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Читать книгу: «Due amori», страница 2

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VI

Nonostante la cura che Raimondo poneva per nasconderlo ai miei occhi, io compresi dopo alcuni giorni come il nuovo genere di vita a cui si era dato non riuscisse tuttavia a riempiere il vuoto profondo del suo cuore. Nei primi giorni egli prese parte ai nuovi piaceri con avidità; lo condussi ai teatri, alle adunanze chiassose di scapoli che da gran tempo avevo abbandonato anch'io, da per tutto ove si ride, si folleggia e si dimentica. Ma in ciò fare comprendevo io stesso l'insufficienza del mio rimedio; però pensai che il tempo avrebbe compito meglio di me l'opera che io aveva intrapreso. Stimai dunque miglior partito introdurlo in quelle poche famiglie che io conosceva e abbandonarlo poscia a sè stesso. Così feci. Ma ben tosto mi persuasi che ogni mio studio per ridonargli la sua pace era riuscito a vuoto. Quando Raimondo non ebbe più il mio eccitamento, trascurò le nuove conoscenze, e talvolta si tenne qualche giorno lontano da me senza avvisarmene secondo il consueto per mezzo di Charruà.

Evidentemente egli temeva i miei rimproveri; ma, forse per non mostrarsi ingrato, continuava a mostrar desiderio di vedermi, e per non peccare d'inciviltà si recava di tempo in tempo presso quelle famiglie che lo avevano accolto cortesemente nelle loro sale.

Fra le altre la contessa B. che aveva anch'essa passato parte della sua vita nell'America del Sud, s'era mostrata assai desiderosa di Raimondo. Egli vi si recava più volentieri, attratto dalla cortesia e dallo spirito della padrona di casa; ma si mostrava indifferente e freddo verso la folla di signore eleganti e d'artisti, da cui erano frequentati quei convegni notturni.

La contessa B. era una donna sui cinquant'anni; di modi affabilissimi, e di cuore ancor giovane. A poco a poco avea posto un grande affetto a Raimondo, e se avveniva che rimanesse alcun tempo senza vederlo, ne domandava a me con molta premura.

Naturalmente Raimondo si accorse di questo suo desiderio; e siccome egli era modesto e riconoscente a quel po' d'affetto che gli si offriva, fu tratto man mano a rendere più frequenti le sue visite. Così avvenne che capo qualche tempo le sue abitudini n'andarono affatto mutate.

Una sera, mentre Raimondo ed io discorrevamo in un canto della sala colla contessa, vedemmo venire incontro a noi un vecchio alto della persona ed una giovinetta sui diciotto anni. La contessa corse loro incontro, strinse la mano al vecchio, e baciò sulla bocca la fanciulla. Poco stante ci presentò il generale R. e la signorina Clelia.

Il generale era un uomo alla buona, di modi franchi e assai parco di parole. Se non avea toccato i settant'anni, certo era giù di lì; ma si conservava tuttavìa abbastanza in forze, sebbene la sua alta statura lo obbligasse a tenere il capo alquanto incurvato.

La signorina Clelia era una personcina dilicata, piuttosto pallida, con due occhioni neri e con lunghe treccie di capelli castani che lasciava scendere sulle spalle. Nell'insieme una creatura come se ne vedono tante; non affatto bella, e tuttavia ricca di doti fisiche; e se le falliva quella consapevolezza dei proprii meriti che è sì presso alla civetteria e che molti ricercano nella donna, spirava in compenso dai suoi occhi una candida espressione di ingenuità, e dall'abbandono delle sue membra e dalle sue movenze, una certa mollezza che non è difetto, e una tal quale indolenza piacevole. Clelia era una creatura buona. Parlava senza affettazione, senza guardarsi all'intorno per farsi ascoltare; sorrideva spesso; a quell'età il sorriso viene dal cuore; e se taluno le dirigeva la parola, sapeva starsene in ascolto-tutto ciò non è tanto comune come può parere. La sua parola era facile e chiara; diceva tutto il bene che sapeva-quando si mormorava di qualcheduno, taceva; se lo poteva senz'offendere, mutava discorso-palesava i suoi gusti senza tenersene-era presto fatto a dirli, i suoi gusti, ed infinito ad enumerarli: amava tutto. Tale mi parve dopo alcuni giorni ch'io l'ebbi in pratica la signorina Clelia.

Se non che io non seppi alla prima indovinare la sua condizione. Il vecchio generale la chiamava talvolta: "figliuola mia;" ma il più spesso: "signorina;" però se io poteva argomentarne del suo affetto paterno, era ben altra cosa della sua qualità dì padre.

Ma in una radunanza d'amici di casa l'è assolutamente impossibile di tener per gran tempo la tua curiosità, senza che trovi cento disposti a pagartene. I ciarlieri e i curiosi sono le razze più numerose che pullulino sulla terra. E che Domine Iddio ti scampi dagli uni e dagli altri, però che per maggior malanno essi si vivono in ottima armonia, e i ciarlieri vendono per uso e consumo dei curiosi-e la sete di questi è per lo meno pari alla feconda produttività di quelli. Ma siccome avviene che il curioso sia alla sua volta ciarliero, anzi per ciò solo sia avido di sapere, in quanto trovi mezzo di dire, a conti fatti avviene che è sempre l'uditorio che si trova a mancare. Però i galantuomini che se ne vivono al di fuori, si vedono involontariamente trascinati al mercato dove si vende a gran ribasso.

Press'a poco in questo modo avvenne che io sapessi qualche notizia sul conto della signorina Clelia. Era orfana, o almeno passava per tale; in questo convenivano tutti; ma secondo gli uni il Generale era un tutore, secondo altri un padre che nascondeva una colpa-se taluno avesse osato, non si sarebbe arrestato dinnanzi alla sua canizie e avrebbe detto peggio.

Una sera io mi era recato secondo l'usato presso la contessa B., notai che Raimondo, che da qualche tempo s'era fatto frequentatore assiduo, non era venuto. La contessa me ne domandò notizie; risposi non averne; infatti in quel mattino egli non era stato da me. Il discorso si portò naturalmente sovra di lui; la signorina Clelia era seduta d'accanto e ci ascoltava. In quella entrò Raimondo. Fosse caso o istinto, i miei occhi s'incontrarono con quelli di Clelia; ciò bastò a farlo arrossire.

–Si parlava di voi, disse la contessa, ne dicevamo molto male, perchè temevamo che non veniste.

Raimondo si scusò con garbo; da qualche tempo avea fatto cammino nella galanteria.

Poco stante la conversazione nostra languì; Clelia non diceva motto-Raimondo s'era fatto tetro. Mi aspettava che secondo il suo costume di allontanarsi quand'era sorpreso da cotali malinconie, togliesse commiato. Ma con mia sorpresa egli stette. La contessa, che aveva in qualche pratica il cuore di lui, procurava distrarlo, ma inutilmente.

Un'ora dopo la signorina Clelia salutò la contessa, e uscì.

Raimondo non s'era quasi mosso; ma non andò guari che anch'egli lasciò l'adunanza. Io gli tenni dietro e lo raggiunsi.

VII

Parve lieto che io l'avessi seguito; ma non mi palesò la cagione della sua mestizia. Credendo ch'egli volesse andarne a casa, lo accompagnai.

Durante la via non mi disse parola. Come fummo arrivati alla sua abitazione, feci atto di arrestarmi; ma egli passò oltre. Assolutamente Raimondo era distratto.

Attraversammo molte vie, sempre collo stesso silenzio-così di passo in passo uscimmo alla campagna.

Il cielo era sereno; le stelle fitte e lucenti; qualche rara nuvoletta bianca viaggiava in quell'immenso aere notturno.

Le tenebre avevano animato le voci strane dei loro cantori; i grilli nelle praterie, le rane nella vicina palude, e a quando a quando la civetta e il gufo nell'estrema punta della quercia levavano al cielo il loro inno melanconico. Intendendo l'orecchio si udiva da lungi come un vago mormorio di mille note diverse; il silenzio ha la sua voce, una voce confusa che non si sa d'onde parta, ma che arriva sempre al cuore.

Ci arrestammo estatici.

Poco dopo Raimondo mi afferrò le mani, levò gli occhi al cielo, e mi disse con un accento singolare di selvaggia esultanza:

–Amico mio, amico mio, non ti pare che la natura susurri il suo arcano linguaggio per noi soli? Io mi sento leggiero-vorrei salire in alto… in alto, inseguire quella nuvola. Mi si dilata il cuore-ho un gran cuore-vorrei stringere tra le braccia l'universo, e dirgli che l'amo.

–Mi par proprio di volare, aggiunse con crescente entusiasmo, mi par proprio di credere. La mia fede è fatta di voli.

In quella soave contemplazione passò alcun tempo.

Suonava mezzanotte, e noi non ci eravamo ancora mossi.

Vedendo come quel rintocco non lo scuotesse, io fermai in mente che Raimondo era distratto.

VIII

Il domani alcune occupazioni mi tennero lontano da casa. Quando vi ritornai seppi che Raimondo non era stato a far ricerca di me.

Se non che non era ancora l'alba del giorno successivo, che io udii picchiare all'uscio della mia camera; era lui. Mi proponeva una passeggiata all'aria aperta-accettai.

Per via parve pensieroso; ad ora ad ora m'interrogava sulle mie abitudini, ed io gli venia ripetendo cento cose che egli conosceva meglio di me.

–Come hai vissuto jeri? mi domandò all'improvviso.

–Occupatissimo. Sarei venuto da te, ma non ebbi tempo.

–E la notte?

–Un sonno solo.

Non ebbi dette queste parole, che egli ammutolì e si oscurò nel viso-nè per quanto io vi almanaccassi sopra, seppi comprenderne la cagione.

IX

Alla sera io mi recai in casa della contessa; mi aspettava d'incontrarvi Raimondo, ma non vi era ancora.

Il generale mi venne incontro; gli domandai notizie della signorina Clelia. Era incomodata lievemente e s'era rimasta a casa.

Raimondo non comparve-quando l'ebbi aspettato tre ore inutilmente, mi allontanai.

Per otto giorni fu la stessa cosa. Sempre che mi recai nelle sale della contessa non vi vidi mai Raimondo-e il generale continuava a dirmi che la signorina Clelia era incomodata.

Io era stato più volte in casa del mio amico; ma Charruà m'avea sempre detto che non era in casa. Vi andai ancora una volta-la stessa risposta.

Raccomandai a Charruà dicesse al suo signore: Che l'amico avea bussato sette volte all'uscio dell'amico, e che l'uscio non s'era aperto.

Charruà accennò del capo; uscii con animo di non più ritornare.

Tre ore dopo Charruà veniva a me e recavami una lettera di Raimondo.

Ne ruppi il sigillo e la lessi con avidità. Quella lettera era così concepita:

"Tu hai ragione di lamentarti di me; tu hai ragione di dire ch'io sono un ingrato; ma benchè sappia d'essere colpevole molto, e d'aver tradito i doveri dell'amicizia, lascio sperare al mio cuore che la franchezza con cui mi faccio accusatore di me medesimo, renderà te giudice più benigno.

"Ti devo una confessione, una confessione che non farei a mia madre s'ella vivesse ancora, che il mio pensiero non vorrebbe fare alla mia anima, se per poco io potessi separarne le facoltà, e fare che il mio solo volere ripartisse a seconda dei suoi capricci la scienza.

"Lo dirò senza esitare più oltre: "io amo." Vorrei anche in questo momento temperare la forza di questa affermazione e dirti solo che "ho paura di amare;" e forse sarei nel vero; ma io penso che in coteste cose il sospetto valga la realtà; e d'altra parte la titubanza prolungherebbe lo strazio che ha durato fin ora.

"Così dunque, anzi che continuare, in una lotta ineguale senza frutto, io preferisco darmi per vinto.

"Devo dirti qual donna io ami? Tu l'hai indovinato-Clelia.

"Non sorridere del mio orgoglio. Tutto ciò che tu potresti dirmi, me lo son detto io stesso. Ho pensato alla sua bellezza, alla sua grazia, al suo candore; poi ho penetrato dentro di me, vi ho rovistato tutto il buono che vi ho trovato, e mi è sembrato assai misera cosa. Debbo dirtelo? mi sono rinchiuso nelle mie camere, e per la prima volta nella mia vita ho dimandato allo specchio una parola di conforto.

"Il risultato di questo supplizio tu lo conosci: ho cessato di frequentare la casa ove avrei incontrato quella creatura. Ho cessato di veder te, perchè non avrei resistito alla tentazione di chiedertene notizie. E d'altra parte tu avresti indovinato il mio segreto; ora poi che io mi lusingava di guarire dal mio delirio, parevami che ove qualcuno, fosse anche il migliore dei miei amici, avesse potuto guardare nel mistero del mio povero cuore, io sarei stato impotente a sanarlo.

"Non ti dirò quanto io abbia sofferto fino ad oggi: non ti dirò quanto io soffra tuttavia; nè come il primo soffio di questa fatale passione venisse a ridestare nel mio seno gli entusiasmi dei primi anni; nè come poche ore dopo soltanto si tramutasse in fuoco insaziabile. È tutt'oggi ch'io mi torturo senza pietà; vorrei piangere molto, e non trovo una lagrima. Non so perchè; ma in mezzo a questa disperanza senza fine, odo talvolta come delle voci che mi ripetono accenti d'amore, e promesse ineffabili; e tutto ciò mi suona improntato a melanconia, come una gioja severa che si accompagni col dolore, ed abbia la stessa sorgente del pianto.

"Ho dei momenti in cui sembro un fanciullo, e vorrei levar dal sepolcro la mia povera nonna per appoggiare sulle sue ginocchìa il mio capo e sognare ad occhi aperti.

"Altre volte inferocisco; passeggio a gran passi, smaniando, e per disfogare il dispetto, tengo il broncio a Charruà. – Povero Charruà! Sono alcune notti ch'egli veglia al mio capezzale. Gli ho detto di dormire, ma non ha voluto darmi retta; ho dovuto mandarlo via dalla mia camera; ma quando credeva ch'io dormissi, ritornava sulle punte dei piedi, mi guardava con tenerezza e si allontanava crollando il capo senza far più rumore d'uno spettro.

"Eccoti il mio segreto. Giudica tu mio buon amico se io meriti compianto o rimprovero.

"Sarei venuto io stesso, ma ho pensato che scrivendoti avrei avuto più coraggio, ed ho scelto questo partito.

"Lo vedi; io sono stremato di forze, il mio animo è fiacco. Perdonami. Una sola parola a Charruà, ed io verrò."

–Farò di meglio, pensai dentro di me, andrò io stesso; e fatto cenno a Charruà che durante tutto quel tempo s'era rimasto immobile e pensieroso, uscimmo.

X

Raimondo non avea taciuto nulla nella sua lettera; e tuttavia il vederlo crebbemi il dolore.

Mi ripetè il suo spasimo, i suoi dubbii, il suo timore di riuscire ingrato agli occhi di Clelia; e poi che gli uomini temono sopra ogni cosa il ridicolo e lo vedono da per tutto dove il compasso non ha portato la sua misura, io compresi che Raimondo era torturato da questo pensiero. Arrossiva di amare; col suo volto, coi suoi modi parevagli debolezza; e quando doveva pure dirla questa parola che Dio ha scolpito nel cuore delle sue creature, balbettava e mi guardava nel volto temendo che io lo canzonassi.

Strana vicenda delle cose del mondo è questa che il vizio usurpi a quando a quando le spoglie della virtù e s'incontrino degli sciagurati che si tengano della loro abbiezione, e parlino delle loro colpe e mettano a nudo le loro sozzure con compiacenza. Ma che la virtù arrossisca di sè medesima, e per poco non discenda a domandare il mantello del vizio, questo in verità non si saprebbe comprendere. Ed io penso che se gli uomini non si frodassero a vicenda di uno spettacolo che sana molte piaghe, e sdegnassero questo mentito tributo alla colpa, il fardello dei loro dolori n'andrebbe alleggerito d'assai.

Persuasi Raimondo a sperare, ad abbandonarsi a me. Non ci volle gran fatica; la solitudine avealo fatto arrendevole, però io posi per primo patto che egli venisse meco quella sera medesima in casa della contessa. Rifiutò sulle prime vivamente; non avrebbe osato incontrarsi subito con Clelia; ma quando io gli dissi come da una settimana ella non fosse più venuta nelle sale della contessa, allora fu un tempestare di domande, alle quali io non sapeva rispondere. Da quel punto non stette più sul diniego; senza che io insistessi più oltre, era inteso che quella sera sarebbe venuto.

XI

Vi andammo assai di buon'ora; io con animo lieto ed aperto alla speranza; Raimondo trepidante e dubbioso, ma tuttavia più calmo.

Avendo in mente che essendo primo ad arrivare si sarebbe trovato in minori imbarazzi, era stato lui a farmi premura; pure quando fummo giunti, sebbene fosse assai lieve la speranza che la signorina Clelia si recasse dalla contessa, e l'ora fosse tale da toglierne ogni lusinga d'incontrarvela, poco mancò che Raimondo non se ne dolesse. E poi che egli era stato travagliato da una cotal paura d'incontrarsi con Clelia, avvenne, come è facile immaginare, che in quel punto dimenticasse il suo primo timore, e l'ansia dell'aspettazione si convertisse per lui in nuovo supplizio. Se non che, fosse caso o provvidenza, Clelia un'ora dopo entrò nelle sale accompagnata dal vecchio generale, e allora Raimondo fu da capo alla prima trepidanza.

Se io non andai errato nel giudicare, parvemi che come Clelia vide Raimondo, si turbasse nel viso, quasi non s'attendesse d'incontrarlo; e partendo da questa prima osservazione, immaginai di vedere per tutta quella sera le traccie del turbamento sul suo volto, e ch'ella facesse del suo meglio per dissimulare.

Comunicai il mio pensiero a Raimondo; e non è a dire se egli n'andò lieto. Da quel punto fermò in mente di volerle palesare l'animo suo, e raccolte le sue forze se le fece innanzi, la salutò e si assise al suo fianco.

–Questa volta il selvaggio s'è fatto uomo, pensai dentro di me; e giuro che giammai mortale che avrà vissuto fino a domani potrà dirsi più felice di Raimondo.

Non rimanendomi di meglio a fare, gironzai alcun poco per le sale. Un'ora dopo essendomi nato desiderio di vedere a qual punto si trovasse nel suo labirinto, cercai cogli occhi Raimondo. Egli era sempre vicino a Clelia e le parlava con calore… "Benissimo!" Però non avendo di meglio a fare, io continuai a gironzare per le sale.

XII

Dopo due ore che mi parvero eterne, le sale incominciarono a farsi deserte.

–Ecco due creature che le avranno trovate troppo brevi; dissi abbracciando dell'occhio il gruppo appassionato di Clelia e Raimondo. L'una cosa paga l'altra. E scommetto io che essi avevano molte cose a dirsi.

Non avevo peranco cessato di dire queste parole, che il generale s'accostò alla signorina Clelia, e questa si rizzò in piedi, e salutato cortesemente Raimondo, si allontanò. In un baleno fui d'accanto a Raimondo, che pareva essere rimasto fuori di sè; e trattolo meco, sotto il pretesto di riverire la contessa, giunsi ancora in tempo a farlo incontrare un'ultima volta con Clelia.

–Cospetto, gli dissi quando fummo usciti, non potrai lamentarti di me, nè dire che io non mi abbia sorbita la noia in bel modo per lasciarti a tuo bell'agio.

Se non che al malumore di Raimondo compresi come la celia non tornasse opportuna.

Nè io so d'averlo mai visto tanto dispettoso; ma, quel che è peggio, egli era sconfortato dei fatti suoi; e chi conosce le vie più riposte per cui si giunge all'umana debolezza, pensi se questa era tortura.

In conclusione egli se n'era stato tutta sera vicino al suo amore, e non gli aveva detto ch'egli era il suo amore; gli si era seduto al fianco, l'avea seguito per due ore come uno spettro, gli aveva parlato all'orecchio, per narrargli i suoi viaggi presso le tribù indiane, e descrivergli i costumi dei Lenguà, dei Pampà e degli Aguite queducayà.

Non so come mi stetti dal ridere, e me ne rattenne lo spettacolo del suo dolore che non era men vivo, sebbene andasse unito al ridicolo.

Se non che richiamandomi alla mente quel giorno, e pensando a quelle puerilità d'anima innamorata, parmi ora che soltanto il riso beffardo dei cinici potrebbe deriderle; e che in un'età in cui si è così presso alla fanciullezza che un palpito affrettato del nostro cuore può rinnovarcene le dolcezze, sia grave torto degli uomini il rifuggirne col rossore sulle guancie.

Però il lettore avveduto farà bene a non sorridere di Raimondo; e s'egli ebbe nella vita un'ora sola in cui gli abbia somigliato, o sia in età di temere altrettanto per lo avvenire, tanto meglio per lui-e farà bene a confortarsene.

XIII

Ogni volta che abbiamo qualche cosa da rimproverare a noi stessi, suole avvenire che al dolore succeda il pentimento, e che questo provochi propositi nuovi; così l'animo di Raimondo andò a poco a poco rasserenandosi; e come ei fu queto, domandò il cielo in testimonio che un'altra volta sarebbe stato più avveduto e più ardimentoso.

Con questo proposito egli ritornò la sera successiva in casa della contessa, ed io credo che non avrebbe fallito alla sua promessa, se la mala stella non ci si fosse posta di mezzo. Clelia non venne.

Il giorno successivo neppure-così l'altro e l'altro ancora.

Immaginate lo spasimo di Raimondo. Del resto il generale continuava ad intervenire colla stessa regolarità, nè mai una volta che mancasse. Ora se la signorina Clelia fosse stata ammalala, il generale non sarebbe venuto-questo era evidente.

Come Raimondo fu venuto a questa conclusione, non andò molto che prese il suo partito. S'egli era stato debole e pauroso con una donna, altrettanto sapeva essere franco con un uomo; però colto un momento in cui il vecchio generale si lisciava in un cantuccio della sala i lunghi mustacchi, gli si accostò risoluto e lo salutò.

Il generale s'inchinò, e continuò a lisciarsi i mustacchi; ma Raimondo tenne duro, e gli domandò notizie della sua salute. Il generale stava benissimo, e continuava a lisciarsi i mustacchi; ma quando s'accorse che il suo interlocutore non aveva in animo di lasciarlo in pace alle sue fantasie, gli domandò tra il sorriso e il cipiglio:

–Il signore mi conosce?

–Ho questa fortuna. Ella è il generale R. Mi fu presentato dalla contessa ed io non l'ho più dimenticato.

–Troppo onore.

–Io sono Raimondo X.

–Ne ho piacere.

–Ella è anche, se non erro, il tutore, o lo zio, o il padre della signorina Clelia?

–Precisamente.

–E la signorina Clelia è ella incomodata?

–Non credo.

–Però da un pezzo non frequenta queste sale…

–Fa i suoi gusti.

Raimondo incominciava a perdere la pazienza; comprese che non vi era mezzo di far chiaccherare quel vecchio orso, e mutò sistema:

–Vorrebbe ella avere la cortesia di darmi qualche notizia più chiara sul conto della signorina Clelia?

Il generale si volse all'improvviso, e guardò in faccia Raimondo. Poi con affettata cortesia:

–E si può sapere a quale scopo ella mi fa questa domanda?

–Io m'interesso molto per la signorina Clelia…

–E con qual diritto ella s'interessa per la mìa creatura? interruppe il generale con asprezza.

–Perchè l'amo, rispose calmo Raimondo.

–L'ama! E in che modo ella l'ama?

–Io non ne conosco che uno.

–Questo è vero; disse il generale mansuefatto dalla sincerità di Raimondo.

Per qualche minuto nissuno dei due fe' motto. Il generale pareva riflettere, e la sua fronte si rischiarava. Fu egli il primo a rompere il silenzio:

–La mia creatura sa essa di questo amore?

–Non lo so, ma credo di no.

–E che venite dunque a contare a me?

–Perdonate? ma se io potessi dirlo ad essa, non lo direi a voi.

–Lo credo.

–Ma io non so come fare a dirglielo.

–Eh! diamine; non glie lo dirò già io per voi. Parlatele.

–Non domando di meglio; ma posto che essa non viene qui…

–È verissimo… posto che essa non viene qui, voi non potete parlarle.

–Se la conduceste qui…

–Vi pare? Essa fa i suoi gusti.

–Ma se la pregaste…

–S'io la pregassi, verrebbe.

–Dunque?..

–Dunque io non la prego. Quest'è chiaro. Dal momento che la mia preghiera distruggerebbe la sua volontà, tanto varrebbe ch'io l'obbligassi.

–Ma allora io non vedo come…

–Ed io meno di voi.

–Converrete che ciò è doloroso.

–Pienamente.

–Vi sarebbe un altro mezzo.

–Sentiamo.

–Ponete che invece di venir essa qui, mi recassi io da lei.

–Bravissimo. È ben trovato.

–Dunque siamo intesi. Voi m'invitate ed io vengo.

–Siamo intesi; v'invito e venite…

–E parlerò colla signorina Clelia.

–Impossibile; il suo appartamento è separato dal mìo…

–Ma in questo caso il mio trovato non serve.

–Anche questo è vero.

–Che mi consigliate di fare?

–Consigliarvi? Vi pare? alla mia età…

–Anche voi avete avuto vent'anni; anche voi avete amato.

–Ho avuto vent'anni, non lo nego; e poichè voi ne sembrate persuaso, confesserò che ho amato anch'io.

–E che fareste al mio posto?

–In verità poichè l'affare è molto serio, vorrei pensarci sopra seriamente.

–Cosicchè tocca a me il pensarci?

–Tocca a voi, cred'io.

–Grazie del consiglio, generale.

–È una bagatella, signor Raimondo.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
31 июля 2017
Объем:
200 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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