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Читать книгу: «La coscienza di Zeno», страница 28

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Ma il Paoli non credeva che si trattasse di zucchero. Voleva rivedermi il giorno appresso dopo di aver analizzato quel liquido per polarizzazione.

Io, intanto, me ne andai glorioso, carico di diabete. Fui in procinto di andare dal dottor S. a domandargli com’egli avrebbe ora analizzato nel mio seno le cause di tale malattia per annullarle. Ma di quell’individuo ne avevo avuto abbastanza e non volevo rivederlo neppure per deriderlo.

Devo confessare che il diabete fu per me una grande dolcezza. Ne parlai ad Augusta ch’ebbe subito le lacrime agli occhi:

– Hai parlato tanto di malattie in tutta la tua vita, che dovevi pur finire coll’averne una! – disse; poi cercò di consolarmi.

Io amavo la mia malattia. Ricordai con simpatia il povero Copler che preferiva la malattia reale all’immaginaria. Ero oramai d’accordo con lui. La malattia reale era tanto semplice: bastava lasciarla fare. Infatti, quando lessi in un libro di medicina la descrizione della mia dolce malattia, vi scopersi come un programma di vita (non di morte!) nei varii suoi stadii. Addio propositi: finalmente ne ero libero. Tutto avrebbe seguito la sua via senz’alcun mio intervento.

Scopersi anche che la mia malattia era sempre o quasi sempre molto dolce. Il malato mangia e beve molto e di grandi sofferenze non ci sono se si bada di evitare i bubboni. Poi si muore in un dolcissimo coma.

Poco dopo il Paoli mi chiamò al telefono. Mi comunicò che non v’era traccia di zucchero. Andai da lui il giorno appresso e mi prescrisse una dieta che non seguii che per pochi giorni e un intruglio che descrisse in una ricetta illeggibile e che mi fece bene per un mese intero.

– Il diabete le ha fatto molta paura? – mi domandò sorridendo.

Protestai, ma non gli dissi che ora che il diabete m’aveva abbandonato mi sentivo molto solo. Non m’avrebbe creduto.

In quel torno di tempo mi capitò in mano la celebre opera del dottor Beard sulla nevrastenia. Seguii il suo consiglio e cambiai di medicina ogni otto giorni con le sue ricette che copiai con scrittura chiara. Per alcuni mesi la cura mi parve buona. Neppure il Copler aveva avuto in vita sua tale abbondante consolazione di medicinali come io allora. Poi passò anche quella fede, ma intanto io avevo rimandato di giorno in giorno il mio ritorno alla psico-analisi.

M’imbattei poi nel dottor S. Mi domandò se avevo deciso di lasciare la cura. Fu però molto cortese, molto più che non quando mi teneva in mano sua. Evidentemente voleva riprendermi. Io gli dissi che avevo degli affari urgenti, delle quistioni di famiglia che mi occupavano e preoccupavano e che non appena mi fossi trovato in quiete sarei ritornato da lui. Avrei voluto pregarlo di restituirmi il mio manoscritto, ma non osai; sarebbe equivaluto a confessargli che della cura non volevo più saperne. Riservai un tentativo simile ad altra epoca quand’egli si sarebbe accorto che alla cura non ci pensavo più e vi si fosse rassegnato.

Prima di lasciarmi egli mi disse alcune parole intese a riprendermi:

– Se lei esamina il suo animo, lo troverà mutato. Vedrà che ritornerà subito a me solo che s’accorga come io seppi in un tempo relativamente breve avvicinarla alla salute.

Ma io, in verità, credo che col suo aiuto, a forza di studiare l’animo mio, vi abbia cacciato dentro delle nuove malattie.

Sono intento a guarire della sua cura. Evito i sogni ed i ricordi. Per essi la mia povera testa si è trasformata in modo da non saper sentirsi sicura sul collo. Ho delle distrazioni spaventose. Parlo con la gente e mentre dico una cosa tento involontariamente di ricordarne un’altra che poco prima dissi o feci e che non ricordo più o anche un mio pensiero che mi pare di un’importanza enorme, di quell’importanza che mio padre attribuì a quei pensieri ch’ebbe poco prima di morire e che pur lui non seppe ricordare.

Se non voglio finire al manicomio, via con questi giocattoli.

15 Maggio 1915

Passammo due giorni di festa a Lucinico nella nostra villa. Mio figlio Alfio deve rimettersi di un’influenza e resterà nella villa con la sorella per qualche settimana. Noi ritorneremo qui per le Pentecoste.

Sono riuscito finalmente di ritornare alle mie dolci abitudini, e a cessar di fumare. Sto già molto meglio dacché ho saputo eliminare la libertà che quello sciocco di un dottore aveva voluto concedermi. Oggi che siamo alla metà del mese sono rimasto colpito della difficoltà che offre il nostro calendario ad una regolare e ordinata risoluzione. Nessun mese è uguale all’altro. Per rilevare meglio la propria risoluzione si vorrebbe finire di fumare insieme a qualche cosa d’altro, il mese p.e. Ma salvo il Luglio e Agosto e il Dicembre e il Gennaio non vi sono altri mesi che si susseguano e facciano il paio in quanto a quantità di giorni. Un vero disordine nel tempo!

Per raccogliermi meglio passai il pomeriggio del secondo giorno solitario alle rive dell’Isonzo. Non c’è miglior raccoglimento che star a guardare un’acqua corrente. Si sta fermi e l’acqua corrente fornisce lo svago che occorre perché non è uguale a se stessa nel colore e nel disegno neppure per un attimo.

Era una giornata strana. Certamente in alto soffiava un forte vento perché le nubi vi mutavano continuamente di forma, ma giù l’atmosfera non si moveva. Avveniva che di tempo in tempo, traverso le nubi in movimento, il sole già caldo trovasse il pertugio per inondare dei suoi raggi questo o quel tratto di collina o una cima di montagna, dando risalto al verde dolce del Maggio in mezzo all’ombra che copriva tutto il paesaggio. La temperatura era mite ed anche quella fuga di nubi nel cielo, aveva qualche cosa di primaverile. Non v’era dubbio: il tempo stava risanando!

Fu un vero raccoglimento il mio, uno di quegl’istanti rari che l’avara vita concede, di vera grande oggettività in cui si cessa finalmente di credersi e sentirsi vittima. In mezzo a quel verde rilevato tanto deliziosamente da quegli sprazzi di sole, seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia. La donna vi ebbe un’importanza enorme. Magari a pezzi, i suoi piedini, la sua cintura, la sua bocca, riempirono i miei giorni. E rivedendo la mia vita e anche la mia malattia le amai, le intesi! Com’era stata più bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani, coloro che picchiavano o avrebbero voluto picchiare la loro donna ogni giorno salvo in certi momenti. Io, invece, ero stato accompagnato sempre dall’amore. Quando non avevo pensato alla mia donna, vi avevo pensato ancora per farmi perdonare che pensavo anche alle altre. Gli altri abbandonavano la donna delusi e disperando della vita. Da me la vita non fu mai privata del desiderio e l’illusione rinacque subito intera dopo ogni naufragio, nel sogno di membra, di voci, di atteggiamenti più perfetti.

In quel momento ricordai che fra le tante bugie che avevo propinate a quel profondo osservatore ch’era il dottor S., c’era anche quella ch’io non avessi più tradita mia moglie dopo la partenza di Ada. Anche su questa bugia egli fabbricò le sue teorie. Ma là, alla riva di quel fiume, improvvisamente, con spavento, ricordai ch’era vero che da qualche giorno, forse dacché avevo abbandonata la cura, io non avevo ricercata la compagnia di altre donne. Che fossi stato guarito come il dottor S. pretende? Vecchio come sono, da un pezzo le donne non mi guardano più. Se io cesso dal guardare loro, ecco che ogni relazione fra di noi è tagliata.

Se un dubbio simile mi fosse capitato a Trieste, avrei saputo solverlo subito. Qui era alquanto più difficile.

Pochi giorni prima avevo avuto in mano il libro di memorie del Da Ponte, l’avventuriere contemporaneo del Casanova. Anche lui era passato certamente per Lucinico ed io sognai d’imbattermi in quelle sue dame incipriate dalle membra celate dalla crinolina. Dio mio! Come facevano quelle donne ad arrendersi così presto e tanto di frequente essendo difese da tutti quegli stracci?

Mi parve che il ricordo della crinolina, ad onta della cura, fosse abbastanza eccitante. Ma il mio era un desiderio alquanto fatturato e non bastò a rassicurarmi.

L’esperienza che cercavo l’ebbi poco dopo e fu sufficiente per rassicurarmi, ma non mi costò poco. Per averla, turbai e guastai la relazione più pura che avessi avuta nella mia vita.

M’imbattei in Teresina, la figlia anziana del colono di una tenuta situata accanto alla mia villa. Il padre, da due anni, era rimasto vedovo e la sua numerosa figliuolanza aveva ritrovata la madre in Teresina, una robusta fanciulla che si levava di mattina per lavorare, e cessava il lavoro per coricarsi e raccogliersi per poter riprendere il lavoro. Quel giorno essa guidava l’asinello di solito affidato alle cure del fratellino e camminava accanto al carretto carico di erba fresca, perché il non grande animale non avrebbe saputo portare su per l’erta lieve anche il peso della fanciulla.

L’anno prima Teresina m’era sembrata tuttavia una bimba e non avevo avuta per lei che una simpatia sorridente e paterna. Ma anche il giorno prima, quando l’avevo rivista per la prima volta, ad onta che l’avessi ritrovata cresciuta, la bruna faccina divenuta più seria, le esili spalle allargate sopra il seno che andava arcuandosi nello sviluppo parco del piccolo corpo affaticato, avevo continuato a vederla una bimba immatura di cui non potevo amare che la straordinaria attività e l’istinto materno di cui fruivano i fratellini. Se non ci fosse stata quella maledetta cura e la necessità di verificare subito in quale stato si trovasse la mia malattia, anche quella volta avrei potuto lasciare Lucinico senz’aver turbata tanta innocenza.

Essa non aveva la crinolina. E la faccina pienotta e sorridente non conosceva la cipria. Aveva i piedi nudi e faceva vedere nuda anche metà della gamba. La faccina e i piedini e la gamba non seppero accendermi. La faccia e le membra che Teresina lasciava vedere erano dello stesso colore; all’aria appartenevano tutte e non c’era niente di male che all’aria fossero abbandonate. Forse perciò non riuscivano ad accendermi. Ma al sentirmi tanto freddo mi spaventai. Che dopo la cura mi fosse occorsa la crinolina?

Cominciai coll’accarezzare l’asinello cui avevo procurato un po’ di riposo. Poi tentai di ritornare a Teresina e le misi in mano niente meno che dieci corone. Era il primo attentato! L’anno prima, a lei e ai suoi fratellini, per esprimere loro il mio affetto paterno, avevo messo nelle manine solo dei centesimi. Ma si sa che l’affetto paterno è altra cosa. Teresina fu stupita del ricco dono. Accuratamente sollevò il suo gonnellino per riporre in non so che tasca celata il prezioso pezzo di carta. Così vidi un ulteriore pezzo di gamba, ma anch’esso sempre bruno e casto.

Ritornai all’asinello e gli diedi un bacio sulla testa. La mia affettuosità provocò la sua. Allungò il muso ed emise il suo grande grido d’amore che io ascoltai sempre con rispetto. Come varca le distanze e com’è significante con quel primo grido che invoca e si ripete, attenuandosi poi e terminando in un pianto disperato. Ma sentito così da vicino, mi fece dolere il timpano.

Teresina rideva e il suo riso m’incoraggiò. Ritornai a lei e subito l’afferrai per l’avambraccio sul quale salii con la mano, lento, verso la spalluccia, studiando le mie sensazioni. Grazie al cielo non ero guarito ancora! Avevo cessata la cura in tempo.

Ma Teresina con una legnata fece procedere l’asino per seguirlo e lasciarmi.

Ridendo di cuore perché io restavo lieto anche se la villanella non voleva saperne di me, le dissi:

– Hai lo sposo? Dovresti averlo. E peccato tu non l’abbia già!

Sempre allontanandosi da me, essa mi disse:

– Se ne prendo uno, sarà certamente più giovine di lei!

La mia letizia non s’offuscò per questo. Avrei voluto dare una lezioncina a Teresina e cercai di ricordarmi come da Boccaccio «Maestro Alberto da Bologna onestamente fa vergognare una donna la quale lui d’esser di lei innamorato voleva far vergognare». Ma il ragionamento di Maestro Alberto non ebbe il suo effetto perché Madonna Malgherida de’ Ghisolieri gli disse: «Il vostro amor m’è caro sì come di savio e valente uomo esser dee; e per ciò, salva la mia onestà, come a cosa vostra ogni vostro piacere imponete sicuramente».

Tentai di fare di meglio:

– Quando ti dedicherai ai vecchi, Teresina? – gridai per essere inteso da lei che m’era già lontana.

– Quando sarò vecchia anch’io, – urlò essa ridendo di gusto e senza fermarsi.

– Ma allora i vecchi non vorranno più saperne di te. Ascoltami! Io li conosco!

Urlavo, compiacendomi del mio spirito che veniva direttamente dal mio sesso.

In quel momento, in qualche punto del cielo le nubi s’apersero e lasciarono passare dei raggi di sole che andarono a raggiungere Teresina che oramai era lontana da me di una quarantina di metri e di me più in alto di una decina o più. Era bruna, piccola, ma luminosa!

Il sole non illuminò me! Quando si è vecchi si resta all’ombra anche avendo dello spirito.

26 Giugno 1915

La guerra m’ha raggiunto! Io che stavo a sentire le storie di guerra come se si fosse trattato di una guerra di altri tempi di cui era divertente parlare, ma sarebbe stato sciocco di preoccuparsi, ecco che vi capitai in mezzo stupefatto e nello stesso tempo stupito di non essermi accorto prima che dovevo esservi prima o poi coinvolto. Io avevo vissuto in piena calma in un fabbricato di cui il pianoterra bruciava e non avevo previsto che prima o poi tutto il fabbricato con me si sarebbe sprofondato nelle fiamme.

La guerra mi prese, mi squassò come un cencio, mi privò in una sola volta di tutta la mia famiglia ed anche del mio amministratore. Da un giorno all’altro io fui un uomo del tutto nuovo, anzi, per essere più esatto, tutte le mie ventiquattr’ore furono nuove del tutto. Da ieri sono un po’ più calmo perché finalmente, dopo l’attesa di un mese, ebbi le prime notizie della mia famiglia. Si trova sana e salva a Torino mentre io già avevo perduta ogni speranza di rivederla.

Devo passare la giornata intera nel mio ufficio. Non vi ho niente da fare, ma gli Olivi, quali cittadini italiani, hanno dovuto partire e tutti i miei pochi migliori impiegati sono andati a battersi di qua o di là e perciò devo restare al mio posto quale sorvegliante. Alla sera vado a casa carico delle grosse chiavi del magazzino. Oggi che mi sento tanto più calmo, portai con me in ufficio questo manoscritto che potrebbe farmi passar meglio il lungo tempo. Infatti esso mi procura un quarto d’ora meraviglioso in cui appresi che ci fu a questo mondo un’epoca di tanta quiete e silenzio da permettere di occuparsi di giocattoletti simili.

Sarebbe anche bello che qualcuno m’invitasse sul serio di piombare in uno stato di mezza coscienza tale da poter rivivere anche soltanto un’ora della mia vita precedente. Gli riderei in faccia. Come si può abbandonare un presente simile per andare alla ricerca di cose di nessun’importanza? A me pare che soltanto ora sono staccato definitivamente dalla mia salute e dalla mia malattia. Cammino per le vie della nostra misera città, sentendo di essere un privilegiato che non va alla guerra e che trova ogni giorno quello che gli occorre per mangiare. In confronto a tutti mi sento tanto felice – specie dacché ebbi notizie dei miei – che mi sembrerebbe di provocare l’ira degli dei se stessi anche perfettamente bene.

La guerra ed io ci siamo incontrati in un modo violento, ma che adesso mi pare un poco buffo.

Augusta ed io eravamo ritornati a Lucinico a passarvi le Pentecoste insieme ai figliuoli. Il 23 di Maggio io mi levai in buon’ora. Dovevo prendere il sale di Carlsbad e fare anche una passeggiata prima del caffè. Fu durante questa cura a Lucinico che m’accorsi che il cuore, quando si è a digiuno, attende più attivamente ad altre riparazioni irraggiando su tutto l’organismo un grande benessere. La mia teoria doveva perfezionarsi quel giorno stesso in cui mi si costrinse di soffrire la fame che mi fece tanto bene.

Augusta, per salutarmi, levò la testa tutta bianca dal guanciale e mi ricordò che avevo promesso a mia figlia di procurarle delle rose. Il nostro unico rosaio era appassito e bisognava perciò provvedere. Mia figlia s’è fatta una bella fanciulla e somiglia ad Ada. Da un momento all’altro, con essa avevo dimenticato il fare dell’educatore burbero ed ero passato a quello del cavaliere che rispetta la femminilità anche nella propria figliuola. Subito essa s’accorse del suo potere e con grande divertimento mio e d’Augusta ne abusò. Voleva delle rose e bisognava procurargliene.

Mi proposi di camminare per un due orette. Faceva un bel sole e visto che il mio proposito era di camminare sempre e di non arrestarmi finché non ero ritornato a casa, non presi meco neppure la giubba e il cappello. Per fortuna ricordai che avrei dovuto pagare le rose e non lasciai perciò a casa insieme alla giubba anche il portafoglio.

Prima di tutto mi recai alla campagna vicina, dal padre di Teresina, per pregarlo di tagliare le rose che sarei venuto a prendere al mio ritorno. Entrai nel grande cortile cinto da un muro alquanto rovinato e non vi trovai nessuno. Urlai il nome di Teresina. Uscì dalla casa il più piccolo dei bambini che allora avrà avuto sei anni. Posi nella sua manina qualche centesimo ed egli mi raccontò che tutta la famigliuola di buon’ora s’era recata al di là dell’Isonzo, per una giornata di lavoro, su un suo campo di patate di cui la terra aveva bisogno di essere rassodata.

Ciò non mi spiaceva. Io conoscevo quel campo e sapevo che per giungervi abbisognavo di circa un’ora di tempo. Visto che avevo stabilito di camminare per un due ore, mi piaceva di poter attribuire alla mia passeggiata uno scopo determinato. Così non c’era la paura d’interromperla per un assalto improvviso d’infingardaggine. M’avviai traverso la pianura ch’è più alta della strada e di cui perciò non vedevo che i margini e qualche corona d’albero in fiore. Ero veramente giocondo: così in maniche di camicia e senza cappello mi sentivo molto leggero. Aspiravo quell’aria tanto pura e, come usavo spesso da qualche tempo, camminando facevo la ginnastica polmonare del Niemeyer che m’era stata insegnata da un amico tedesco, una cosa utilissima a chi fa una vita piuttosto sedentaria.

Arrivato in quel campo, vidi Teresina che lavorava proprio dalla parte della strada. M’avvicinai a lei e allora m’accorsi che più in là lavoravano insieme al padre i due fratellini di Teresina di un’età che io non avrei saputo precisare, fra’ dieci e i quattordici anni. Nella fatica i vecchi si sentono magari esausti, ma per l’eccitazione che l’accompagna, sempre più giovini che nell’inerzia. Ridendo m’accostai a Teresina:

– Sei ancora in tempo, Teresina. Non tardare.

Essa non m’intese ed io non le spiegai nulla. Non occorreva. Giacché essa non ricordava, si poteva ritornare con lei ai nostri antichi rapporti. Avevo già ripetuto l’esperimento ed aveva avuto anche questa volta un risultato favorevole. Indirizzandole quelle poche parole l’avevo accarezzata altrimenti che col solo occhio.

Col padre di Teresina m’accordai facilmente per le rose. Mi permetteva di tagliarne quante volevo eppoi non si avrebbe litigato per il prezzo. Egli voleva subito ritornare al lavoro mentre io m’accingevo di mettermi sulla via del ritorno, ma poi si pentì e mi corse dietro. Raggiuntomi, a voce molto bassa, mi domandò:

– Lei non ha sentito niente? Dicono sia scoppiata la guerra.

– Già! Lo sappiamo tutti! Da un anno circa, – risposi io.

– Non parlo di quella, – disse lui spazientito. – Parlo di quella con… – e fece un segno dalla parte della vicina frontiera italiana. – Lei non ne sa nulla? – Mi guardò ansioso della risposta.

– Capirai, – gli dissi io con piena sicurezza, – che se io non so nulla vuol proprio dire che nulla c’è. Vengo da Trieste e le ultime parole che sentii colà significavano che la guerra è proprio definitivamente scongiurata. A Roma hanno ribaltato il Ministero che voleva la guerra e ci hanno ora il Giolitti.

Egli si rasserenò immediatamente:

– Perciò queste patate che stiamo coprendo e che promettono tanto bene saranno poi nostre! Vi sono tanti di quei chiacchieroni a questo mondo! – Con la manica della camicia s’asciugò il sudore che gli colava dalla fronte.

Vedendolo tanto contento, tentai di renderlo più contento ancora. Amo tanto le persone felici, io. Perciò dissi delle cose che veramente non amo di rammentare. Asserii che se anche la guerra fosse scoppiata, non sarebbe stata combattuta colà. C’era prima di tutto il mare dove era ora si battessero, eppoi oramai in Europa non mancavano dei campi di battaglia per chi ne voleva. C’erano le Fiandre e varii dipartimenti della Francia. Avevo poi sentito dire – non sapevo più da chi – che a questo mondo c’era oramai tale un bisogno di patate che le raccoglievano accuratamente anche sui campi di battaglia. Parlai molto, sempre guardando Teresina che piccola, minuta, s’era accovacciata sulla terra per tastarla prima di applicarvi la vanga.

Il contadino perfettamente tranquillizzato ritornò al suo lavoro. Io, invece, avevo consegnato una parte della mia tranquillità a lui e ne restava a me molto di meno. Era certo che a Lucinico eravamo troppo vicini alla frontiera. Ne avrei parlato ad Augusta. Avremmo forse fatto bene di ritornare a Trieste e forse andare anche più in là o in qua. Certamente Giolitti era ritornato al potere, ma non si poteva sapere se, arrivato lassù, avrebbe continuato a vedere le cose nella luce in cui le vedeva quando lassù c’era qualcuno d’altro.

Mi rese anche più nervoso l’incontro casuale con un plotone di soldati che marciava sulla strada in direzione di Lucinico. Erano dei soldati non giovini e vestiti ed attrezzati molto male. Dal loro fianco pendeva quella che noi a Trieste dicevamo la Durlindana, quella baionetta lunga che in Austria, nell’estate del 1915, avevano dovuto levare dai vecchi depositi.

Per qualche tempo camminai dietro di loro inquieto d’essere presto a casa. Poi mi seccò un certo odore di selvatico frollo che emanava da loro e rallentai il passo. La mia inquietudine e la mia fretta erano sciocche. Era pure sciocco d’inquietarsi per aver assistito all’inquietudine di un contadino. Oramai vedevo da lontano la mia villa ed il plotone non c’era più sulla strada. Accelerai il passo per arrivare finalmente al mio caffelatte.

Fu qui che cominciò la mia avventura. Ad uno svolto di via, mi trovai arrestato da una sentinella che urlò:

– Zurück! – mettendosi addirittura in posizione di sparare. Volli parlargli in tedesco giacché in tedesco aveva urlato, ma egli del tedesco non conosceva che quella sola parola che ripeté sempre più minacciosamente.

Bisognava andare zurück ed io guardandomi sempre dietro nel timore che l’altro, per farsi intendere meglio, sparasse, mi ritirai con una certa premura che non m’abbandonò neppure quando il soldato non vidi più.

Ma ancora non avevo rinunciato di arrivare subito alla mia villa. Pensai che varcando la collina alla mia destra, sarei arrivato molto dietro la sentinella minacciosa.

L’ascesa non fu difficile specie perché l’alta erba era stata curvata da molta gente che doveva essere passata per di là prima di me. Certamente doveva esservi stata costretta dalla proibizione di passare per la strada. Camminando riacquistai la mia sicurezza e pensai che al mio arrivo a Lucinico mi sarei subito recato a protestare dal capovilla per il trattamento che avevo dovuto subire. Se permetteva che i villeggianti fossero trattati così, presto a Lucinico non ci sarebbe venuto nessuno!

Ma arrivato alla cima della collina, ebbi la brutta sorpresa di trovarla occupata da quel plotone di soldati dall’odore di selvatico. Molti soldati riposavano all’ombra di una casetta di contadini che io conoscevo da molto tempo e che a quell’ora era del tutto vuota; tre di essi parevano messi a guardia, ma non verso il versante da cui io ero venuto, e alcuni altri stavano in un semi circolo dinanzi ad un ufficiale che dava loro delle istruzioni che illustrava con una carta topografica ch’egli teneva in mano.

Io non possedevo neppure un cappello che potesse servirmi per salutare. Inchinandomi varie volte e col mio più bel sorriso, m’appressai all’ufficiale il quale, vedendomi, cessò di parlare coi suoi soldati e si mise a guardarmi. Anche i cinque mammelucchi che lo circondavano mi regalavano tutta la loro attenzione. Sotto tutti quegli sguardi e sul terreno non piano era difficilissimo di moversi.

L’ufficiale urlò:

– Was will der dumme Kerl hier? – (Che cosa vuole quello scimunito?).

Stupito che senz’alcuna provocazione mi si offendesse così, volli dimostrarmi offeso virilmente ma tuttavia con la discrezione del caso, deviai di strada e tentai di arrivare al versante che m’avrebbe portato a Lucinico. L’ufficiale si mise ad urlare che, se facevo un solo passo di più, m’avrebbe fatto tirare adosso. Ridivenni subito molto cortese e da quel giorno a tutt’oggi che scrivo, rimasi sempre molto cortese. Era una barbarie d’essere costretto di trattare con un tomo simile, ma intanto si aveva il vantaggio ch’egli parlava correntemente il tedesco. Era un tale vantaggio che, ricordandolo, riusciva più facile di parlargli con dolcezza. Guai se bestia come era non avesse neppur compreso il tedesco. Sarei stato perduto.

Peccato che io non parlavo abbastanza correntemente quella lingua perché altrimenti mi sarebbe stato facile di far ridere quell’arcigno signore. Gli raccontai che a Lucinico m’aspettava il mio caffelatte da cui ero diviso soltanto dal suo plotone.

Egli rise, in fede mia rise. Rise sempre bestemmiando e non ebbe la pazienza di lasciarmi finire. Dichiarò che il caffelatte di Lucinico sarebbe stato bevuto da altri e quando sentì che oltre al caffè c’era anche mia moglie che m’aspettava, urlò:

– Auch Ihre Frau wird von anderen gegessen werden. – (Anche vostra moglie sarà mangiata da altri).

Egli era oramai di miglior umore di me. Pare poi gli fosse spiaciuto di avermi dette delle parole che, sottolineate dal riso clamoroso dei cinque mammalucchi, potevano apparire offensive; si fece serio e mi spiegò che non dovevo sperare di rivedere per qualche giorno Lucinico ed anzi in amicizia mi consigliava di non domandarlo più perché bastava quella domanda per compromettermi!

– Haben Sie verstanden? – (Avete capito?)

Io avevo capito, ma non era mica facile di adattarsi di rinunziare al caffelatte da cui distavo non più di mezzo chilometro. Solo perciò esitavo di andarmene perché era evidente che quando fossi disceso da quella collina, alla mia villa, per quel giorno, non sarei giunto più. E, per guadagnar tempo, mitemente domandai all’ufficiale:

– Ma a chi dovrei rivolgermi per poter ritornare a Lucinico a prendere almeno la mia giubba e il mio cappello?

Avrei dovuto accorgermi che all’ufficiale tardava di esser lasciato solo con la sua carta e i suoi uomini, ma non m’aspettavo di provocare tanta sua ira.

Urlò, in modo da intronarmi l’orecchie, che m’aveva già detto che non dovevo più domandarlo. Poi m’impose di andare dove il diavolo vorrà portarmi (wo der Teufel Sie tragen will). L’idea di farmi portare non mi spiaceva molto perché ero molto stanco, ma esitavo ancora. Intanto però l’ufficiale a forza d’urlare s’accese sempre più e con accento di grande minaccia chiamò a sé uno dei cinque uomini che l’attorniavano e appellandolo signor caporale gli diede l’ordine di condurmi già della collina e di sorvegliarmi finché non fossi sparito sulla via che conduce a Gorizia, tirandomi addosso se avessi esitato ad ubbidire.

Perciò scesi da quella cima piuttosto volontieri:

– Danke schön, – dissi anche senz’alcun’intenzione d’ironia.

Il caporale era uno slavo che parlava discretamente l’italiano. Gli parve di dover essere brutale in presenza dell’ufficiale e, per indurmi a precederlo nella discesa, mi gridò:

– Marsch! – Ma quando fummo un po’ più lontani si fece dolce e familiare. Mi domandò se avevo delle notizie sulla guerra e se era vero ch’era imminente l’intervento italiano. Mi guardava ansioso in attesa della risposta.

Dunque neppure loro che la facevano sapevano se la guerra ci fosse o no! Volli renderlo più felice che fosse possibile e gli diedi le notizie che avevo propinate anche al padre di Teresina. Poi mi pesarono sulla coscienza. Nell’orrendo temporale che scoppiò, probabilmente tutte le persone ch’io rassicurai perirono. Chissà quale sorpresa ci sarà stata sulla loro faccia cristallizzata dalla morte. Era un ottimismo incoercibile il mio. Non avevo sentita la guerra nelle parole dell’ufficiale e meglio ancora nel loro suono?

Il caporale si rallegrò molto e, per compensarmi, mi diede anche lui il consiglio di non tentare più di arrivare a Lucinico. Date le notizie mie, egli riteneva che le disposizioni che m’impedivano di rincasare sarebbero state levate il giorno appresso. Ma intanto mi consigliava di andare a Trieste al Platzkommando dal quale forse avrei potuto ottenere un permesso speciale.

– Fino a Trieste? – domandai io spaventato. – A Trieste, senza giubba, senza cappello e senza caffelatte?

A quanto ne sapeva il caporale, mentre parlavamo, un fitto cordone di fanteria chiudeva il transito per l’Italia, creando una nuova ed insuperabile frontiera. Con un sorriso di persona superiore mi dichiarò che, secondo lui, la via più breve per Lucinico era quella che conduceva oltre Trieste.

A forza di sentirmelo dire, io mi rassegnai e m’avviai verso Gorizia pensando di prendere il treno del mezzodì per recarmi a Trieste. Ero agitato, ma devo dire che mi sentivo molto bene. Avevo fumato poco e non mangiato affatto. Mi sentivo di una leggerezza che da lungo tempo m’era mancata. Non mi dispiaceva affatto di dover ancora camminare. Mi dolevano un poco le gambe, ma mi pareva che avrei potuto reggere fino a Gorizia, tanto era libero e profondo il mio respiro. Scaldatemi le gambe con un buon passo, il camminare infatti non mi pesò. E nel benessere, battendomi il tempo, allegro perché insolitamente celere, ritornai al mio ottimismo. Minacciavano di qua, minacciavano di là, ma alla guerra non sarebbero giunti. Ed è così che, quando giunsi a Gorizia, esitai se non avessi dovuto stabilire una stanza all’albergo nella quale passare la notte e ritornare il giorno appresso a Lucinico per presentare le mie rimostranze al capovilla.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
540 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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