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Читать книгу: «Due amori», страница 6

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XXIX

"I primi mesi del mio matrimonio scorsero di tal guisa fra le puerilità e le matte allegrie. Clelia era in molte cose una bambina; le piaceva dormire colla testa appoggiata sulle mie ginocchia, le piaceva passare le sue mani affilate fra mezzo ai miei capelli, e scompigliarli poi ad un tratto, e riderne. Poi voleva pettinarmi, e farmi la spartitura sul mezzo della fronte, e recavami uno specchio perchè mi guardassi, e guai! se io non ne sorrideva.

Io la lasciavo fare-mi deliziava di queste inezie, e ne aveva fatto un argomento importante della mia vita.

E che l'accigliata filosofia si levi pure a stigmatizzare nell'uomo il fanciullo-la sua voce non saprà mai giungere fino al cuore-l'infanzia è l'alba dell'amore, però che l'amore è la vita-il vero filosofo amava i fanciulli, e voleva vedere le loro teste ricciute attorno a sè, e dispensava loro le carezze, e parlava alle turbe una filosofia dolce, fidente, che si compendiava in una parola: amate.

"Amate, amate-sappiate essere fanciulli nell'amore" ecco il consiglio del saggio-e le turbe faranno assai bene a se stessi se lo ascolteranno-e faranno bene alle future generazioni se lo ripeteranno accanto al focolare ai loro figliuoli.

Usciti d'infanzia gli uomini sogliono arrossire di buon'ora del loro passato; e la maggior offesa che altri possa far loro è di rammentarglielo. L'età senile giunge sempre troppo presto a vendicare siffatto oltraggio. Ma poi che io non mi vergogno che vi sia stata un'età della mia vita in cui ero fanciullo, non mi dorrà neppure di confessare che fatto uomo seppi rinnovarmene alcun tempo le dolcezze."

XXX

"Un giorno io era rimasto assente di casa più dell'usato; al mio ritorno Clelia mi venne incontro alquanto imbronciata. Le prodigai mille carezze e il suo malumore fu ben presto dissipato; ma rimase nel suo volto come una impronta indefinibile di mestizia e di sbigottimento, e un abbandono soavissimo nelle sue membra.

Io non sapeva che pensare; ella mi nascondeva qualche cosa; pareva a quando a quando volermisi accostare per rivelarla, e che l'animo non le bastasse.

–Che hai? le chiesi ponendomi all'improvviso d'innanzi ad essa, e carezzandole le guancie colla mano.

Arrossì, si turbò nella risposta, e tentando districarsene, si confuse peggio.

–Ho paura… balbettò poco dopo; ma non disse altro.

–Di che?

Invece di rispondermi si gettò fra le mie braccia e nascose il capo sul mio omero."

XXXI

"Clelia era madre.

Finchè ella lo aveva dubitato, era stata come in preda ad un vago turbamento, ad un timore nuovo, inesprimibile. L'importanza della cosa aveala atterrita, ma d'un terrore dolce che aveva della sorpresa e nulla del dolore. Essere madre, portare nel seno un'altra vita, vivere di quella; era troppo grande voluttà, era una prova suprema, una risponsabilità senza limiti, tutto un avvenire in sue mani. Quell'anima ingenua e dolce ne era rimasta stordita, aveva misurato le sue forze e si era creduta debole ed aveva pianto per paura. Ma non appena ebbe la certezza del suo stato, succedette a quella titubanza una allegria matta, un soave raccoglimento alla pace e ad un tempo il più grande abbandono alla gioia. La sua anima era nei suoi occhi, e i suoi occhi s'erano come velati; quando li sollevava per guardarmi era un raggio di sole che veniva a battermi sul viso. Si attaccava al mio braccio con una compiacenza infantile, e voleva che io la conducessi così per le camere.

Si abbandonava talvolta ad una gioia pazza, e si diceva lieta d'essere madre.

–Mi pare di appartenerti di più, mi pare che nulla più possa separarci, mi diceva in quei momenti con abbandono.

M'avvidi che l'amore materno si faceva strada a stento attraverso l'amore di sposo, e che io era tuttavia solo a regnare nel suo cuore.

Una volta mi si fece innanzi impensierita e mi disse seriamente:

–Guardami bene.

–Ti vedo, le risposi sorridendo.

–Non è vero che sono piccina?

–Non mi pare.

–Sì, lo sono, voglio esserlo… Dimmi che lo sono. Mi parrà d'esser più tua, di far parte di te, di penetrare di confondermi nella tua essenza.

Più spesso assumeva un fare serio e contegnoso, una gravità che contrastava bizzarramente colla freschezza delle sue guancie. In quei momenti non mi diceva parola e si mostrava assai distratta; pareva che fantasticasse prevenendo il futuro e che volesse far la mamma in sul serio; però se io mi fossi attentato a scherzare, ella mi avrebbe risposto che il tempo delle celie era passato, e che bisognava pensare da senno al nostro bambino.

–Puoi dire: la nostra creatura; le osservai un giorno sorridendo.

–Perchè?

–E che hai tu da sapere se sia un bambino o una bambina?

–E chi l'ha da sapere se non io? Ti dico che è un bambino.

–Ed io voglio che sia una bambina.

–Per l'appunto, no. Io voglio che sia un bambino e che ti assomigli; voglio che porti i baffi come tu li porti e il pastrano abbottonato sotto il mento, come te; e che cammini a passi gravi come tu fai. Non replicare, altrimenti vado in collera davvero.

Perchè non andasse in collera, me la strinsi al cuore teneramente."

"Malgrado i suoi pronostici e i suoi voleri assoluti, il bambino fu proprio una bambina, come io aveva desiderato.

Non ho mai saputo comprendere la causa della insana predilezione che sogliono le madri accordare ai maschi. Un filosofo materialista ne attribuisce la simpatia del sesso-tal sia di lui s'egli non vede più in là. Però qualunque ella sia codesta causa, io sono convinto che nasconde un'ingiustizia.

Me ne era ripetuto cento volte le ragioni, ed aveva desiderato una bambina.

"Un bambino, m'era detto, non sarà tuo che fino all'età di cinque o sei anni; più oltre diventerà caparbietto, insolente, distratto, e ti farà andare in furia più d'una volta. A vent'anni, se mai avvenga che le sue idee non si accordino colle tue, ti abbandonerà senza dolore; si darà al giuoco, allo stravizzo, agli amorazzi; vorrà fare il cospiratore, vorrà cacciarsi nelle fila dei soldati per vanità, e col pretesto della gloria ti farà provare palpiti non mai sentiti-temerai ch'egli ti venga meno ad ogni tratto-Al contrario una fanciulla è un amore perenne: la vedrai crescere per lunghi anni dinanzi ai tuoi occhi-sempre egualmente desiosa delle tue carezze, sempre ingenua, sempre dolce-e vorrà che tu pigli parte ai suoi giuochi infantili, e ti salterà sulle ginocchia per abbracciarti e carezzarti colle sue piccole mani. Quando sarai invecchiato ed ella cresciuta tanto da non amar più la bambola, si compiacerà d'uscire con te e darti braccio; ti preparerà di sue mani il caffè, che è la tua bevanda favorita; terrà in ordine la tua guardaroba, vorrà numerare la tua biancheria-e quando la sorte le avrà dato un buon marito e che tu ne sia lieto, ella ti lascierà piangendo, e ti trarrà in disparte per dirti fra le lagrime che le duole di separarsi da te, e prometterti che non passerà giorno senza venirti ad abbracciare. Quando sarai cadente per vecchiaia, persuaderà il marito a raccoglierti sotto il suo tetto; al tuo arrivo ti manderà incontro i suoi figliuoli, che si caccieranno fra le tue gambe chiamandoti nonno…"

Per tal guisa io andava alimentando il mio desiderio; ed io credo che se le mie speranze fossero andate deluse, la gioia di esser padre non avrebbe pagato il mio dolore.

Pensa adunque la mia gioia quando mi nacque quella bambina.

Avea lo sguardo, la bocca e il riso di Clelia; e sebbene mi fosse vivamente contrastato, io sostenni sempre che n'avesse anche il naso; però il nome non doveva essere altrimenti.

Se non che in ciò incontrai grave opposizione per parte di Clelia che venne persuadendomi non so con quali argomenti a battezzarla col nome di Bianca, ch'era un bel nome. E poi che non voleva contraddirle in ogni cosa, mi arresi; però fu fermato che l'avremmo chiamata Bianca.

Questo angioletto che veniva a visitare la nostra casa e ad iniziare la nostra famigliuola, fu salutato con festa; per esso la sorgente delle nostre dolcezze fu moltiplicata; rinnovate le nostre abitudini e dato loro un altro indirizzo. Quind'innanzi la nostra vita non avrebbe avuto un solo istante di vuoto; quella bambina la riempiva tutta, noi vedevamo d'innanzi uno scopo, comprendevamo pienamente le ragioni della creazione, ne avevamo in mano le fila; parevaci d'aver penetrato il segreto della divinità.

Quanto è audace l'amore di amante, quanto è sereno quello di sposo, altrettanto è robusto ed operoso l'amore paterno. Il mio cuore educava a un tempo i tre affetti, li custodiva gelosamente, e ne irraggiava di continuo, come il fiore i suoi profumi. L'affetto è il profumo del cuore.

Quella creatura è oggi l'unico conforto di questa terribile vedovanza del mio cuore. Per essa io posso ancora ingannare la mia solitudine, crescere vita alle mie memorie, rinvigorire il culto melanconico che ho sacrato a quell'angiolo che m'ha lasciato.

Se tu vedessi quanto le somiglia, come l'ingenuo suo sorriso infantile ricorda il mesto sorriso della povera morta.

Io passo molte ore della notte al suo capezzale, – finchè non si sia addormentata, ella mi rivolge la sua testolina, sorride e mi porge a quando a quando le mani per abbracciarmi. Quando dorme io me ne sto silenzioso a guardarla col gomito appoggiato al guanciale, e allora mi pare di sentire la presenza d'un essere invisibile che penetri dentro di me, che mi avviluppi in un amplesso di fuoco, e mi parli una parola dolce in segreto.

Credi tu che gli spiriti dei defunti possano abbandonare le regioni dell'aria, e visitare il tetto che li aveva in vita, e confortare i dolori che hanno lasciato?

Non mi dire di no.

Anch'io ho sorriso molto tempo di questa credenza; oggi è la sola che mi sia cara, e m'affanno per arrestarla.

Se questa fede non m'inganna, la poveretta non mi ha lasciato del tutto-sol ch'io la chiami colla mente, ed ella si appoggia subito al mio fianco, sol ch'io le parli, per udire ancora la sua voce-per vederla non ho che a cercare il suo volto affilato sotto le guancie un po' più ritondette della piccina.

Tutto ciò avviene misteriosamente, senza che quasi io ne abbia coscienza-non vi occorre che un atto debolissimo di volontà che si produce come per attrazione invisibile.

Nulla di più puro, di più dolce dello spirito di lei come suole apparirmi in queste fantastiche visioni-la mia anima pur essa ne rimane mutata; il dolore cede al raccoglimento sereno-l'amarezza alla mestizia. È un sospiro all'amore, all'eternità dell'amore forse, e vi si mesce un vago ed indefinito timore che non conturba. La morte sola mi farà leggere quella pagina, io sento che oggi tutte le potenze del mondo lo tenterebbero invano.

Come è monca la vita! quanto perplesse e dubbiose le sue rivelazioni, quanto oscuro il suo linguaggio!

Gli uomini hanno chiesto alla Natura il suo segreto, e la Natura ebbe pietà delle loro smanie, e concesse loro a brandelli un lurido cencio perchè nascondessero la loro nudità. Gli stolti ne andarono orgogliosi, e si tennero in gran concetto, e quel povero mantello battezzarono: Scienza. Felici, se poterono illudersi! Ma il pensatore rifiuta l'aridità di questa scienza boriosa; egli domanda le cagioni-e la Natura è muta, inesorabilmente muta.

La morte è la grande rivelazione-il Calvario è più eloquente del Sinai."

XXXII

"Era passato un anno dalla nascita della nostra bambina; noi non ci saziavamo mai di vederla, di recarcela sulle braccia e coprirla di baci. Quel piccolo amore incominciava a balbettare, a chiamarci a nome. La nostra felicità era così grande, che quasi la temevamo.

La felicità è paurosa al pari della sventura; il troppo sofferire e la sovrabbondanza di gioia infiacchiscono allo stesso modo-però il tapino che non ha nulla a perdere teme la codarda prepotenza degli uomini e l'uomo dovizioso e contento teme l'instabilità della sorte. Così il fardello delle miserie non cessa un solo istante di battere sul dorso dell'umanità incurvata.

Di quei giorni ricevetti lettera di Eugenio da Roma. Aveva compiuti i suoi studi presso un artista celebre che era morto poco prima; però egli si trovava solo e sarebbe venuto a stabilirsi a Milano. Sperava di riaccostarsi in qualche modo alla sua infanzia riaccostandosi a me che ero stato fra i pochi suoi amici di quell'età benedetta.

La sua lettera era mesta, esalava un profumo di amore, di dolcezza, di entusiasmo melanconico. Mi parlava a lungo del suo maestro come se io lo avessi conosciuto, di quadri che egli aveva in mente di fare prima di morire, di quelli che aveva condotto a termine negli ultimi giorni di sua vita.

Le sue parole mi fecero una strana impressione. Tentando raffigurare Eugenio ai miei occhi, ne feci da principio un ritratto di capriccio; lo immaginai alto di statura, con barba bionda e rara, e coi capelli lunghi, a poco a poco quel tipo si trasformò nella mia testa, nè io seppi riuscire ad altro che all'Eugenio del collegio. Allora fui tratto a pensare al mio passato, ritessei la lunga tela della mia vita conturbata, rifeci ad uno ad uno i miei viaggi faticosi.

Melanconica cosa la memoria; quel ripetersi le gioie e i dolori senza provarne lo spasimo e la dolcezza, e dire a sè stessi che tutto ciò non è più, non sarà più mai; e che pure è una parte di ciò che noi siamo. Però io diventai mesto; ma quando vidi venirmi incontro Clelia sorridente e colla bambina fra le braccia, allora io sentii qualche cosa di freddo, quasi un brivido di piacere corrermi per le vene, e mi gettai nelle braccia di quelle creature coll'anima traboccante di fede. Quelle creature erano il mio avvenire.

Da quel punto non pensai più che a rallegrarmi della mia felicità. Rivedere Eugenio, dividere la mia vita fra l'amicizia e l'amore era troppo grande fortuna perchè io me ne mostrassi ingrato.

Comunicai a Clelia la lieta novella e con tanta anima come se io mi tenessi sicuro di farle piacere, e che il suo giubilo dovesse crescere il mio. Ella sorrise e mi domandò chi fosse Eugenio; e poichè comprendeva che la sua domanda mi avrebbe confuso, unì le sue mani passandole attorno al mio braccio, e mi guardò in volto carezzevole.

"Tu hai cento volte ragione;" le dissi. E siccome mi sovvenne allora che non solo Clelia non conosceva Eugenio, ma non ne aveva forse udito parlare una sola volta da me, le palesai brevemente i nostri rapporti di collegio, facendo di lui un ritratto lusinghiero, perchè ella pigliasse a stimarlo. Clelia mi ascoltava, pareva godere del mio godimento, e mi assicurava che avrebbe avuto piacere di conoscerlo. Se non che io scorsi nelle sue parole un po' di freddezza, e quasi me ne piccai. Ella se ne avvide e mi si fece dappresso.

"Quando arriverà egli? mi domandò.

"Fra quattro giorni.

"E tu gli andrai incontro, non è vero? e passerai le tue giornate con lui, mi abbandonerai per questo nuovo amico che viene appositamente da Roma per allontanarti da me?..

La poveretta parlava in sul serio; io non sapeva che risponderle, ma il mio cuore traboccava di tenerezza. La confortai come seppi; le ripetei mille giuramenti; e che io l'amava più d'Eugenio e che l'avrei amata sempre.

Quando fu più calma, levò il suo volto ingenuo e mi confessò ch'era gelosa e che ci badassi."

XXXIII

"Quattro giorni dopo io mi recai di buon mattino ad aspettare l'arrivo di Eugenio. Vi andavo col cuore commosso, come se mi appressassi alle mura del collegio di B. e salissi per le scale e m'aggirassi per i corridoi una volta popolati dalle nostre voci argentine.

Per via mi domandavo come avrei fatto a riconoscere Eugenio, e s'egli avrebbe ravvisato me; ma poi che nessuno dei due poteva lusingarsi di tanto, io mi affannavo in quel quesito. "E via, pensai, non ne ho il ritratto nella mente? che se la memoria mi fallisse, non porto io nel petto un consigliero che mai non inganna?"

Così riconfortato, attesi più calmo. Udii il fischio del vapore e il pesante rallentare delle carrozze, e vidi schiudersi le porte, e uscirne una frotta di gente d'ogni sorta coll'aria annoiata e stracca… Guardai quei volti ad uno ad uno; il cuore martellava stranamente, ma non mi aveva ancora detto: "vedilo, è lui…"

Coloro avevano tutti aspetto d'uomini impensieriti delle loro faccende; ora Eugenio, secondo il mio concetto, doveva camminare ridente, e a un tempo affannoso, per rivedermi. E poi eran tutti bruni, o m'era parso; e se v'era qualche biondo frammezzo, gli era un personcino dilicato, mentre Eugenio per quanto io aveva strologato, doveva essere assai alto di statura.

Erano tutti passati; le porte s'erano rinchiuse, e il cuore non m'aveva peranco detto nulla.

Volsi lo sguardo intorno a me; i viaggiatori si cacciavano dentro le carrozze; interrogai dell'occhio la fisionomia di coloro che m'erano più presso, ma non seppi ricavare da nessuno di quei volti le linee giovanili d'Eugenio quali m'erano rimaste in mente. A un tratto m'accorsi che un uomo mi guardava-lo guardai; era bruno, di mezzana statura, giovane tuttavia ed assai bello. Non era il ritratto che io cercavo, e volsi il capo altrove, e per poco mi parve d'avere il fatto mio e corsi dietro ad una persona alta, di cui io non vedeva che le spalle, ma che avrei giurato ch'era Eugenio. Se non che in quella mi sentii toccare per un braccio dolcemente; era il giovine bruno di poco prima.

"Raimondo… disse egli confuso.

"Eugenio, dissi io-e ci abbracciammo più impacciati che inteneriti."

XXXIV

"Per via noi camminammo silenziosi; non so che avvenisse in me, e per qual fine io che aveva tanto desiderato l'arrivo di Eugenio, vedendolo, sentissi a un tratto una mestizia profonda in luogo di quell'allegra espansione che io aveva immaginato. Gli è forse perchè gli uomini, teneri sempre del loro passato, se ne fanno gelosi custodi; però il rivedere un amico dopo tant'anni, il rivederlo mutato, non è soltanto uno sconforto che tocca all'amicizia, ma una grave ed irreparabile offesa che si fa all'edificio delle nostre memorie. So di molti che lamentarono lo stesso sentimento. Io stesso l'ho provato altra volta. Sulla riva del Purus io m'era costrutta una tenda, e vi aveva lasciato Charruà a custodirla durante una peregrinazione che doveva durare alcuni mesi. Dopo un cammino faticoso ed una assenza più breve che io non avessi immaginato, feci ritorno alla mia tenda. Per via io aveva sospirato il momento di rivedere la sua banderuola svolazzante, e la rividi con gioia, ma quando ricercai dell'occhio la stretta apertura che vi dava accesso e la vidi coperta da un palmizio che Charruà vi avea fatto crescere per temperare l'ardenza del sole, la mia aspettazione delusa distrasse in gran parte la gioia del ritorno. Quel palmizio non era nel mio cuore, io non lo aveva lasciato, non aveva pensato al momento di rivederlo. Nè io amai per gran tempo quel palmizio benefico-anche oggi egli si caccia a forza nei miei ricordi, come un importuno che per riconoscenza o per compassione non si vuol cacciare dalla soglia della propria casa.

Questo pensiero mi correva alla mente anche in quel punto, però mi adoperai del mio meglio a riparare al mio contegno, e dissi non so più che cosa ad Eugenio. Ma le parole mi venivano stentate e le sue risposte non meno. E seppi più tardi da lui che egli aveva rimuginalo in quel punto le stesse considerazioni e che avea dubitato di essermi riuscito sgradevole.

Convenne rinnovare la nostra amicizia; ricostruirla sulle rovine. Somigliavamo a due povere capanne che il rivale capriccio di due tirannuzzi abbia celato sotto gli enormi macigni di due castelli merlati. I due castelli non si odiano, ma non si amano per anco; pendono incerti fra l'amore e l'odio, e si guardano con occhi di meraviglia, non sapendo tuttavia se le feritoie nasconderanno gli archibugieri, o lascieranno sventolare in quella vece due bianchi fazzoletti, innocenti segnali d'innamorati. Quei due castelli sono lì, immoti, colossi terribili se saranno amici, più terribili ancora se nemici, ma il profumo di quelle povere capanne non è più, i comignoli non gettano più quel fumo che si confondeva nell'aria; quella misteriosa favella di due esseri di sasso non s'è udita più mai.

Eugenio era dolce, amorevole, incontaminato ancora da quell'amarezza che il volgare cinismo degli uomini pone inesorabilmente sulle labbra degli onesti. La sua mente errava ancora nelle fantasticherie fanciullesche; si piaceva di progetti assurdi, di dorate chimere; pur conoscendo ch'egli ingannava sè stesso, viveva lieto dei suoi inganni.

Il suo cuore era il più gran cuore che mai giovine diciottenne abbia sentito battere nel petto; aperto alla compassione, non per quella sensibilità che è comune a molti uomini soggetti al predominio dei nervi, ma per un sentimento gagliardo di carità, per una generosa bile che fremeva in lui contro l'apatia insultante della classe favorita dalla sorte.

Io ricercava invano l'allegro e spensierato fanciulletto d'una volta; nulla più ne rimaneva. Al sorriso scherzevole era succeduto il sorriso sereno che viene dal profondo dell'anima, alla barzelletta vivace la parola carezzevole, insinuante, melanconica. Eugenio era bello, assai bello; non di quella bellezza scipita, rattoppata colle consultazioni dello specchio, ma d'una bellezza franca, armoniosa, severa. Egli non se ne teneva, non se n'avvedeva fors'anco; e tuttavia i contorni del suo volto erano esatti, il suo colorito soavemente pallido, il suo sguardo lungo, e i suoi capelli bruni e lucenti. Era abitualmente mesto, ma alla guisa d'un'aquila che vede in alto la luce e una catena al suo piede; avrebbe forse voluto salire, volare, ma egli nol sapeva, non desiderava nulla, fuor che di benedire.

Non dirò come al contatto di quel cuore ancora vergine, e a un tempo così traboccante d'affetto, il mio cuore si rinverdisse, la mia mente si elevasse più in alto. E tuttavia io sento di dover pagare questo tributo, io che fui già così ingiusto con lui, che forse lo sono ancora.

Egli era pieno di fede; sebbene io amassi e fossi riamato, e che la fede non mi mancasse, tuttavia la mia anima ardente nell'affetto, lieta nella speranza, era inoperosa e languida nel credere. Vicino a lui mi sentii più forte; scorsi nella vita un'altra ghirlanda di fiori, e salutai il mondo con un nuovo sorriso.

Talvolta egli era pensoso, distratto; in quei momenti vagheggiava un concetto, domandava un'ispirazione, voleva creare. Questo era il suo dubbio, il suo contristato vaneggiamento: uscire dalla folla, levarsi sovr'essa con ardimento nobile, dominarla collo scettro del genio.

Si sentiva nato artista, sapeva di aver lavorato molto per riuscir tale, e s'impauriva del suo avvenire; si scoraggiava delle sue forze, gli pareva d'essere indegno di entrare nella lotta, e ch'egli dovesse uscirne, meschino atleta, colle guancie imporporate dalla vergogna.

In quei momenti mi sfuggiva, voleva essere solo, non voleva turbare la mia pace. Ma queste paure erano brevi e rare; il suo spirito si risollevava più audace, la sua mente brillava di nuovo della luce del pensiero. Allora diventava ciarliero; mi parlava dell'arte con passione, come d'una innamorata che gli avesse sorriso; e nella sua ebbrezza immaginava un quadro, e lo incominciava impaziente, e spesso lo finiva colla stessa febbre. Gli è così che egli dipinse le sue più belle tele nel breve giro di alcuni mesi.

Io non ho incontrato in altri mai così armoniosa mente legati il culto dell'arte, e il culto dell'uomo. Eugenio era un grande artista, ma, ciò che è assai più, era anche un uomo onesto. La più parte degli artisti invece ha due vite: l'una è la vita dell'arte, ed è grande; l'altra è la vita dell'uomo, ed è fango.

In breve diventammo indivisibili.

Clelia se ne era mostrata indifferente nei primi giorni; ma non andò gran tempo che io mi accorsi, sebbene tentasse di dissimularlo ai miei occhi, che mi celava l'animo suo.

Le domandai un giorno scherzando se fosse ancora gelosa di Eugenio; mi abbracciò e sorrise, ma non disse di no. A poco a poco non potè più riuscire a nascondermelo; me lo diceva francamente: l'affetto che io accordava ad Eugenio era rubato al nostro amore. Mi rimproverava di non amarla più come prima, di trascurarla come un tempo non avrei fatto.

Fui così sorpreso di questa rivelazione, che per un istante ne rimasi afflitto, e scesi dentro di me ad interrogarvi il mio cuore. La gelosia di Clelia era ingiusta; io sentiva d'amarla come l'aveva amata, più che non l'avessi amata; i due affetti vivevano concordi nel mio petto, nutriti dello stesso palpito, rinvigoriti l'uno dell'altro. Glielo dissi, e ne parve giubilante. Ma dopo alcuni giorni si rifece da capo ai suoi timori.

La donna vuole essere esclusiva nel suo amore; vuol dire a colui che ama: io sono tua, tutta tua; e poter dire al suo cuore: colui che amo è mio, di nessun altri, interamente ed esclusivamente mio. Quella creatura debole è paurosa di tutto; e di che temerebbe ella la poveretta, se non di colui che ama? Dappertutto ella vede un'insidia per rapirglielo; e ve lo dice: vorreste offendervi perchè ella vi ama troppo?

–Tu esci; non guarderai nessuno per via?..

–Nessuno, mi conosci.

–Lo so, tu sei buono; ma che vuoi? quelle donne che passano per la via sono così sfacciate, appiccano gli occhi sulla faccia a tutti i giovinotti; non è vero che sono sfacciate?

–Impertinenti…

–Ecco qui… mi canzoni; ma ve n'è di così belle…

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
31 июля 2017
Объем:
200 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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