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Читать книгу: «Eros», страница 8

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XXIX

La contessa avea promesso ad Alberto di scrivergli; ma non ne avea fatto nulla. Ella fu alcun poco sorpresa e, diciamolo pure, anche indispettita, di non veder giungere nessuna lettera del marchesino. Questi, dall’altro lato, incaponivasi a non scriverle, perché ella non s’era curata di mandargli un sol rigo – ed entrambi, senza avvedersene, si tenevano il broncio, proprio come due innamorati. La donna combatteva anche colla curiosità di figlia d’Eva, e fu vinta la prima.

“Amico mio – gli scrisse – è morto? è vivo? dov’è? Poiché i giornali non recano notizia di lei, permetterà alla sua amica che se ne informi direttamente. Ha dunque seguito il mio consiglio? Innamorato diggià? O s’è fatto trappista? Promise di venirmi a trovare sul lago verso la metà di settembre, e siamo già alla fine.”

Al ricevere questa lettera Alberto s’era rammentato dei dolci e melanconici tramonti sull’Arno, quando la contessa gli stava accanto pensierosa; ma leggendone il contenuto cadde dal settimo cielo, e come un fanciullo che era, ebbe la temerità di voler lottare sul medesimo terreno e colle armi medesime con chi era piú forte di lui. Rispose:

“Ho seguito i suoi consigli: ho viaggiato! sono a Milano, e mi diverto mezzo mondo. Sono innamorato con giudizio di una bella tosa che avevo conosciuta ad un veglione della Pergola, e che rividi qui in una certa cena che un mio amico – ho molti amici – il quale prende moglie, ci dava per farla finita colle follie. Si chiama Selene – l’amata – (bel nome da palcoscenico, n’è vero?) ballerina al regio teatro della Scala, prima quadriglia, marcia in punta di piedi come niente fosse, e ci vogliamo un bene da non dire. Vedendomi, ella mi riconobbe subito, e fece un oh! che ci rendeva amici vecchi. Mi chiama Biondino. La nostra amicizia è stata facile e pronta, ed è per questo senza una nube. Ella vede dunque, amica mia, che non c’è nulla da temere per la mia testa. Noi non ci strappiamo i capelli, non abbiamo piú il meschino geloso da sfidare, o il piú piccolo balcone da scalare; non c’è la piú innocente lagrima, neppur l’ombra di una vera e grande passione… Ma tant’è, si campa lo stesso. La mia Selene è molto bella – nient’altro – e mi dice molte cose gentili alla sua maniera – fra le altre che mi vorrebbe bene, fossi anche povero come Giobbe, e che il mio portamonete non ci ha nulla a vedere nella mia felicità. Io le credo sulla parola, e l’ho divezzata dalla birra. Ella m’insegna un po’ di meneghino, cosí ci perfezioniamo a vicenda. Alcune volte, è vero, rimane a fissarmi con tanto d’occhi spalancati – ha occhioni magnifici – come se le stessi a parlar turco; ma sarà perché non capisce bene il mio toscano, o perché l’annoio colle mie fantasie -ma le son fantasie e passeranno. A proposito di fantasie, sa? la contessina Manfredini è andata a Castellamare col principe Metelliani – e la mamma, ben inteso. – Son passati per Firenze. Tutti dicevano colà che ci ritornerà o principessa o morta.

“Conclusione: Se mi facessi trappista non avrei torto?”

La contessa stava per rispondere con una lettera che incominciava: “Ella è proprio sulla via di farsi trappista!”. Ma si pentí e stracciò il foglio. Alberto, che cuocevasi d’avere una risposta, dopo due giorni non seppe piú continuare la sua parte, e scrisse:

“Contessa mia, non so davvero perché, ma son triste come un mortorio; quella povera ragazza non ci ha colpa, ma io nemmeno. Ho deciso di cambiar aria, ed ho bisogno che Ella mi sgridi e mi consigli come un ragazzo che sono. Mi rammento che costà, sulle rive del Lario, ci dev’essere una certa mia villetta, la quale era destinata ad essere il mio nido nuziale. Scaccio la paura delle nozze, e vengo a rannicchiarmi domani stesso: ne avremo 30 del mese. Giacché è scritto che le mie visite debbano giungere sempre in ritardo, vorrà permettermi di presentarmi a lei domani nella serata?”.

Leggendo quella lettera la contessa sorrise, e poi si fece seria. Rilesse due o tre volte le poche righe, consultò il calendario, si mise al tavolino per iscrivere, e infine chiuse la lettera nel cassetto, e si alzò.

XXX

La giornata era stata calda e burrascosa, ma la sera era incantevole. La luna sorgeva dietro i monti, alcune bianche nuvolette erano ancor disseminate pel cielo, il lago sembrava color d’acciaio, solcato qua e là da bianche strisce luminose; di quando in quando, a lunghi intervalli, un soffio di fresca brezza faceva stormire gli alberi e fiottare le acque sommessamente.

La contessa Armandi avea passato una di quelle giornate bisbetiche nelle quali avrebbe dato non so che cosa per poter dire che aveva l’emicrania: s’era sentita stanca, inquieta, nervosa, uggita; s’era aggirata pel salotto, si era guardata nello specchio, s’era messa alla finestra, poi avea cominciato a leggere, avea buttato il libro da banda e s’era appoggiata all’étagère, a guardare sbadigliando la lancetta dell’orologio, ed era rimasta a guardarla mezz’ora senza accorgersene. Infine aprí il pianoforte, e si mise a suonare, dapprima svogliatamente. Ad un tratto udí gente al cancello; allora fece un movimento.

«Il marchese Alberti» annunziò il domestico.

La contessa assentí del capo, senza voltarsi, e continuò a suonare.

Alberto entrò, si accostò al piano, e si mise dietro a lei; ella lo salutò con un cenno del capo, senza volger gli occhi su di lui, animandosi contro una difficoltà di Schubert.

Infine smise bruscamente di suonare, e si alzò.

«Che peccato!» esclamò Alberto. «Continui, la prego!»

«No, mi annoia… Come sta?»

«Benissimo; ma ella non sta bene.»

«Io? s’inganna. Com’è venuto?»

«In barca, dal lago. Ho sentito la sua musica accostandomi alla villa, e avrei fatto meglio standomene ad ascoltare laggiú…»

«Avrebbe fatto peggio, perché m’annoiavo orribilmente. Le piace quel pezzo?»

«Moltissimo.»

«Lo suoni adunque.»

«Volentieri, se lo desidera.»

«Non per me!» diss’ella voltandogli le spalle.

«Per chi, allora?»

«Ma… per coloro che sono sul lago… pei pescatori.»

Alberto era rimasto immobile; indi le si avvicinò e andò a sedere presso di lei, che s’era messa sul canapè, scartabellando un libro nuovo.»

«Cos’ha?» le domandò piano, dopo avere atteso inutilmente ch’ella levasse gli occhi.

«Nulla. Cosa mi trova? È stata una brutta giornataccia, ecco tutto.»

«E son venuto in un brutto momentaccio?»

«Al contrario, l’aspettavo.»

«Cosa legge?»

«Una sciocchezza» e buttò via il libro: «suoni qualcosa, dunque!»

«Cosa desidera che suoni?

«Quel che vuole… Quell’Addio di Schubert.»

«Ma se non le piace…»

Ella si strinse nelle spalle con un movimento inimitabile. Alberti si mise al piano. L’Armandi s’appoggiò al leggio, poi incominciò a leggere della musica, infine andò a riprendere il libro che avea buttato via.

Alberti si volse, smise di suonare, e stette alcuni minuti cogli occhi fissi su di lei, il gomito appoggiato al pianoforte e la fronte sulla mano. Ad un tratto si alzò, e si avvicinò al canapè.

«Avete finito?» domandò l’Armandi levando gli occhi con sorpresa su di lui.

«Sí, non se n’era accorta?».

Ella sorrise, e chiuse il libro.

«Cosa fa a Bellagio? c’è molta gente? si diverte? si annoia?»

«Sí» rispose Alberto sbadatamente.

L’Armandi gli rivolse uno sguardo fra il distratto e il penetrante, e si diede da fare per rassettare gli oggetti che erano sulla tavola.

«La sera è bella?» domandò poscia senza pensare a quel che diceva.

Ei volse gli occhi alla finestra spalancata, che incorniciava il piú bel chiaro di luna, e rispose:

«Bellissima.»

«È stato sul lago, oggi?»

«Son venuto in barca, gliel’ho detto.»

Il discorso, privo d’alimento, cadde del tutto. La contessa si guardava attorno, come cercando un pretesto per rompere quel silenzio.

«Sul tavolino ci son dei sigari» gli disse «fumi pure, siamo in campagna.»

«Grazie.»

«Mi racconti che c’è di nuovo? Cosa si dice da quelle parti?»

«Si dice che i bigatti vanno benone.»

«Ah! Avremo della seta a buon mercato dunque?»

«Certamente!»

«Che fortuna!»

Improvvisamente l’uscio s’aprí, ed entrò correndo una graziosa bambina di quasi cinque anni, che andò a buttarsi nelle braccia della contessa.

«Adagio, cara!» esclamò la madre baciandola. «Cosa dirà il signore di una bimba che entra cosí all’impazzata?»

La bambina si volse a guardare il signore coi grandi occhi timidi e curiosi. Alberto le disse cingendola colle braccia:

«Mi permette che le dia un bel bacio, signorina?»

La bambina seria seria acconsenti col capo, e sporse la guancia rosea.

«Com’è bella, e come le somiglia!» disse Alberto baciandola.

La contessa suonò un po’ vivamente, e consegnò la figlia alla governante.

«Perché rimandarla?…» domandò Alberto, sorpreso da quel brusco congedo.

«È tardi per lei, sono quasi le dieci» rispose ella secco secco.

Alberti si alzò.

«Ma io non sono una ragazzina!» disse ridendo la contessa, e ritirò la mano che egli le stringeva per andarsene.

«Son venuto in un cattivo momento davvero!»

«No.»

«Non la disturbo?»

«Parli, taccia, legga, suoni, ma non mi lasci sola con la mia noia, ché sarei capace di buttarmi nel lago» diss’ella col medesimo sorriso.

«Tanto meglio!»

L’Armandi gli rivolse una tacita interrogazione, e si appoggiò alla spalliera del canapè, contemplando i disegni della ventola.

Successe un lungo silenzio.

«E la sua ballerina?» domandò quasi sbadatamente.

«Sta benissimo» rispose Alberti senza levare gli occhi dall’album.

E tacquero nuovamente.

Tutt’a un tratto Alberti le piantò gli occhi in viso e domandò:

«Perché mi domanda della mia ballerina?»

«Cosí… per parlare di qualche cosa…»

Ei chiuse l’album, si alzò, andò a vedere l’ora che segnava l’orologio, e tornò a sedersi senza aprir bocca.

La contessa l’avea seguito collo sguardo, e s’era fatta pensierosa. Alla sua volta gli piantò gli occhi in faccia anche lei, e gli disse:

«Perché le rincresce che le parli della sua ballerina?»

«Non mi rincresce» rispose Alberti un po’ bruscamente.

«Ho bisogno di rammentarle i nostri patti?» riprese l’Armandi dopo una lieve esitazione. «Non siamo piú amici come prima? Non ho piú il diritto d’interessarmi a lei? di darle dei consigli all’occorrenza? Ella è giovane e pieno di cuore – troppo, forse. – Non le ho detto che quella ragazza le conviene, giacché non è pericolosa per la sua immaginazione?»

«Grazie.»

Successe un lungo silenzio.

«M’ascolti» riprese infine la contessa, mentre Alberti stava a capo chino. «Le ho parlato sempre con tanta schiettezza, che non le ho lasciato nemmeno il diritto di essere ingiusto. Sa che non l’amo, e che non l’amerò giammai, ma che le voglio un gran bene – in un altro modo – e che la sua amicizia mi è carissima. Però il giorno in cui ella mi amerà sarà un gran male, ci pensi! Se avrò un amante lo dirò a lei per primo – nient’altro – per provarle la schiettezza dei miei sentimenti, e costringerla a rimanere quello che desidero ch’ella sia per me. Le basta? Potrà promettermi di mantenere sempre dentro cotesti limiti le nostre relazioni? Ella è un uomo d’onore – parta o rimanga.»

Alberto rimase alcuni istanti silenzioso. Poscia rispose:

«Ha ragione.»

La contessa gli strinse la mano.

«Stasera sono stata bisbetica, e forse anche cattiva» riprese gaiamente. «È affar di nervi; mi perdoni, amico mio. Vuole che le suoni qualche pezzo per ricompensarlo della noia?»

«Sí» rispose egli distratto.

L’Armandi si mise al piano, e suonò lungamente senza interrompersi. Alberti sembrava ascoltasse attentamente, silenziosamente, e quand’ella si alzò, un po’ stanca, non aprí nemmen bocca per ringraziarla.

Lei, seduta nell’angolo piú oscuro, taceva da un pezzo; il silenzio era profondo; di tanto in tanto un soffio di brezza spingeva verso l’interno del salotto le tende del balcone e il profumo dei fiori ch’erano sulla terrazza; dalla finestra aperta vedevasi la superficie del lago incresparsi in strisce argentee.

Infine la contessa si alzò senza dire una parola e andò lentamente sulla terrazza. Alberti la seguí. Si appoggiarono alla balaustrata, guardando il lago. Non si vedeva un lume; mezzanotte suonava lontano.

«Diggià!» mormorò l’Armandi.

Alberto prese il cappello per andarsene. Ella rispose appena al suo saluto, e non si volse nemmeno per vederlo partire. Udí vagamente chiudersi l’uscio del vestibolo, e poco dopo i passi di lui nel viale.

«La sua barca è laggiú?» domandò all’improvviso e con vivacità dall’alto della terrazza.

«Sí.»

«Sa remare?»

«Credo di sí.»

«Rimandi il barcaiuolo, e m’aspetti.»

Dopo pochi momenti egli se la vide comparire dinanzi infilandosi i guanti, con un velo sul capo, il viso bianco e serio, gli occhi luccicanti.

«Sa proprio remare?» replicò brevemente e senza volgere gli occhi su di lui.

«Sí, sí.»

Ella saltò nella barca senza aggiungere altro, e sedette a poppa.

La barchetta scivolò sulle acque tranquille, e allorché furono molto lontani dalla sponda Alberto lasciò i remi. La contessa guardava in silenzio la striscia luminosa che fuggiva dinanzi a loro sulla superficie bruna del lago, e l’acqua che s’increspava scintillante intorno ai remi. Stava mezzo sdraiata sui cuscini, tenendo il capo un po’ arrovesciato indietro sul tappeto che sfiorava le acque, e guardando in alto; di tanto in tanto saettava uno sguardo su di Alberto, che teneva gli occhi rivolti altrove, e non diceva motto. Il silenzio aveva un fascino voluttuoso; quella pallida luce sembrava versare onde di non so qual nebbia seduttrice, un’ora suonava. La donna rivolse indolentemente il capo verso il luogo dove echeggiavano ancora gli ultimi rintocchi e tutt’a un tratto, fissando in volto ad Alberto gli occhi luccicanti, e bruscamente, ridendo quasi ironica, gli disse:

«Marchese Alberti, se in questo momento ci fosse anche in voi il conte Armandi, e se una metà del vostro individuo giurasse all’altra metà di non essere l’amante di vostra moglie, lo credereste?»

Alberto rimase sbalordito. Poi si rizzò di botto, e le disse con voce tremante e soffocata:

«Perché vi trastullate col mio cuore come con un cencio?»

Ella s’era alzata anche lei; si teneva ritta sulla poppa, leggermente pallida, cogli sguardi smarriti, le labbra smorte e sorridenti.

«No, Alberto!… Dico per ischerzo…» rispose con uno scoppiettío convulso.

Ei le afferrò le mani

«Aspettate!» diss’ella seria, risoluta, e con voce concitata. «Giuratemi che non è un capriccio il vostro!»

«Oh!…»

Il brusco movimento di lui minacciò di far rovesciare la barchetta. La contessa vacillò, mise un piccolo grido.

«Non cominciamo dalla fine!» disse.

I primi chiarori dell’alba imbiancavano il cielo quando la barca toccò la sponda. La luna era smorta, il lago sembrava piú scuro; la contessa era pallida, pensosa, sembrava pentita. Saltò vivamente sulla riva per non toccare la mano che il giovane le offriva; spinse la barchetta bruscamente col suo stivalino, e s’incamminò a passo lento verso il cancello, guardando con occhi distratti il lume che ardeva ancora nel salotto.

«Addio» gli disse con voce incerta, senza guardarlo, a capo chino.

XXXI

Alberto s’incamminò lentamente andando alla ventura, col sigaro in bocca, il viso pallido, l’occhio ardente e fisso dinanzi a sé, guardando macchinalmente il lago, i monti, la gente che incontrava. L’aria fresca del mattino facevagli dilatare i polmoni con forza, e sembrava infondergli un’esuberanza di vita. Il canto degli uccelli, i mille profumi dei campi, i primi raggi del sole lo penetravano vagamente, sottilmente, con un’altra fisonomia, quasi gli appartenessero e fossero al mondo soltanto per lui, incarnandosi confusamente in una immagine fitta nel cervello, nel cuore, dinanzi agli occhi. Il suo pensiero era inerte e vertiginoso; tutti gli avvenimenti di quella notte si urtavano confusamente nella sua memoria fra di loro, e l’abbagliavano con una specie di luminosa intermittenza. Non avrebbe saputo esprimere quel che provava, se era felice oppur no, sentiva un gran sbalordimento, un desiderio febbrile, un’immensa gioia tumultuosa, inquieta – e lei, sempre là, dinanzi agli occhi, dentro di sé, dappertutto.

Le vie cominciavano a popolarsi, il lago formicolava di barchette, e Alberti gironzava sempre attorno a quella villa che esercitava un fascino su di lui. Ella doveva esser lí dietro ogni persiana, ansiosa, bramosa come a cercarlo anche lei cogli occhi, colle reminiscenze, colla fantasticheria. Contemplava quella terrazza ov’erano stati insieme quella balaustra alla quale ella s’era appoggiata, quella scalinata per la quale era discesa, quel lago sul quale s’era cullata mollemente la loro barchetta, circondata di tenebre discrete, dolci, misteriose. Tutte quelle cose adesso erano inondate di sole, senza ombre, senza veli, petulanti. – Udiva dentro di sé quella parola “m’aspetti” – e quel piccolo grido soffocato.

Verso le undici non poté piú resistere al desiderio di rivederla, come se l’avesse lasciata da un secolo, ed andò. La cameriera gli disse che dormiva. Ei se lo fece ripetere due volte, quasi non fosse ben sveglio egli pure, e volse le spalle. Poi tornò indietro, e lasciò per lei il suo biglietto di visita, sul quale scrisse in inglese col lapis:

“Invidio voi che potete dormire.”

Andò all’albergo, si buttò sul letto, e dormí due o tre ore un sonno da ubbriaco. Una lettera di lei venne a svegliarlo di soprassalto.

“Amico mio, – diceva – verrete domani alle quattro? Avrò anche la signora Rigalli, e faremo della musica. Conto su di voi. Oggi sono a pranzo dai Corvetti.”

Il carattere era elegante, tracciato con mano sicura, la firma era per intero: “Emilia Armandi”.

Il povero giovane stette mezz’ora voltando e rivoltando fra le mani quel fogliettino profumato, e rileggendo quelle due righe cosí semplici, cosí chiare, che non riusciva a comprendere.

Ei passò tutto il giorno in una specie di sonnolenza e di sbalordimento, pensando a lei, a che cosa stesse facendo, a che cosa fosse accaduto, al perché gli ordinasse di non vederla sino all’indomani, al come ella potesse aspettare sino a questo domani senza soffrire al par di lui. Trasaliva al ricordarsi con miracolosa precisione le parole di lei, il tono della sua voce, il profumo dei suoi capelli; stava guardando il lago, quel medesimo lago che cominciava a farsi bruno, e su cui le stelle cominciavano a scintillare. Fra il disordine delle sue idee ce n’era una piú insistente delle altre: perché ella gli avesse fatto promettere di buttarsi nel lago, e perché poi non gliel’avesse ordinato. Sapeva che non l’avrebbe obbedita, e che quel tale amore lo rendeva vile?

Il giorno dopo, avviandosi verso le quattro alla villa Armandi, incontrò la signora Rigalli che andava ad imbarcarsi insieme ad un’allegra brigata.

«Non va dalla contessa Armandi?» le domandò con un po’ di sorpresa.

«No. L’Emilia doveva anzi venire con noi, ma stamane m’ha scritto che ha cambiato idea. Vuol essere dei nostri?»

«Grazie, non posso»; e si allontanò almanaccando perché l’Armandi in un biglietto di tre righe ci avesse cacciato anche la musica e la signora Rigalli.

Trovò la contessa nel suo salotto, sul suo canapè, circondata dai suoi amici e dalle sue amiche; fu accolto col miglior sorriso, e fu presentato agli altri senza il menomo imbarazzo. Ella era perfettamente padrona di sé, piena di brio e disinvoltura – scherzò anzi coll’aria un po’ stralunata di lui – parlò di corse sul lago, di partite di piacere, delle avventure dei bagni. Un tale domandò del conte Armandi, ch’era ancora a Torino, sebbene la sessione fosse chiusa da un pezzo.

«Verrà quanto prima,» rispose la contessa «appena terminati non so quali lavori di non so qual commissione parlamentare; e rivolgendosi alla signora che aveva al fianco aggiunse sorridendo: «Quella benedetta politica è una rivale pericolosa.»

Alberto ascoltava la sua voce, e guardava le sue belle mani, ornate di larghi manichini di trina, che ella tirava in sú allorché le cadevano lungo il braccio. Alle ultime parole di lei la fissò in viso; poscia arrossí, senza saper perché, distolse gli occhi, e prese parte alla conversazione con vivacità nervosa, a sbalzi, con lunghe interruzioni che avrebbero grandemente sorpreso tutti coloro che erano presenti se non fossero stati tutti perfettamente ben educati.

«Non va colla signora Rigalli?» domandò ad un tratto.

La contessa gli rivolse un’occhiata tranquilla e rispose:

«No.»

«Mi disse però che contava su di lei…»

«Souvent femme varie!» rispose l’Armandi colla massima disinvoltura, e sorridendo un po’.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
210 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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