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CAPITOLO XX
IL 27 MAGGIO

 
Si spandea lungo nei campi
Di falangi un tumulto, e un suon di tube
E un incalzar di cavalli accorrenti,
Scalpitanti sugli elmi ai moribondi
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
 
(Foscolo).

La battaglia di Maratona fu una ben gloriosa vittoria di popoli contro la tirannide; ed i valorosi di Milziade ebbero una santa, terribile e liberatrice vittoria.

I Greci – come gli altri popoli che han la disgrazia di aver dei preti – son questi gli anniversari che dovrebbero ricordare e santificare, non i Domenichi, gl’Ignazi, gli Arbues e compagnia brutta di sangue!

Come la Maratona per i Greci, la battaglia di Palermo, quasi dimenticata e avversata dall’eunuco sistema che regge in Italia, sarà ricordata dalle generazioni venture con entusiasmo e con rispetto!

Sorgi, aurora del 27 maggio! – men sanguigna, men cupa del precedente tramonto – tu vai a rischiarare il giorno più glorioso ch’io mi conosca in Italia. – S. Fermo, Palermo! – i nostri nepoti vi rammenteranno con orgoglio, e quando seduto al focolare, ed attorniato dalla gioventù bramosa, il veterano volontario starà narrando ad essa quelle superbe pugne, grandirà d’un palmo ed il suo volto venerando risplenderà ringiovanito.

Vittorie di popolo! del diritto sulla prepotenza, del vero sulla menzogna, e della giustizia sulla tirannide!

E perchè con tante splendide vittorie, l’umanità rimane sempre schiacciata sotto il peso dei pochi furbi, che la corrompono, la derubano e la fanno infelice?

Ditelo voi, archimandriti Bizantini, che assordate il mondo di ciarle – voi eletti a legislatori colla frode, o dalla dabbenaggine del popolo, o dalla parte di popolo comprato, voi, dottrinari e dottori di tante specie: molti di voi un giorno repubblicani arrabbiati – oggi!.. ho vergogna di dirlo, cosa siete? Comunque, legislatori, che a forza di leggi ci fate desiderar la vita primitiva.

Una scelta schiera di prodi dovea aprire la strada nella capitale dei Vespri.

Tucheri dovea condurla, e per compagni egli aveva nientemeno che Nullo, Cairoli, Vigo, Taddei, Poggi, Uziel, Scopini, Perla, Cucchi, ed altri valorosissimi, i di cui nomi, io raccomando vengano pubblicati dal prode Stato Maggiore dei Mille e dai condottieri nobili delle otto famose compagnie, come pure dal capo delle guide, le quali primeggiavano fra i più coraggiosi16.

Quella schiera scelta tra i Mille, non contava il numero, le barricate ed i cannoni che i mercenari dei Borboni avevano assiepati fuori di porta Termini. – Essa tempestava e fugava al ponte dell’ammiraglio gli avamposti nemici, e proseguiva.

Le barricate di porta Termini furono superate volando – e le colonne dei Mille, e le squadre dei Picciotti calpestavano le calcagna della valorosa avanguardia, gareggiando d’eroismo.

Non valse una vigorosa resistenza dei nemici su tutti i punti, nè il fulminare delle artiglierie di terra e di mare, massimamente d’un battaglione di cacciatori indigeni17 collocato nel dominante convento di S. Antonino che ci fiancheggiava sulla nostra sinistra a mezzo tiro di carabina. – Nulla valse: la vittoria sorrise al coraggio ed alla giustizia, ed in poco tempo il centro di Palermo fu invaso dai militi della libertà italiana.

Trovandosi la popolazione della capitale della Sicilia completamente inerme, essa non poteva il primo giorno esporsi ai fuochi tremendi che avean luogo per le strade. – Giacchè non solo sparavano le artiglierie della truppa concentrata in Palazzo Reale, Castellamare, ecc., ma la flotta Borbonica infilando le strade principali, le spazzava coi suoi forti proietti e distruggeva non pochi edifizi con granate e bombe.

Ed ognuno sa che quando i bombardatori18 ponno bombardare una povera città senza esserne molestati, la loro bravura da cannibali si accresce in ragione geometrica.

Ben presto però il popolo di Palermo accorse all’erezione di quei propugnacoli cittadini, che fanno impallidir la tirannide – le barricate – e vi si distinse come direttore il colonnello dei Mille, Acerbi, milite valoroso di tutte le battaglie italiane.

I popolani, armati d’un ferro in qualunque guisa dal coltello alla scure, presentavano nei giorni susseguenti, quelle imponenti masse, irresistibili in una città, a qualunque truppa, per ben organizzata che sia. E quando un’intimazione di deputati borbonici fece significare ai Palermitani: di dover ricorrere alla clemenza del Re, un ruggito di sublime sdegno – somigliante a quello dei terribili nostri vulcani quando scuotono la superficie del globo – si udì nelle illustri vie che risuonano ancora l’eco sterminatore di un esercito di tiranni.

Allora potè vedersi cosa vale una città di dugento mila anime disposta a seppellirsi sotto le macerie dei suoi focolari, pria di piegar il ginocchio sotto la prepotente tirannide.

Da quel momento le barricate sortivan da terra come per incanto – e che barricate! da poter sfidare anche le più forti artiglierie. Palermo n’era stipata. – Ogni finestra di casa presentava un’alta barricata di materassi, cuscini, mobilia d’ogni specie, e le più pesanti suppellettili vedevansi sospese, pronte ad esser precipitate sulle teste dei mercenari, in caso essi avessero tentato di assalire i figli della libertà.

Salve! città dalle grandi memorie – anche questa volta l’eroica tua iniziativa valse la quasi unità della patria italiana, che sarebbe compiuta oggi, senza la prevalenza della menzogna, del dottrinarismo e degli adoratori del ventre!

CAPITOLO XXI
LA CAPITOLAZIONE

 
Les Républicains sont des hommes,
Les esclaves sont des enfants.
 
(Chenier).

Io ho sempre inteso per repubblicani i propugnatori dei diritti dell’uomo contro la tirannide; e tali eran certamente i Mille ed i loro valorosi commilitoni del 60. Ciò sia detto, spero, per l’ultima volta, a confutazione di quei dottrinari che voglion oggi far monopolio dell’idea repubblicana, come se fossero essi gl’inventori – come se non fossero mai esistite repubbliche – e che hanno sempre l’aria di non volermi perdonare la spedizione di Marsala, per non avervi proclamata la repubblica e di non averla proclamata in altre occasioni, in cui mi sono trovato in comando.

Dopo la Fieravecchia, occupato il palazzo Pretorio col quartier generale, i nostri militi rinforzati sempre dai robusti abitatori delle campagne, armati di cattive carabine – ma audacissimi – i nostri militi, dico, a poco a poco, cacciarono da tutti i punti centrali della città i soldati borbonici verso il Palazzo Reale a mezzogiorno, e verso Castellamare a tramontana. Le comunicazioni tra il quartier generale e la flotta divennero impossibili, ed i primi indizi d’una capitolazione furono: la richiesta del permesso di condurre i feriti nemici sulla flotta, per esser trasportati a Napoli, e quello di seppellire i morti che ammonticchiati nei siti delle pugne, cominciavano ad infettar l’aria.

Ciò richiese un armistizio di 24 ore – e Dio sa se noi ne avevamo bisogno, obbligati come eravamo di fabbricar la polvere e cartucce di cui fummo privi durante delle ore!

E qui giova ricordar pure che nessun soccorso d’armi o di munizioni ci venne dai legni da guerra ancorati nel porto e sulla rada, compresa una fregata italiana, su cui il comandante cacciò un mio messo, senza volerlo ascoltare. In quei giorni solenni in cui avremmo pagato a peso di sangue alcuni mazzi di cartucce!

Se ben mi ricordo, si comprò un vecchio pezzo di ferro da un bastimento greco.

Comunque, la fortuna arrideva al coraggio ed alla giustizia. Si fabbricava una cartuccia e si tirava. Le fucilate nemiche all’opposto sembravan grandine, ma i militi della libertà non le temevano, ed impavidi progredivano colle barricate verso il covile dei mercenari.

I generali nemici spaventati da tanto eroismo cercavan di capitolare, ed una prima conferenza a bordo dell’Annibal, ammiraglio Mundy, ebbe luogo tra il capo dei Mille e loro.

Qui vi è da osservare pensando che il capo dei Mille – trattato da filibustiere sino a questo punto – divenne ad un tratto Eccellenza, titolo ch’egli ha sempre disprezzato come uno dei simboli dell’imbecille orgoglio umano. Tale è la bassezza dei potenti della terra, – quando colpiti dalla sventura.

La conferenza a bordo dell’Annibal ebbe per risultato la proroga dell’armistizio. Ma le altre condizioni proposte dai generali borbonici erano state inaccettabili. Facendosi però più trattabili ogni giorno i suddetti generali, si conchiuse finalmente una capitolazione, con cui l’esercito borbonico obbligavasi d’imbarcarsi fra un numero determinato di giorni, abbandonar la Sicilia e non tenervi che le cittadelle di Messina, Agosta e Siracusa.

Si rimaneva quindi padroni dell’Isola intiera, meno le tre fortezze suaccennate, ed a ciò avea contribuito anche molto l’adesione quasi simultanea di tutte le città della Sicilia alla splendida rivoluzione.

CAPITOLO XXII
IL RISCATTO

 
Sulle tue cime di granito – io sento
Di libertade l’aura, o mia selvaggia
Solitaria dimora – e non nel fondo
Corruttor delle reggie.
 

Quand’io, nell’avventurosa mia carriera sulle coste americane dell’Oceano, ho potuto dire a degli schiavi «Voi siete liberi!» quello fu certamente il più bel momento della mia vita.

E voi bianchi! padroni e carnefici dello schiavo nero – voi!.. teneteveli i diamanti vostri – io non li curo. A me, pirata– come m’avete chiamato tante volte – basta d’aver messo un termine ai vostri delitti ed al servaggio dei vostri schiavi.

Marzia, che abbiam lasciata fuggente dalla sua cella – dopo d’aver atterrato e quasi strangolato il gesuita – dominata ancora dal parossismo di disperazione in cui l’avea condotta il perverso colle diaboliche insinuazioni, avea conservato però presenza di spirito sufficiente per impadronirsi del mazzo di chiavi attenenti alla chiave della propria cella, e profittando della confusione suscitata da Cozzo e compagni nel loro assalto, si accinse ad aprire quante celle le capitarono nel corridoio – piene tutte di prigionieri – e per fortuna indovinò nelle stesse quelle delle sue compagne.

Ricorderà il lettore come finì sventuratamente la lotta ineguale impegnata tra il pugno di prodi, di cui facean parte Cozzo e le tre eroine, e la guarnigione del castello, sostenuta dalle compagnie di sbarco della marina.

Ora la capitolazione dei Borbonici era firmata, l’Isola dovea essere evacuata, e certo i primi a liberarsi dovevano essere i detenuti politici di Castellamare.

La liberazione di quei cari e valorosi compagni, la maggior parte feriti, uscendo dall’ergastolo e risalutando il sole della libertà, acclamati da immensa popolazione, fu un vero giorno di festa per la capitale della Sicilia. – Ognuno abbracciava i suoi che avea creduto per sempre perduti – e lascio pensare con che giubilo Lina e Marzia furono accolte dai Mille, e massime da P. e da Nullo.

Lia era rimasta a custodire Cozzo, incapace di muoversi per le ferite, sino verso sera in cui fu trasportato in una bussola alla propria casa.

Giubilate pure, uomini e donne che contribuiste alla liberazione della patria! A che vale la vita dello schiavo! Non è meglio morire? Palermo libera e cacciando i tiranni, vale ben la pena di esser fieri di giubilarne!

La superba capitale dei Vespri, come i suoi vulcani, manda ben lungi le sue scosse – e crollano al gagliardo suo ruggito i troni che posero le insanguinate fondamenta sull’impostura e sulla tirannide.

Ma non solo i buoni giubilavano, anche i perversi maestri camaleonti – sempre pronti a svestire la pelle del lupo e frammischiarsi tra gli agnelli divenuti leoni. – Si! anche i schiakal dell’italiana famiglia, oggi tutti seduti alla greppia dell’erario pubblico, giubilavano!

Drizzando alquanto il collo torto ed atteggiando il ceffo al sorriso, spuntavano dai loro covili, ove s’eran tenuti nascosti tutto il tempo che durò la pugna, stringendo la destra a tutto il mondo ed inneggiando più degli altri alla libertà ricuperata.

CAPITOLO XXIII
IL RIPOSO

 
Malheur aux coeurs ingrats, et nés pour les forfaits,
Que les peines d’autrui n’ont attendri jamais.
 
(Autore sconosciuto).

Ne avevan ben bisogno di riposo i Mille, poveri giovani! – la parte eletta di tutte le popolazioni italiane, ma non avvezza ai disagi, alle privazioni – figli di famiglie distinte, eran gran parte studenti – molti laureati – e tutti, con poche eccezioni consacrati all’eroismo e al martirio, per la liberazione di questa nostra terra, un dì padrona del mondo. – E fu gran colpa veramente la conquista del mondo conosciuto che dovea necessariamente aver per conseguenza l’odio universale.

I Mille, per la maggior parte non marini, avean lasciato le nausee di mare, per ingolfarsi nelle stragi delle battaglie, e per sentieri quasi impraticabili eran pervenuti in Palermo, ove cacciando davanti a loro un esercito di ventimila uomini delle migliori truppe borboniche, liberavano la Sicilia intiera in solo venti giorni. Ed in sette sanguinosi combattimenti, coadiuvati dai loro fratelli del mezzogiorno, compivano l’opera sognata dai grandi italiani di tutte le epoche.

Dopo la ritirata dell’esercito borbonico, i Mille poterono organizzarsi, e formaronsi nello stesso tempo varii piccoli corpi, comandati da esperti ufficiali, e Palermo, da una piazza d’armi del dispotismo, divenne in pochi giorni un semenzaio di militi della libertà italiana.

Che bel vedere nelle ore fresche della giornata quei vispi giovani figli della Trinacria, all’esercitazioni militari, con uno slancio, una volontà da consolar l’animo del veterano per cui l’Italia redenta fu il sogno di tutta la vita. – E l’Italia, ripeto, avrebbe potuto redimersi intieramente in quell’epoca gloriosa, se l’inerzia degli uni e la malizia degli altri non avessero inaridito il germe potente dell’eroismo nazionale.

La sosta in Palermo dopo l’evacuazione dei nemici fu pure impiegata ad opere giovevoli. Il gran numero di ragazzi, vagando per le strade, ove per lo più trovano una scuola di corruzione, furono raccolti, riuniti in stabilimenti idonei, ed educati alla vita dell’onesto cittadino, o milite. – Si migliorò la condizione degli stabilimenti di beneficenza, e si supplì di viveri tutta la parte della popolazione indigente, e tutta quella danneggiata dal bombardamento e dalla guerra in generale.

L’organizzazione del Governo Dittatoriale fu pure attuata, e vi contribuirono varii esimii patriotti della Sicilia – tra cui primeggiava l’illustre avvocato Crispi, uno dei Mille.

Distribuite le forze nazionali in tre divisioni, esse presero il nome d’Esercito meridionale, che mosse verso l’oriente per compiere l’assunta missione emancipatrice.

Una divisione comandata dal generale Türr (surrogato per causa di malattia dal generale Eber) s’incamminò per il centro dell’Isola. La divisione di destra comandata dal generale Bixio per il littorale a mezzogiorno; e quella di sinistra comandata dal generale Medici per la costa settentrionale, con ingiunzione di riunire quanti volontari si sarebbero presentati ad accrescere le forze nazionali; e tutte coll’ordine di concentrarsi nello stretto di Messina.

Più che dai contingenti isolani, i Mille furono aumentati da varie spedizioni posteriori, partite dal continente.

La prima spedizione comandata da Agnetta19 giunse col Veloce, piroscafo piccolo, e prese parte agli ultimi combattimenti di Palermo. Le altre più o meno numerose, seguirono ed accrebbero il numero dell’esercito meridionale con forti militi del settentrione e del centro.

Il generale Sirtori, capo di Stato Maggiore dei Mille, rimase in Palermo Prodittatore della Sicilia – ed ogni cosa in generale camminava in favore della fortunata rivoluzione.

A Roma però, in intelligenza con Torino e Parigi, focolari d’ogni malizia, tramavasi contro la stessa, e preparavansi tutti i mezzi per arrestarla ed annientarla.

CAPITOLO XXIV
ROMA

 
Son le tue zolle sante, ed i tuoi colli
Templi, ove l’uom che ne respira l’aura
Se non risente dignità – la creta
Sortiva dello schiavo!..
 
(Autore conosciuto).

Io m’inchino davanti alla grande metropoli del mondo, davanti… alla grandissima meretrice!

Panteon delle maggiori grandezze umane, ed oggi fatta lupanare d’ogni schiuma di ribaldi dell’universo.

E tale doveva esser la sorte dell’orbe!

Calpestando sotto i suoi piedi d’acciaio le nazioni, e dalle nazioni precipitata all’ultimo grado della scala umana.

Papi ed imperatori altro non furono che carnefici della giustizia suprema!

Eppure m’inchino davanti a te, Roma!.. perchè in te spero, in te che lavata dall’immondizia di cui sei insudiciata, oggi riapparirai risplendente dell’aureola della libertà come a’ tempi de’ tuoi Cincinnati, non più per aggiogar le nazioni, ma per chiamarle alla fratellanza universale.

Nel tuo seno sono convenuti, è vero, i due genii malefici all’umanità, l’impostura e la tirannide, ma che monta? cadranno davanti alla fatale spada della giustizia.

I popoli camminano a passo di testuggine, è vero, ma progrediscono20; quei signori che un giorno non avrebbero degnato la plebe d’uno sguardo, oggi l’accarezzano per timore che si ricordi dell’insanguinato loro albero genealogico e della propria potenza. – Potenza! ma… potenza del bue o del cammello.

In una delle aule del Vaticano, ove il generale dei Gesuiti (generale, eh!.. non c’è male per i modesti sedicenti discepoli del Giusto!) teneva il suo ufficio, eran adunati in tre: il generale, il suo primo segretario, pezzo grosso, ed il nostro conosciuto monsignor Corvo che li valeva tutti e due per malvagità ed astuzia.

I tre si sedettero e misuraronsi coll’occhio volpino, da capo a piedi, senza un sorriso, perchè cotesta è gente che non sorride, nemmeno coll’amante, o se sorride qualche volta, quello è sorriso del coccodrillo. Essa non ama, non compiange, ma odia con tutta l’intensità di cui è capace il cuor umano, e sacrifica, se fosse nelle sue mani, l’intiera umana famiglia, per soddisfare vizii ed ambizione.

«Il fine giustifica i mezzi.» Misurate tutto l’enorme cinismo di questa massima del gesuitismo, d’una setta la cui aspirazione è il cretinismo ed il servilismo dell’uomo che non è gesuita, ed avrete un’idea della sua nefandezza. Infine: dominare i potenti massime con la confessione, e con loro il mondo.

Il gesuitismo e la tirannide rappresentano il male nella famiglia umana. Essi sono quelle piante parassite, che vogliono vivere e mangiare a spese delle altre, e non si contentano di mangiar per uno, vogliono mangiar per cento: e per sostener la loro ingiustizia, cercano con ogni mezzo atroce di dominare le plebi, da loro chiamate canaglia.

«Ebben, monsignore,» principiò il generale diretto a Corvo «che nuove della Sicilia?»

« – Pessime, eminenza! pessime: pare che la fortuna arrida in ogni modo ai filibustieri, oggi trattati da eccellenze dai generali borbonici. Essi sono tosto padroni dell’isola intiera, meno le quattro orientali fortezze, e probabilmente non tarderanno ad incamminarsi verso lo stretto di Messina per passare sul continente. Ed allora io non so che pesci si piglieranno anche per la nostra Roma – che V. E. sa essere il boccone più squisito per quei maledetti eretici».

All’ultima parte di quel discorso gesuitico, il generale impallidì, e lasciando cadere ambe le mani sulla smisurata pancia, era lì lì per mandare uno di quei sospiri dolorosi che mostrano la depressione dell’animo. Ma si trattenne, e siccome il pericolo era tuttor lontano, e anch’egli non mancava di dissimulazione, si fece animo, e così ricominciò:

«Ma come va? Tutti quei nostri emissari inviati da noi, dall’imperatore, e raccomandati da Cavour e dalla corte di Napoli, non sono stati capaci di liberarci da quel pirata? —

« – Favole, eminenza, favole! o quegli emissari non sono arrivati, o se arrivati, sono stati infetti dal morbo generale d’insurrezione e si sono gettati nelle fila dei Mille, ormai tenuti come esseri superiori davanti a cui tutto deve piegare.

«Un solo, Talarico, calabrese, mandato da Napoli con nave da guerra, fu messo a terra di notte, e prometteva di compier l’opera a qualunque costo. Ma successe a lui, come al Cimbro di Mario. Nella stessa notte si vide giungere al nuoto a bordo della flotta, pieno di spavento, e confessando di non sentirsi capace a ferire quel capo di masnadieri, perchè ciurmato. Eppure Talarico è il più famigerato brigante dell’Italia meridionale, ed a lui si promisero ricompense spropositate. —

« – Ecco, esclama l’eminenza, in questi casi mai si deve facilitare, e se avessero seguito i miei consigli, non si sarebbero lasciati partire dalla Liguria quei rompicolli. Il serpe si schiaccia subito che comparisce. Il male si sana nel suo principio; cronico, diventa incurabile.

«Tutti questi grandi politiconi volevan mangiar i rivoluzionari in insalata. Lasciateli partire, dicevano, ed essi non potranno sfuggire alle numerose crociere nostre e del Governo sardo che li aspettano nel Mediterraneo. E se per disgrazia non fossero incontrati dalle flotte, le coste della Sicilia sono così assiepate da soldati, che saranno esterminati in qualunque parte essi approdino. —

« – Altro che sterminio, urlava il primo segretario che divideva la paura del suo padrone! Esterminati! per S. Ignazio, se non fermano quei manigoldi al Faro, siamo belli e spacciati! Chi diavolo li ferma più quando abbiano messo il piede sul continente con tutta questa febbre di rivoluzione che s’è impadronita dei nostri italiani, un dì sì devoti e mansueti!». —

E l’eminenza e il suo segretario, cogli occhi spalancati, esalavano a vicenda tutta la paura e la soma di delitti affastellati nell’anima perversa e scellerata.

Non così il monsignore; esso non era tranquillo quando entrò dal generale per dar parte della difficile sua missione. Ma la paura dei due per un pericolo ancor lontano, manifestato non ostante una provetta dissimulazione, in cui erano ambi maestri, lo rinfrancava, e con voce rassicurata, diretto al generale, così si espresse:

« – Vostra eminenza sia tranquilla, tutto non è perduto ed abbiamo i sovrani di Parigi e di Torino che se non fossero ambi svisceratissimi per la S. Sede ed il gesuitismo ch’è la stessa cosa, il loro proprio interesse li farà cauti, che devono combattere la rivoluzione a tutt’oltranza, e so da fonte degna di fede che navi da guerra bonapartesche sono già nello stretto di Messina per impedire il passaggio degli avventurieri sul continente21, e che nell’alta Italia si prepara un poderoso esercito per combatterli se passassero22. —

« – Voi siete la più solida colonna dell’ordine nostro, monsignore, esclamava l’eminente un po’ rassicurato, e qualunque cosa vi piaccia chiedermi, ve la concedo con tutto compiacimento. —

« – Avrei veramente bisogno che quel vecchio ebreo, di cui parlai tempo fa a vostra eminenza, fosse consegnato a mia disposizione, rispose il Corvo. Egli è diventato inoffensivo a forza di torture corporali e morali —per la maggior gloria di Dio (assassini) io l’ho fatto ridurre al punto in cui noi vogliamo. Esso trovasi nel più completo idiotismo ora, e potremo, quando V. E. nella sua saviezza voglia ordinarmi la pubblica conversione, presentarlo ai romani come un vero miracolo dello Spirito Santo». —

Maledizione! Quando sparirà dalla faccia della terra questa tetra, scellerata, abbominevole setta che prostituisce, deturpa, imbestialisce l’essere umano? E i popoli vanno a messa, a vespro, a confessarsi, a comunicarsi, a baciar la mano a quest’emanazione pestifera dell’inferno! E ciò costituisce il potere della tirannide.

Io mi nascondo, colle mani, il volto dalla vergogna d’appartenere a questa schiatta d’imbecilli, che si chiamano spudoratamente popoli civili!

« – Altro, esclama il generale dei birbanti! al più presto noi faremo conoscere al mondo cattolico la misericordiosa potenza del divino nostro maestro. E questa sarà una luminosa disfatta della millantatrice eresia che in questi ultimi tempi con tanta malizia ha cercato di abbassare la santa nostra istituzione».

16.Non potendo, com’è ben naturale, ricordare i nomi di coloro che fecero parte di quella sacra Legione, ho pensato d’introdurvi quei gloriosi martiri dei Mille che mi si presentano alla memoria, sebbene non tutti appartenenti a detta schiera.
17.V’erano varii corpi stranieri.
18.I bombardatori di città e quei bulli che fucilano individui inermi come i Ciceruacchio ed i volontari fucilati dopo Aspromonte, son gente che non dovrebbero più vivere nei paesi civili, ma come Aynau essere gettati nei fiumi o presi a bastonate.
19.Il drappello condotto dall’Agnetta era misto di Italiani e di Ungheresi, e non sorpassava il numero di 100. L’Agnetta è quello stesso che, finita la campagna del 1860, ebbe un duello col Generale Bixio al quale si presentava per ordine di Garibaldi, in conseguenza di un violento diverbio che ebbe luogo il 30 maggio nella chiesa di S. Giuseppe.
20.Non si esageri però – e si stia cauti contro la gramigna-prete. Nizza avea un convento nel 1860; oggi ne ha ventinove. Al prete basta un letamaio monarchico qualunque per ingrassare gl’infernali suoi semi e farli prosperare.
21.Fu vano il veto di lord John Russel.
22.Provato da documenti officiali.