata:

– Dio! Dio! Dio!

Lo sgomento che avrebbe dovuto assalire il ladro nel commettere il furto, invase me, invece, al pensiero di ciò che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva certo supporre ch’io incolpassi di quel furto il pittore spagnuolo o il signor Anselmo, la signorina Caporale o la serva di casa o lo spirito di Max: doveva esser certo che avrei incolpato lui, lui e il fratello: eppure, ecco, ci s’era messo, quasi sfidandomi.

E io? che potevo far io? Denunziarlo? E come? Ma niente, niente, niente! io non potevo far niente! ancora una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito. Era la seconda scoperta, in quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo denunziarlo. Che diritto avevo io alla protezione della legge? Io ero fuori d’ogni legge. Chi ero io? Nessuno! Non esistevo io, per la legge. E chiunque, ormai, poteva rubarmi; e io, zitto!

Ma, tutto questo, Papiano non poteva saperlo. E dunque?

– Come ha potuto farlo? – dissi quasi tra me. – Da che gli è potuto venire tanto ardire?

Adriana levò il volto dalle mani e mi guardò stupita, come per dire: «E non lo sai?».

– Ah, già! – feci, comprendendo a un tratto.

– Ma lei lo denunzierà! – esclamò ella, levandosi in piedi. – Mi lasci, la prego, mi lasci chiamare il babbo… Lo denunzierà subito!

Feci in tempo a trattenerla ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora, per giunta, Adriana mi costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi avessero rubato, come niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il furto si conoscesse; pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte, non lo dicesse a nessuno, per carità? Ma che! Adriana – e ora lo intendo bene – non poteva assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al silenzio, non poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia generosità, per tante ragioni: prima per il suo amore, poi per l’onorabilità della sua casa, e anche per me e per l’odio ch’ella portava al cognato.

Ma in quel frangente, la sua giusta ribellione mi parve proprio di più: esasperato, le gridai:

– Lei si starà zitta: gliel’impongo! Non dirà nulla a nessuno, ha capito? Vuole uno scandalo?

– No! no! – s’affrettò a protestare, piangendo, la povera Adriana. – Voglio liberar la mia casa dall’ignominia di quell’uomo!

– Ma egli negherà! – incalzai io. – E allora, lei, tutti di casa innanzi al giudice… Non capisce?

– Si, benissimo! – rispose Adriana con fuoco, tutta vibrante di sdegno. – Neghi, neghi pure! Ma noi, per conto nostro, abbiamo altro, creda, da dire contro di lui. Lei lo denunzii, non abbia riguardo, non tema per noi… Ci farà un bene, creda, un gran bene! Vendicherà la povera sorella mia… Dovrebbe intenderlo, signor Meis, che mi offenderebbe, se non lo facesse. Io voglio, voglio che lei lo denunzii. Se non lo fa lei, lo farò io! Come vuole che io rimanga con mio padre sotto quest’onta! No! no! no! E poi…

Me la strinsi fra le braccia: non pensai più al denaro rubato, vedendola soffrire così, smaniare, disperata: e le promisi che avrei fatto com’ella voleva purché si calmasse. No, che onta? non c’era alcuna onta per lei, né per il suo babbo; io sapevo su chi ricadeva la colpa di quel furto; Papiano aveva stimato che il mio amore per lei valesse bene dodicimila lire, e io dovevo dimostrargli di no? Denunziarlo? Ebbene, sì, l’avrei fatto, non per me, ma per liberar la casa di lei da quel miserabile: sì, ma a un patto: che ella prima di tutto si calmasse, non piangesse più così, via! via! e poi, che mi giurasse su quel che aveva di più caro al mondo, che non avrebbe parlato a nessuno, a nessuno, di quel furto, se prima io non consultavo un avvocato per tutte le conseguenze che, in tanta sovreccitazione, né io né lei potevamo prevedere.

– Me lo giura? Su ciò che ha di più caro?

Me lo giurò, e con uno sguardo, tra le lagrime, mi fece intendere su che cosa me lo giurava, che cosa avesse di più caro.

Povera Adriana!

Rimasi lì, solo, in mezzo alla camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se tutto il mondo per me si fosse fatto vano. Quanto tempo passò prima ch’io mi riavessi? E come mi riebbi? Scemo… scemo!… Come uno scemo, andai a osservare lo sportello dello stipetto, per vedere se non ci fosse qualche traccia di violenza. No: nessuna traccia: era stato aperto pulitamente, con un grimaldello, mentr’io custodivo con tanta cura in tasca la chiave.

– E non si sente lei, – mi aveva domandato il Paleari alla fine dell’ultima seduta, – non si sente lei come se le avessero sottratto qualche cosa?

Dodici mila lire!

Di nuovo il pensiero della mia assoluta impotenza, della mia nullità, mi assalì, mi schiacciò. Il caso che potessero rubarmi e che io fossi costretto a restar zitto e finanche con la paura che il furto fosse scoperto, come se l’avessi commesso io e non un ladro a mio danno, non mi s’era davvero affacciato alla mente.

Dodici mila lire? Ma poche! poche! Possono rubarmi tutto, levarmi fin la camicia di dosso; e io, zitto! Che diritto ho io di parlare? La prima cosa che mi domanderebbero, sarebbe questa: «E voi chi siete? Donde vi era venuto quel denaro?». Ma senza denunziarlo… vediamo un po’! se questa sera io lo afferro per il collo e gli grido: «Qua subito il denaro che hai tolto di là, dallo stipetto, pezzo di ladro!». Egli strilla; nega; può forse dirmi: «Sissignore, eccolo qua, I’ho preso per isbaglio…»? E allora? Ma c’è il caso che mi dia anche querela per diffamazione. Zitto, dunque, zitto! M’è sembrata una fortuna l’esser creduto morto? Ebbene, e sono morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l’ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja di prima, la solitudine, la compagnia di me stesso?

Mi nascosi il volto con le mani; caddi a sedere su la poltrona.

Ah, fossi stato almeno un mascalzone! avrei potuto forse adattarmi a restar così, sospeso nell’incertezza della sorte, abbandonato al caso, esposto a un rischio continuo, senza base, senza consistenza. Ma io? Io, no. E che fare, dunque? Andarmene via? E dove? E Adriana? Ma che potevo fare per lei? Nulla… nulla… Come andarmene però così, senz’alcuna spiegazione, dopo quanto era accaduto? Ella ne avrebbe cercato la causa in quel furto; avrebbe detto: «E perché ha voluto salvare il reo, e punir me innocente?». Ah no, no, povera Adriana! Ma, d’altra parte, non potendo far nulla come sperare di rendere men trista la mia parte verso di lei? Per forza dovevo dimostrarmi inconseguente e crudele. L’inconseguenza, la crudeltà erano della mia stessa sorte, e io per il primo ne soffrivo. Fin Papiano, il ladro, commettendo il furto, era stato più conseguente e men crudele di quel che pur troppo avrei dovuto dimostrarmi io.

Egli voleva Adriana, per non restituire al suocero la dote della prima moglie: io avevo voluto togliergli Adriana? e dunque la dote bisognava che la restituissi io, al Paleari.

Per ladro, conseguentissimo!

Ladro? Ma neanche ladro: perché la sottrazione, in fondo, sarebbe stata più apparente che reale: infatti, conoscendo egli l’onestà di Adriana, non poteva pensare ch’io volessi farne la mia amante: volevo certo farla mia moglie: ebbene allora avrei riavuto il mio denaro sotto forma di dote d’Adriana, e per di più avrei avuto una mogliettina saggia e buona: che cercavo di più?

Oh, io ero sicuro che, potendo aspettare, e se Adriana avesse avuto la forza di serbare il segreto, avremmo veduto Papiano attener la promessa di restituire, anche prima dell’anno di comporto, la dote della defunta moglie.

Quel denaro, è vero, non poteva più venire a me, perché Adriana non poteva esser mia: ma sarebbe andato a lei, se ella ora avesse saputo tacere, seguendo il mio consiglio, e se io mi fossi potuto trattenere ancora per qualche po’ di tempo lì. Molta arte, molta arte avrei dovuto adoperare, e allora Adriana, se non altro, ci avrebbe forse guadagnato questo: la restituzione della sua dote.

M’acquietai un po’, almeno per lei, pensando così. Ah, non per me! Per me rimaneva la crudezza della frode scoperta, quella de la mia illusione, di fronte a cui era nulla il furto delle dodici mila lire, era anzi un bene, se poteva risolversi in un vantaggio per Adriana.

Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con quell’esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po’ di requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo’ affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per me.

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l’ombra, zitta.

L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…

Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.

– Là, cosi! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, si: alza un’anca! alza un’anca!

Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, Sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.

«E se mi metto a correre,» pensai, «mi seguirà!»

Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma si! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.

Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio cosi!

Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.

Rientrando in casa…

XVI. Il ritratto di Minerva

Già prima che mi fosse aperta la porta, indovinai che qualcosa di grave doveva essere accaduto in casa: sentivo gridare Papiano e il Paleari. Mi venne incontro, tutta sconvolta, la Caporale:

– E dunque vero? Dodici mila lire?

M’arrestai, ansante, smarrito. Scipione Papiano, l’epilettico, attraversò in quel momento la saletta d’ingresso, scalzo, con le scarpe in mano, pallidissimo, senza giacca; mentre il fratello strillava di là:

– E ora denunzii! denunzii!

Subito una fiera stizza m’assalì contro Adriana che, non ostante il divieto, non ostante il giuramento, aveva parlato.

– Chi l’ha detto? – gridai alla Caporale. – Non è vero niente: ho ritrovato il denaro!

La Caporale mi guardò stupita:

– Il denaro? Ritrovato? Davvero? Ah, Dio sia lodato! – esclamò, levando le braccia; e corse, seguìta da me, ad annunziare esultante nel salotto da pranzo, dove Papiano e il Paleari gridavano e Adriana piangeva: – Ritrovato! ritrovato! Ecco il signor Meis! Ha ritrovato il denaro!

– Come!

– Ritrovato?

– Possibile?

Restarono trasecolati tutti e tre; ma Adriana e il padre, col volto in fiamme; Papiano, all’incontro, terreo, scontraffatto.

Lo fissai per un istante. Dovevo essere più pallido di lui, e vibravo tutto. Egli abbassò gli occhi, come atterrito, e si lasciò cader dalle mani la giacca del fratello. Gli andai innanzi, quasi a petto, e gli tesi la mano.

– Mi scusi tanto; lei, e tutti… mi scusino, – dissi.

– No! – gridò Adriana, indignata; ma subito si premé il fazzoletto su la bocca.

Papiano la guardò, e non ardì di porgermi la mano. Allora io ripetei:

– Mi scusi… – e protesi ancor più la mano, per sentire la sua, come tremava. Pareva la mano d’un morto, e anche gli occhi, torbidi e quasi spenti, parevano d’un morto.

– Sono proprio dolente, – soggiunsi, – dello scompiglio, del grave dispiacere che, senza volerlo, ho cagionato.

– Ma no… cioè, sì… veramente, – balbettò il Paleari, – ecco, era una cosa che… sì, non poteva essere, perbacco! Felicissimo, signor Meis, sono proprio felicissimo che lei abbia ritrovato codesto denaro, perché…

Papiano sbuffò, si passò ambo le mani su la fronte sudata e sul capo e, voltandoci le spalle, si pose a guardare verso il terrazzino.

– Ho fatto come quel tale… – ripresi, forzandomi a sorridere. – Cercavo l’asino e c’ero sopra. Avevo le dodici mila lire qua, nel portafogli, con me.

Ma Adriana, a questo punto, non poté più reggere:

– Ma se lei, – disse, – ha guardato, me presente, da per tutto, anche nel portafogli; se lì, nello stipetto…

– Sì, signorina, – la interruppi, con fredda e severa fermezza. – Ma ho cercato male, evidentemente, dal punto che le ho ritrovate… Chiedo anzi scusa a lei in special modo, che per la mia storditaggine, ha dovuto soffrire più degli altri. Ma spero che…

– No! no! no! – gridò Adriana, rompendo in singhiozzi e uscendo precipitosamente dalla stanza, seguita dalla Caporale.

– Non capisco… – fece il Paleari, stordito.

Papiano si voltò, irosamente:

– Io me ne vado lo stesso, oggi… Pare che, ormai, non ci sia più bisogno di… di…

S’interruppe, come se si sentisse mancare il fiato; volle volgersi a me, ma non gli bastò l’animo di guardarmi in faccia:

– Io… io non ho potuto, creda, neanche dire di no… quando mi hanno… qua, preso in mezzo… Mi son precipitato su mio fratello che… nella sua incoscienza… malato com’è… irresponsabile, cioè, credo… chi sa! si poteva immaginare, che… L’ho trascinato qua… Una scena selvaggia! Mi son veduto costretto a spogliarlo… a frugargli addosso… da per tutto… negli abiti, fin nelle scarpe… E lui… ah!

Il pianto, a questo punto, gli fece impeto alla gola; gli occhi gli si gonfiarono di lagrime; e, come strozzato dall’angoscia, aggiunse:

– Così hanno veduto che… Ma già, se lei… Dopo questo, io me ne vado!

– Ma no! Nient’affatto! – diss’io allora, – Per causa mia? Lei deve rimanere qua! Me n’andrò io piuttosto!

– Che dice mai, signor Meis? – esclamò dolente, il Paleari.

Anche Papiano, impedito dal pianto che pur voleva soffocare, negò con la mano; poi disse:

– Dovevo… dovevo andarmene; anzi, tutto questo è accaduto perché io… così, innocentemente… annunziai che volevo andarmene, per via di mio fratello che non si può più tenere in casa… Il marchese, anzi, mi ha dato… – l’ho qua – una lettera per il direttore di una casa di salute a Napoli, dove devo recarmi anche per altri documenti che gli bisognano… E mia cognata allora, che ha per lei… meritatamente, tanto… tanto riguardo… è saltata sù a dire che nessuno doveva muoversi di casa… che tutti dovevamo rimanere qua… perché lei… non so… aveva scoperto… A me, questo! al proprio cognato!… l’ha detto proprio a me… forse perché io, miserabile ma onorato, debbo ancora restituire qua, a mio suocero…

– Ma che vai pensando, adesso! – esclamò, interrompendolo, il Paleari.

– No! – raffermò fieramente Papiano. – Io ci penso! ci penso bene, non dubitate! E se me ne vado… Povero, povero, povero Scipione!

Non riuscendo più a frenarsi, scoppiò in dirotto pianto.

– Ebbene, – fece il Paleari, intontito e commosso. – E che c’entra più adesso?

– Povero fratello mio! – seguitò Papiano, con tale schianto di sincerità, che anch’io mi sentii quasi agitare le viscere della misericordia.

Intesi in quello schianto il rimorso, ch’egli doveva provare in quel momento per il fratello, di cui si era servito, a cui avrebbe addossato la colpa del furto, se io lo avessi denunziato, e a cui poc’anzi aveva fatto patir l’affronto di quella perquisizione.

Nessuno meglio di lui sapeva ch’io non potevo, aver ritrovato il danaro ch’egli mi aveva rubato. Quella mia inattesa dichiarazione, che lo salvava proprio nel punto in cui, vedendosi perduto, egli accusava il fratello o almeno lasciava intendere – secondo il disegno che doveva aver prima stabilito – che soltanto questi poteva essere l’autore del furto, lo aveva addirittura schiacciato. Ora piangeva per un bisogno irrefrenabile di dare uno sfogo all’animo così tremendamente percosso, e fors’anche perché sentiva che non poteva stare, se non così, piangente, di fronte a me. Con quel pianto egli mi si prostrava, mi s’inginocchiava quasi ai piedi, ma a patto ch’io mantenessi la mia affermazione, d’aver cioè ritrovato il denaro: che se io mi fossi approfittato di vederlo ora avvilito per tirarmi indietro, mi si sarebbe levato contro, furibondo. Egli – era già inteso – non sapeva e non doveva saper nulla di quel furto, e io, con quella mia affermazione, non salvavo che suo fratello, il quale, in fin de’ conti, ov’io l’avessi denunziato, non avrebbe avuto forse a patir nulla, data la sua infermità; dal canto suo, ecco, egli s’impegnava, come già aveva lasciato intravedere, a restituir la dote al Paleari.

Tutto questo mi parve di comprendere da quel suo pianto. Esortato dal signor Anselmo e anche da me, alla fine egli si quietò; disse che sarebbe ritornato presto da Napoli, appena chiuso il fratello nella casa di salute, liquidate le sue competenze in un certo negozio che ultimamente aveva avviato colà in società con un suo amico, e fatte le ricerche dei documenti che bisognavano al marchese.

– Anzi, a proposito, – conchiuse, rivolgendosi a me. – Chi ci pensava più? Il signor marchese mi aveva detto che, se non le dispiace, oggi… insieme con mio suocero e con Adriana…

– Ah, bravo, sì! – esclamò il signor Anselmo, senza lasciarlo finire. – Andremo tutti… benissimo! Mi pare che ci sia ragione di stare allegri, ora, perbacco! Che ne dice, signor Adriano?

– Per me… – feci io, aprendo le braccia.

– E allora, verso le quattro… Va bene? – propose Papiano, asciugandosi definitivamente gli occhi.

Mi ritirai in camera. Il mio pensiero corse subito ad Adriana, che se n’era scappata singhiozzando, dopo quella mia smentita. E se ora fosse venuta a domandarmi una spiegazione? Certo non poteva credere neanche lei, ch’io avessi davvero ritrovato il denaro. Che doveva ella dunque supporre? Ch’io, negando a quel modo il furto, avevo voluto punirla del mancato giuramento. Ma perché? Evidentemente perché dall’avvocato, a cui le avevo detto di voler ricorrere per consiglio prima di denunziare il furto, avevo saputo che anche lei e tutti di casa sarebbero stati chiamati responsabili di esso. Ebbene, e non mi aveva ella detto che volentieri avrebbe affrontato lo scandalo? Sì: ma io – era chiaro – io non avevo voluto: avevo preferito di sacrificar così dodici mila lire… E dunque, doveva ella credere che fosse generosità da parte mia, sacrifizio per amor di lei? Ecco a quale altra menzogna mi costringeva la mia condizione: stomachevole menzogna, che mi faceva bello di una squisita, delicatissima prova d’amore, attribuendomi una generosità tanto più grande, quanto meno da lei richiesta e desiderata.

Ma no! Ma no! Ma no! Che andavo fantasticando? A ben altre conclusioni dovevo arrivare, seguendo la logica di quella mia menzogna necessaria e inevitabile. Che generosità! che sacrifizio! che prova d’amore! Avrei potuto forse lusingare più oltre quella povera fanciulla? Dovevo soffocarla, soffocarla, la mia passione; non rivolgere più ad Adriana né uno sguardo né una parola d’amore. E allora? Come avrebbe potuto ella mettere d’accordo quella mia apparente generosità col contegno che d’ora innanzi dovevo impormi di fronte a lei. Io ero dunque tratto per forza a profittar di quel furto ch’ella aveva svelato contro la mia volontà e che io avevo smentito, per troncare ogni relazione con lei. Ma che logica era questa? delle due l’una: o io avevo patito il furto, e allora per qual ragione, conoscendo il ladro, non lo denunziavo, e ritraevo invece da lei il mio amore, come se anch’ella ne fosse colpevole? o io avevo realmente ritrovato il denaro, e allora perché non seguitavo ad amarla?

Sentii soffocarmi dalla nausea, dall’ira, dall’odio per me stesso. Avessi almeno potuto dirle che non era generosità la mia; che io non potevo, in alcun modo, denunziare il furto… Ma dovevo pur dargliene una ragione… Eran forse denari rubati, i miei? Ella avrebbe potuto supporre anche questo… O dovevo dirle ch’ero un perseguitato, un fuggiasco compromesso, che doveva viver nell’ombra e non poteva legare alla sua sorte quella d’una donna? Altre menzogne alla povera fanciulla… Ma, d’altra parte, la verità ch’ora appariva a me stesso incredibile, una favola assurda, un sogno insensato, Ia verità potevo io dirgliela? Per non mentire anche adesso, dovevo confessarle d’aver mentito sempre? Ecco a che m’avrebbe condotto la rivelazione del mio stato. E a che pro? Non sarebbe stata né una scusa per me, né un rimedio per lei.

Tuttavia, sdegnato, esasperato com’ero in quel momento, avrei forse confessato tutto ad Adriana, se lei, invece di mandare la Caporale, fosse entrata di persona in camera mia a spiegarmi perché era venuta meno al giurarnento.

La ragione m’era già nota: Papiano stesso me l’aveva detta. La Caporale soggiunse che Adriana era inconsolabile.

– E perché? – domandai, con forzata indifferenza.

– Perché non crede, – mi rispose, – che lei abbia davvero ritrovato il danaro.

Mi nacque lì per lì l’idea (che s’accordava, del resto, con le condizioni dell’animo mio, con la nausea che provavo di me stesso) l’idea di far perdere ad Adriana ogni stima di me, perché non mi amasse più dimostrandomele falso, duro, volubile, interessato… Mi sarei punito così del male che le avevo fatto. Sul momento, sì, le avrei cagionato altro male, ma a fin di bene, per guarirla.

– Non crede? Come no? – dissi, con un tristo riso, alla Caporale. – Dodici mila lire, signorina… e che son rena? crede ella che sarei così tranquillo, se davvero me le avessero rubate?

– Ma Adriana mi ha detto… – si provò ad aggiungere quella.

– Sciocchezze! sciocchezze! – troncai io. – E vero, guardi… sospettai per un momento… Ma dissi pure alla signorina Adriana che non credevo possibile il furto… E difatti, via! Che ragione, del resto, avrei io a dire che ho ritrovato il denaro, se non l’avessi davvero ritrovato?

La signorina Caporale si strinse ne le spalle.

– Forse Adriana crede che lei possa avere qualche ragione per…

– Ma no! ma no! – m’affrettai a interromperla. – Si tratta, ripeto, di dodici mila lire, signorina. Fossero state trenta, quaranta lire, eh via!… Non ho di queste idee generose, creda pure… Che diamine! ci vorrebbe un eroe…

Quando la signorina Caporale andò via, per riferire ad Adriana le mie parole, mi torsi le mani, me le addentai. Dovevo regolarmi proprio così? Approfittarmi di quel furto, come se con quel denaro rubato volessi pagarla, compensarla delle speranze deluse? Ah, era vile questo mio modo d’agire! Avrebbe certo gridato di rabbia, ella, di là, e mi avrebbe disprezzato… senza comprendere che il suo dolore era anche il mio. Ebbene, cosi doveva essere! Ella doveva odiarmi, disprezzarmi, com’io mi odiavo e mi disprezzavo. E anzi per inferocire di più contro me stesso, per far crescere il suo disprezzo, mi sarei mostrato ora tenerissimo verso Papiano, verso il suo nemico, come per compensarlo a gli occhi di lei del sospetto concepito a suo carico. Sì, sì, e avrei stordito così anche il mio ladro, sì, fino a far credere a tutti ch’io fossi pazzo… E ancora più, ancora più: non dovevamo or ora andare in casa del marchese Giglio? ebbene, mi sarei messo, quel giorno stesso, a far la corte alla signorina Pantogada.

– Mi disprezzerai ancor più, cosi, Adriana! gemetti, rovesciandomi sul letto. – Che altro, che altro posso fare per te?

Poco dopo le quattro, venne a picchiare all’uscio della mia camera il signor Anselmo.

– Eccomi, – gli dissi, e mi recai addosso il pastrano. – Son pronto.

– Viene cosi? – mi domandò il Paleari, guardandomi meravigliato.

– Perché? – feci io.

Ma mi accorsi subito che avevo ancora in capo il berrettino da viaggio, che solevo portare per casa. Me lo cacciai in tasca e tolsi dall’attaccapanni il cappello, mentre il signor Anselmo rideva, rideva come se lui…

– Dove va, signor Anselmo?

– Ma guardi un po’ come stavo per andare anch’io – rispose tra le risa, additandomi le pantofole ai piedi. – Vada, vada di là; c’è Adriana…

– Viene anche lei? – domandai.

– Non voleva venire, – disse, avviandosi per la sua camera, il Paleari. – Ma l’ho persuasa. Vada: è nel salotto da pranzo, già pronta…

Con che sguardo duro, di rampogna, m’accolse in quella stanza la signorina Caporale! Ella, che aveva tanto sofferto per amore e che s’era sentita tante volte confortare dalla dolce fanciulla ignara, ora che Adriana sapeva, ora che Adriana era ferita, voleva confortarla lei a sua volta, grata, premurosa; e si ribellava contro di me, perché le pareva ingiusto ch’io facessi soffrire una così buona e bella creatura. Lei, sì, lei non era bella e non era buona, e dunque se gli uomini con lei si mostravano cattivi, almeno un’ombra di scusa potevano averla. Ma perché far soffrire cosi Adriana?

Questo mi disse il suo sguardo, e m’invitò a guardar colei ch’io facevo soffrire.

Com’era pallida! Le si vedeva ancora negli occhi che aveva pianto. Chi sa che sforzo, nell’angoscia, le era costato il doversi abbigliare per uscire con me…

Non ostante l’animo con cui mi recai a quella visita, la figura e la casa del marchese Giglio d’Auletta mi destarono una certa curiosità.

Sapevo che egli stava a Roma perché, ormai, per la restaurazione del Regno delle Due Sicilie non vedeva altro espediente se non nella lotta per il trionfo del potere temporale: restituita Roma al Pontefice, l’unità d’Italia si sarebbe sfasciata, e allora… chi sa! Non voleva arrischiar profezie, il marchese. Per il momento, il suo cómpito era ben definito: lotta senza quartiere, là, nel campo clericale. E la sua casa era frequentata dai più intransigenti prelati della Curia, dai paladini più fervidi del partito nero.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
290 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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