promo_banner

Реклама

Читайте только на ЛитРес

Книгу нельзя скачать файлом, но можно читать в нашем приложении или онлайн на сайте.

Читать книгу: «I Mille», страница 19

Шрифт:

CAPITOLO LX
IL RACCONTO

 
Cassandra!
E guidava i nipoti,
E l’amoroso apprendeva lamento
Ai giovinetti.
 
(Foscolo).

Lina aveva richiesto schiarimenti al vecchio Elia, sugli avvenimenti incomprensibili, che si effettuavano in presenza di loro. Ma tanta fu la precipitazione degli avvenimenti stessi, che non fu possibile al canuto di appagare il desiderio della fanciulla.

Ridotto però il Monsignore nella sua stanza, trasportata Marzia nel proprio letto, e rifasciata la ferita, minacciante emorragia, e portato fuori il cadavere della Contessa, Elia potè soddisfare la giusta curiosità di Lina, non allontanandosi però dal letto della sua cara Marzia, rinvenuta dallo svenimento, ma spossatissima.

«Io passavo tranquillamente l’esistenza colla mia Rebecca, nel ghetto di Roma, con una piccola bottega da merciaio. Non ero ricco, ma potevo, col mio commercio ed una vita sobria, essere indipendente da chicchessia.

«Il mio matrimonio colla donna eletta dal mio cuore era stato beato dalla nascita d’una fanciulla, e benchè ambi fossimo robusti, e robusta la bambina, noi avemmo la disgrazia di perderla all’età di sei mesi.

«In quel tempo frequentava la casa mia una donna romana, per nome Silvia, d’un’onestà che io ebbi occasione di sperimentare molte volte. Moglie d’un artista, essa pure passava vita agiata, senza essere molto ricca. Voi sapete, come noi ebrei, paria dei cristiani, – più di noi numerosi – apprezziamo sempre un protettore nella classe più forte. E Silvia, oltre d’essere pratica costante della mia bottega, era veramente la protettrice nostra. Alla morte della mia bambina (e qui una lagrima solcò la guancia rugata ed arida del vecchio figlio d’Israele), Silvia mi disse: «Una signora, amica mia, ebbe in questi giorni una fanciulla, e per mancanza di latte, desidera avere una balia. Vorrebbe la Rebecca incaricarsene, non per bisogno certamente, ma per essere l’amica mia, una preziosa persona, e la bambina di meravigliosa beltà?»

«Rebecca, aveva cuore eccellente, ed addoloratissima della perdita fatta, accettò la proposta.

«Il giorno seguente, una ricca carrozza fermossi davanti alla mia porta, ed una signora velata ne discese, poi Silvia, con una creatura di pochi giorni, splendidamente adorna. Al collo vi aveva questa collana, ch’io le rimetto oggi (e la consegnava nella destra di Marzia). Di più: la signora scoprì la spalla destra alla bambina, e mi mostrò il neo che cagionò oggi la commovente sorpresa alla madre – sorpresa che svelò all’anima mia istupidita dalle torture tutta una storia ben interessante e molto terribile.

«Pria di congedarsi, la signora prodigò tanti baci, piangendo, alla bambina, e fu in quel momento, che, scostato il velo, io vidi il più bel sembiante di donna, ch’io avessi mai veduto: splendido volto i di cui lineamenti mi rimasero impressi sempre, tanto più che mi erano ricordati da Marzia, crescendo essa con una somiglianza sorprendente della madre.

«Io vi ho tenuto luogo di padre, Marzia mia! e, certo, come figlia vi ho sempre amata, e sempre vi amò teneramente quella mia cara compagna, che le atrocità dei preti precipitarono nella tomba immaturamente».

E qui il povero vecchio spargeva calde ed amarissime lagrime, bagnando la destra dell’amatissima sua figlia adottiva: e lo sfogo del pianto sollevò quel cuore travagliato da tanti dolori morali e materiali. Egli, finalmente, ripigliò il suo racconto.

«La morte m’aveva la prima volta portata la desolazione nel mio focolare: un nero serpe mi gettò nella sventura, una seconda. – Quel rettile, invaghitosi della mia Marzia, insinuossi con ogni ipocrisia nel mio negozio, e voi sapete se si può, in Roma, respingere la visita d’uno di cotesti demoni, dal sacristano al monsignore. Egli presentossi da principio col pretesto di comprare qualche cosa nella mia bottega, poi finse di volerla fare da protettore, e finalmente, malgrado le mie paterne ammonizioni, egli finì per sedurre la mia cara e rapirla!

«Dopo rapita all’amor mio da quell’infame – che la madre vostra chiamò scellerato or ora, e ch’io riconobbi pure, malgrado l’orribile sua metamorfosi – io seppi del vostro ritiro in un convento, e poi più nulla, sino alla vostra comparsa in Roma, per quella ridicola ed abbominevole conversione con cui i chercuti vollero ingannare il mondo, per sostenere la crollante loro baracca.

«Per me, l’esistenza ha cessato d’arridermi; e se un filo mi vi tiene ancora, siete voi quello, mia amatissima figlia».

I singhiozzi interruppero nuovamente il veglio, per cui cessò la sua narrazione, e P… vedendo la fanciulla fortemente commossa e spossata, lo prese per un braccio e lo allontanò colla sedia un po’ distante dal letto.

Un silenzio tetro succedette alle scene violenti, già descritte, e al racconto del canuto, Marzia aveva ritrovato il padre, per saper ch’egli era uno scellerato! E la madre!.. per vederla morire! Povera Marzia! v’eran ben motivi d’essere addolorata, e di peggiorare lo stato già ben grave della sua ferita! Gli astanti, nelle loro meste meditazioni, erano silenziosi, e sul loro volto stava dipinto il profondo rammarico che loro cagionava l’interessante e bellissima infelice. Lina piangeva dirottamente, e cercava di nasconder le sue lagrime, immergendo il volto nel seno dell’amica.

P… stesso, assuefatto a vedere mucchi di cadaveri e di feriti, non aveva potuto trattenere il pianto, a tanta sventura d’una fanciulla ch’egli idolatrava.

CAPITOLO LXI
LA MORENTE

E se, dicea,
 
A te fur care le mie chiome, e il viso,
E le dolci vigilie, e non consente
Premio miglior la volontà dei fati,
La morta amica almen guarda dal cielo,
Onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando morìa.
 
(Foscolo).

I circostanti si facevano illusione sulla vita di Marzia, e tutti contavano sulla giovinezza e sul coraggio di lei. – Meno la giacente. – Essa, sentiva vicina la mano della morte, e non s’illudeva. Lo sforzo fatto per abbracciare la genitrice morente aveva, senza dubbio, precipitata la crisi, e la ferita, penetrante vicino alla clavicola, manifestava nell’interno un’emorragia lenta, ma che pur troppo, doveva finire, in termine più o men lungo di ore, per troncare l’esistenza della valorosa eroina dei Mille.

Lina, ed il fratello P… non abbandonarono un solo istante il capezzale della morente, e, tanto l’una, quanto l’altro avrebbero dato la vita, per salvare quella dell’amata donzella.

«Lina» disse Marzia, «la porterai in memoria mia, questa collana, dono di mia madre!» ed una lagrima solcò la guancia della sofferente, che per un pezzo, non potè articolare altra parola. «La porterai dovunque, non è vero? e sempre, anche sui campi di battaglia, ove ti toccherà ancora di pugnare per questa Italia infelice, ed ove, certo, ti ricorderai della tua compagna di Calatafimi, – di colei che tanto andava superba di averti più che sorella! Sì, sui campi di battaglia, ove certamente, io starò vicino a te, coll’anima, ma ove, il clangore delle trombe guerriere non spingerà più nella mischia queste membra ridonate alla polve!»

Lina, piangeva dirottamente, senza poter rispondere a lei che amava tanto!

«E tu, mio fidanzato, mio sposo! me li concederai questi titoli per me sì preziosi, e lo puoi: perchè la morte spazza fin le sozzure! Se no, ti avrei confessato esser io contaminata, e di te indegna! Io… l’ancella d’un prete!.. Io la prostituta!..»

E qui essa innalzossi sul letto, cogli occhi fuori dell’orbita, e con un’energia come se fosse nella salute più florida, e con tale accento di cordoglio e di disperazione da spaventare, esclamò:

«Sì! la prostituta di mio padre!.. »

Un rumore tremendo si udì nella stanza vicina, come d’una lotta accanita tra gente, e grida, e colpi, e stramazzate per terra.

Muzio, indispettito che tanto baccano avesse luogo vicino ad una morente, passò in quella stanza, e contemplò il miserando spettacolo del gesuita, che si stracciava le vesti, e batteva il capo contro le pareti, per cui, strappate le fasciature del viso, trovavasi tutto insanguinato. Egli era diventato pazzo furibondo, e con fatica fu legato, per essere condotto al manicomio.

Tutti piangevano, intorno al letto di Marzia, e dato sfogo all’odio possente suscitato dai procedimenti dell’abbominevole chercuto, tutti lamentavano la società italiana, cotanto ancora travagliata dalla istituzione bugiarda del prete; e lamentavano tanto tesoro di bellezza, di valore e d’intelligenza, contaminato e precipitato in un letamaio, per la indecente lussuria di quella setta immonda.

Marzia sentiva vicinissima la morte, ma dotata di un supremo coraggio, e di quell’eroismo filosofico capace di affrontarla come una conosciuta, come una transizione naturale della materia, essa, in seguito dell’orgasmo necessario ad una manifestazione vera e solenne verso gli amati dal suo cuore, riprese alcuni momenti di calma, che le permisero di articolare ancora le seguenti parole: «O Lina» essa diceva alla cara compagna: «Lina! quante volte nei bivacchi della superba nostra carriera, io sognava, od ardiva sognare alla vita beata, che avrei vissuto presso di te e del fratello tuo, là, nelle belle vallate dei nevati baluardi d’Italia. Ma era sogno, poichè, svegliata, io avevo la coscienza di non meritarla tale felicità! d’essere indegna della preziosa amicizia tua, e dell’amore d’un tanto prode! Un presentimento, che si avvera oggi, però, mi faceva tranquilla ch’io non sarei giunta ad infestare la santità della vostra dimora, e prostituire il letto maritale di questo mio valoroso, a cui chiedo, coll’anima, perdono, d’essermi lusingata della ventura di farmi sua. – Lina! stimolata dal tuo coraggio, io t’ho seguita da vicino, e fedele, su venti campi di battaglia; il tuo esempio, certo, mi solleticava, ma ora ti dirò ciò che non sapevi. – Sappi, adunque, che non solo la causa santa del nostro paese mi stimolava al pericolo, ma anche il desiderio di finire una vita abborrita e contaminata. Se mi sono esposta, non v’è dunque merito, e vado superba di morire della morte dei prodi! Non sdegnate, o miei carissimi, di bearmi con un ultimo bacio d’affetto!»

Marzia accennò colle labbra un bacio verso Lina, – e avuto il contraccambio da questa, imitata da P… e dai cari presenti – non articolò più parola, e passò tranquilla all’infinito!

L’esequie delle due carissime donne – madre e figlia – ebbero luogo senza pompa. Ognuno degli avanzi dei trecento volle accompagnarle all’ultima dimora – con Chiassi e tutta l’ufficialità sua. Un incidente inaspettato, però, quasi tradusse in tragedia la pia cerimonia.

Mentre il convoglio passava sotto le finestre del manicomio, uno de’ suoi abitatori precipitossi da una delle più alte, nella strada, e per fortuna cadde, senza offendere i passanti, fracassandosi il cranio sopra il selciato.

Tanto potè il rimorso sul gesuita: ciocchè prova, che la perversa istituzione, il di cui studio è quello di voler annientare l’uomo sotto la duplicità della menzogna e della depravazione, rivestendolo della cocolla e della sottana, è una maledizione per la umanità, che può da essa esser traviata, ma che risorgerà infrangendone il putrido catafalco.

CAPITOLO LXII
BATTAGLIA DEL VOLTURNO

2 OTTOBRE 1860
 
Corrispondenza d’amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani, e spesso
Per lui si vive cogli amati estinti,
E gli estinti con noi.
 
(Foscolo).

A voi, caduti alle falde del Tifate, o miei giovani e prodi compagni, io consacro queste mie ultime righe, sulla ultima nostra battaglia, nella brillante epopea del 60, che voi avete illustrato colla vostra bravura e col vostro sangue. Voi, finalmente, dopo dieci vittorie, gli sbaragliaste quegli avanzi dell’esercito borbonico, là sulle alture di Caserta Vecchia.

E voi, a cui l’Italia deve tanta parte del compimento delle sue aspirazioni di tanti secoli; voi che già tante volte avete insegnato allo straniero a rispettarla, ed a cui insegnerete ancora, come qui oggi si accolgano gli invasori insolenti, potete voi sperare che Italia, sì propensa a rammemorare delle miserie, si ricordi, che le vostre ossa biancheggiano insepolte sulle falde dei monti e nelle pianure della Campania?

Il 1º ottobre, verso le cinque della sera, si telegrafava a Napoli: «Vittoria su tutta la linea» ed a quell’ora l’esercito borbonico ritiravasi precipitosamente dentro Capua, e parte gettavasi a traversare il Volturno.

Tutti i nostri dell’esercito meridionale avevano fatto il loro dovere, con quel valore che distingueva i capi ed i militi a cui avevo l’onore di comandare. Bixio alla destra, – Medici, Avezzana e Simonetta al centro, – Mielbitz, Türr ed Eber alla sinistra, – e Sacchi tra il centro e la destra; Sirtori, capo di stato maggiore, aveva inviato la riserva a tempo. E se si aveva combattuto con valore ed accanimento, lo accertava il gran numero di cadaveri, che copriva le pianure Capuane, e le falde del Tifate, nonchè il gran numero di feriti.

In seguito alla carica delle riserve – narrata antecedentemente – le comunicazioni di S. Maria e S. Angelo erano state sgombrate dal nemico, ed io potei salire il monte per capacitarmi dell’esito finale della battaglia.

Già dissi prima, essere il monte S. Angelo dominatore delle due sponde del Volturno, e dell’intero piano di Capua, vantaggio immenso che noi avemmo in quella giornata sui nemici, e che non cesserò di raccomandare ai miei giovani concittadini che sono destinati alla milizia.

Quando si può, tenersi vicino al campo di battaglia, ed in alto per poterlo vedere. I generali borbonici invece, situati nella pianura, poco o nulla potevano scoprire.

Certo della vittoria, discesi dal monte nel villaggio, e mi ricordai allora – già di notte – di non aver preso alimento nella giornata. Qualcuno, mi disse essere i carabinieri genovesi dal parroco. Ciò mi sollevò il cuore, certo di non morire di fame in tale casa, ed in compagnia di quei miei prodi fratelli d’armi. E non m’ingannai: basta dire che, non solo squisiti manicaretti mi presentarono, quei miei incomparabili, ma persino il caffè.

Siccome, però, la felicità è un fantasma sulla terra, e che pare stanziare solo nell’immaginazione umana, subito dopo il caffè, invece di potermi sdraiare un’ora, e riposare le mie stanche membra, un messo mi rimise un dispaccio da Caserta, in cui mi si diceva: «Caserta, seriamente minacciata da un considerevole corpo nemico, scendendo per Caserta Vecchia».

Addio riposo. E non v’era tempo da perdere. Ordinai al maggiore Mosto, di far preparare i suoi carabinieri genovesi; si diedero alcune altre disposizioni, e con alcune centinaia d’uomini mi avviai, verso la metà della notte, alla volta di Caserta.

Giunto presso Caserta all’alba, inviai il colonnello Missori, con alcune delle sue guide a cavallo, ad esplorare il nemico: ciocchè egli eseguì da quel prode cavaliere che si conosce; ed io mi recai in città, per intendermi col generale Sirtori, sul da farsi. Essendo in conferenza col capo di stato maggiore, avemmo avviso: discendere i borbonici dai monti, e già impegnati coi nostri avamposti.

Sirtori, alla testa di poche truppe, marciò risolutamente sul nemico, di fronte, e lo respinse coll’ordinaria sua bravura.

Io raccolsi quanto mi fu possibile di gente nostra restante60 e marciai sul fianco destro del nemico per girarlo, ciocchè riuscì perfettamente.

Il corpo borbonico, che stavamo attaccando, era di circa cinque mila uomini, e lo stesso che aveva schiacciato l’eroico battaglione di Bronzetti, composto di poche centinaia d’uomini, a Castel-Morone, ove quel nuovo Leonida aveva preferito morire con tutti i suoi, piuttosto che arrendersi.

Composto per la maggior parte di famosi cacciatori napoletani, già assuefatti a combatterci a Calatafimi, a Palermo ed a Melazzo, quel corpo attaccò furiosamente Caserta, lasciando sul vertice della collina una numerosa riserva, che avemmo pur la sorte di sbaragliare e perseguire sino a Caserta Vecchia.

Con noi, in quel giorno, avemmo la fortuna di avere commilitoni due compagnie dell’esercito regolare italiano, e l’esercito nostro può giustamente andar superbo del loro contegno nella battaglia. Duolmi di non ricordare il nome del comandante e dei corpi a cui appartenevano quei prodi militi. Una delle due compagnie era di bersaglieri. L’esito del combattimento fu dei più felici, e ben pochi nemici poterono salvarsi: ciocchè cagionò anche pochi morti e feriti dalle due parti.

Già nella notte avevo telegrafato al generale Bixio di portarsi colla sua divisione verso Caserta Vecchia: e quel valoroso capo mostrava all’alba la maggior parte de’ suoi battaglioni sulle alture, alla sinistra del nemico.

Il generale Sacchi, che occupava le posizioni verso il Volturno, tra Monte S. Angelo e Caserta, collo stesso ordine e colla stessa solerzia, comparì pure alle spalle del nemico, pronto a caricarlo. Dimodochè i borbonici trovaronsi rinchiusi in un cerchio di ferro, e furono quasi tutti obbligati ad arrendersi.

Nel 2 ottobre 1860, ebbe compimento la gloriosa spedizione dei Mille. L’esercito regolare italiano, che secondo Farini61 «aveva la missione di combatterci – per impedire alle armi della giustizia di giungere almeno sino a Roma» ci trovò amici; e comunque sia, io sono fiero di non essermi lordato del sangue di quei miei concittadini, anch’essi, finalmente destinati, per la maggior parte, ad abbassare l’insolenza dello straniero, che le nostre discordie avevano assuefatto a disprezzarci.

CAPITOLO LXIII
COZZO, LIA ED I NOSTRI FERITI

 
E l’uomo, e le sue tombe, e l’estreme sembianze
E le reliquie della terra e del ciel
Travolge il tempo.
 
(Foscolo).
 
De questi affari no ve ne mescé,
Lasciè fa i frati, che l’e o seu mestè.
 
(Genova).

Dopo il 2 ottobre, il compito dell’esercito meridionale era finito, e non potendo far meglio, convenne lasciar fare a chi tocca. Io approfittai quindi della mia inutilità negli affari di guerra, per fare una visita ai miei fratelli d’armi feriti.

Ne ho già veduti dei cadaveri e dei feriti – in questa mia tempestosa vita – su varii campi di battaglia, e per fare un po’ come gli altri, ho cercato d’indurire il cuore alla vista delle stragi, delle mutilazioni, dei macelli umani!

Comunque, se indurito dall’abitudine, ho potuto contemplare con indifferenza i morti, anche numerosi, i sofferenti però m’hanno sempre commosso, e, se ho potuto, ho cercato di alleggerirne i patimenti.

Tu, Italia! hai molti preti, molte malve, molti epuloni, che non lavorano, e mangiano per cinquanta alle spalle dei poveri; tu hai molti ladri, piccoli e grandissimi, e cotesti costituiscono il tuo abbassamento e le tue miserie! Ma… hai molti prodi! E se i primi sono tenaci nelle loro bugiarde dottrine, nei loro furti e nelle tue miserie, i tuoi veri figli progrediscono in idoneità per servirti, e non soffrire di vederti oltraggiare da chicchessia.

Calpesta sotto i piedi le paure di chi ti governa; cotesta è gente a pancia grossa e molto interessata, com’è naturale, a salvarla dalle prepotenze straniere o dalla fame interna.

Nell’avvenire, però, non sarai insultata: ne rispondono le generazioni che sorgono – bambine, nell’ultima metà di questo secolo, ma che non ne aspetteranno la fine per essere giganti.

Io li ho veduti feriti, mutilati o morenti tutti quei superbi campioni dell’onore e della libertà Italiana: Gradenigo, Rossetti, Risso, Masina, Boldrini, Manara, Montaldi, Montanari, Ciceruacchio, Giovagnolli, Manin, Taddei, Ferraris, Rossi, Cozzo, Denobili, Specchi, Debenedetti, Cottabene, Bronzetti, Elia, Bandi, Mameli, Maiocchi, Cucchi, Sgarellino, Bovi, Vigo, Franchi, Lombardi, Dandolo ed i martiri fratelli Cairoli, Debenedetti e Bronzetti, che riassumono uno dei più splendidi martirologi che mai abbia annoverato la storia. Accanto ai Bandiera, a Pisacane ed a Imbriani, io collocherei altre migliaia di martiri, se vi arrivassero la mia memoria ed il mio ingegno. Lascio quindi ad altri, più di me capaci, la cara e patriottica commemorazione.

Io gli ho veduti morenti! e narro di loro cogli occhi umidi ed il cuore commosso. Sì! morenti quei miei cari giovinetti! leoni sul campo di battaglia, ora giacenti sul letto del dolore! Molti non giungevano ai tre lustri! Le loro belle capigliature – bionde, nere, castagne – poichè esse ponno additare alle varie latitudini di questa bella nostra penisola – le loro belle chiome erano scapigliate, ed a molti intrise di sangue!

Io piango scrivendo!..

I loro occhi infantili – in cui han cessato di bearsi le genitrici sventurate – i loro occhi, rivolti a me, animaronsi, come se volessero rassicurarmi, consolarmi nel mio cordoglio e dirmi: «Non è nulla! il dover nostro l’abbiamo fatto, e moriamo contenti, giacchè la vittoria sorrise alle armi dei valorosi!»

A molti, il loro ultimo pensiero era rivolto a questa terra, che per loro, per il nobile sacrificio della loro vita, non sarà più ancella di prepotenti – e morivano esclamando: «Viva l’Italia!» – E l’Italia li ha scordati: poveri giovani!..

Le loro madri cercheranno invano ove caddero, ove morirono, ed ove furono sepolti, forse, dalla commiserazione di qualche bifolco!

E l’Italia lascia in piedi il monumento eretto dai suoi barattieri, corruttori e carnefici al mercenario straniero! Oh s’io potessi ricordarmi di tutti i vostri nomi, miei cari, belli, giovani compagni! Io, con questa mano già indurita dagli anni, inerte, li consacrerei in queste povere pagine alla gratitudine di generazioni men ciarliere, ma che sapranno dovutamente apprezzare il sublime olocausto dell’esistenza vostra preziosa.

Sì, l’Italia rammenterà il vostro eroismo, quando, passati questi schifosi tempi di miserie, di depredazioni e di garanzie alla menzogna – che ridicolissimamente occupano tutti gli istanti di queste cime regolatrici del mondo – essa potrà vivere dignitosamente e liberamente senza offendere, ma senza temer nessuno.

In uno stanzino dell’ospedale di Caserta, lo trovai finalmente, quel caro e simpatico Cozzo – quel prototipo della brillante gioventù palermitana – oggi vispa, audace, valorosa come lo fu alcuni secoli fa, quando esterminava sino all’ultimo i boriosi antenati dei moderni Chauvins. – Cozzo, che vedevo raramente in tempi ordinari, ma che m’appariva sempre nei giorni di battaglie, ove maggiore era il pericolo, e vi assicuro che quell’aspetto suo, d’una risoluzione ferrea e calma nello stesso tempo, mi era di buon augurio.

Anche Cozzo baciai coll’affetto di padre, ed a lui diressi alcune poche parole di conforto, senza speranza nella mia coscienza… Su quell’angelico volto, la morte aveva già scolpito l’impronta della terribile sua falce! Egli mi sorrise, con un sorriso… ch’io porterò impresso nel mio cuore tutta la vita! Era sorriso d’affetto. – Cozzo sapeva ch’io l’amava tanto! – e lo trovò, quel caro sorriso, nelle mortali sue angoscie.

Lia era al capezzale di Cozzo. – Lia, la contadina della conca d’oro62, la bella fanciulla dall’occhio nero e fulgidissimo come quello dell’aquila. Essa procurava di sorridere al suo caro, quando gli occhi loro s’incontravano; ma poi, da lui non vista, struggevasi in dirottissimo pianto.

Cozzo aveva il petto rotto da una palla borbonica, e lesa incurabilmente, una parte vitale.

Egli affrontò la mitraglia nemica, alla testa della colonna che decise della vittoria nel 1º ottobre. Rimase sul campo esangue, colla sua Lia accanto, sinchè, terminata la pugna, essa lo fece trasportare nella stanza in cui lo baciai moribondo.

La sua effigie posa sul mio capezzale, in mezzo a quelle dei Bronzetti e sotto quelle dei Cairoli e degli altri martiri i di cui ritratti ho potuto raccogliere. – Felice me! che, nell’avventurosa mia carriera, ho potuto servire il mio paese con tali compagni!

60.Ricordo fra le frazioni di corpi, che marciarono con me, i bravi calabresi di Stocco. Quel prode generale era stato ferito a Calatafimi, e non ricordo se si trovasse in quel giorno a Caserta.
61.Dispaccio di Farini a Bonaparte.
62.Valle di Palermo.