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Читать книгу: «Le due tigri», страница 12

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Capitolo XIX. LA SCOMPARSA DELLA BAJADERA

Il cornac tornava all’accampamento in uno stato deplorevole e pareva che avesse fatta una lunga corsa.

Era infangato dai piedi alla testa, le sue vesti erano strappate in dieci parti, aveva perduto il turbantino e la fascia che gli sorreggeva il dubgah e le sue gambe nude sanguinavano fino sopra il ginocchio.

Aveva però in mano il suo uncino di cui si serviva per guidare il merghee, arma sufficiente per spaccare il cranio ad un uomo. Vedendolo comparire, tutti gli si erano precipitati incontro, soffocandolo di domande.

Il povero diavolo però, che respirava affannosamente, non rispondeva che con gesti disperati, accennando ora l’elefante ed ora la jungla.

– Bevi un sorso, – disse Sandokan che teneva ancora a fianco la sua fiaschetta ripiena di cognac. – Prendi lena e narra tutto senza perdere tempo. Che cosa è accaduto qui? Chi ha ucciso il merghee? E la fanciulla?

Il cornac bevette avidamente alcune sorsate, poi con voce ancora rotta per l’emozione e per la lunga corsa, disse:

– I Thugs… erano là… nascosti dietro quel muricciolo… con indosso delle pelli di nilgò… i miserabili… aspettavano il momento per piombarci addosso.

– Adagio, – disse Sandokan. – Spiegati meglio. Per quanto fuggano noi li raggiungeremo col coomareah, quindi abbiamo tempo.

– La tremenda raffica che ci ha investiti, mi aveva spinto a due o trecento passi dal mio elefante, scaraventandomi in mezzo ad un cespuglio di mindi che attutí l’urto della mia caduta.

Mi ero appena rimesso in piedi e stavo per accorrere in vostro aiuto, quando udii nel campo delle grida di donna che invocavano soccorso.

Supponendo che la fanciulla si trovasse in pericolo, non vedendo piú voi, mi diressi da quella parte.

Prima che vi potessi giungere vidi cinque animali, cinque nilgò, alzarsi dietro un muricciolo di fango, gettare in aria le pelli… e comparire invece uomini, nudi come vermi, che avevano attorno le reni il laccio degli strangolatori.

Due di loro che erano armati di larghe sciabole, si scagliarono contro il mio povero elefante, tagliandogli con due poderosi colpi i tendini delle zampe posteriori; gli altri invece si gettarono fra le haudah che il vento aveva rovesciate e fra le quali si trovava Surama che il corpaccio del merghee aveva protetto contro la furia della tromba. Afferrarla, legarla con due lacci e portarla via fu l’affare d’un solo momento. La disgraziata non aveva avuto che il tempo di gridare: «Aiuto, sahib!».

– Lo abbiamo udito quel grido, – disse Yanez. – È me che chiamava. E poi?

– Mi sono slanciato sulle tracce dei fuggiaschi, chiamando disperatamente il cane e la tigre che avevo veduto ruzzolare fra le canne ed i rami dalla parte dell’accampamento e cadere insieme. Il primo fu pronto ad accorrere alle mie chiamate, ma ormai i Thugs, che fuggivano come antilopi, erano scomparsi fra il caos di vegetali.

Nondimeno continuai ad inseguirli preceduto dal cane e seguito poco dopo dalla tigre.

Tutto fu inutile. La terra inzuppata non permetteva piú a Punthy di fiutare le orme dei Thugs.

– Quale direzione hanno presa? – chiese Sandokan.

– Fuggivano verso il sud.

– Credi tu, Tremal-Naik, che abbiano riconosciuto in Surama una delle loro bajadere?

– Non ne dubito, – rispose il bengalese. – Diversamente non avrebbero esitato a strangolarla per offrire una vittima di piú alla loro mostruosa divinità.

– Allora fra quei Thugs vi doveva essere qualcuno che la conosceva.

– Io ritengo che quegli uomini ci seguano dalla sera in cui noi assistemmo alla festa del fuoco.

– Eppure noi abbiamo prese tutte le precauzioni per non venire spiati.

– Mi viene un sospetto, – disse Yanez.

– Quale?

– Che qualcuno o piú uomini che facevano parte dell’equipaggio delle grab, abbiano preso terra contemporaneamente a noi e che non ci abbiano piú lasciati.

Diversamente come si spiegherebbe questo ostinato inseguimento?

– Io credo che tu abbia piú ragione di noi, – disse Sandokan. Stette un momento silenzioso, poi disse:

– Il ciclone accenna a calmarsi e le raffiche diminuiscono rapidamente. Organizziamo la caccia ai rapitori. Cornac, può portarci tutti il tuo elefante?

– È impossibile, signore.

– Vuoi un consiglio, Sandokan? – chiese Tremal-Naik.

– Parla.

– Dividiamo il nostro drappello.

Noi daremo la caccia a quei bricconi col coomareah, mentre i tuoi malesi ci raggiungeranno sulle rive del canale di Raimatla.

– E chi li condurrà?

– Il cornac del merghee che conosce le Sunderbunds quanto me.

– È vero, sahib, – rispose il cornac.

– Affideremo anche a loro Darma e Punthy che non potrebbero seguirci.

– Sí, – disse Sandokan. – Noi siamo in numero sufficiente per affrontare i rapitori. E poi mi preme mettermi a contatto cogli uomini della Marianna.

– Una parola ancora, amico mio. Il canale di Raimatla è lungo ed è necessario che i tuoi uomini ci trovino subito, onde non farci perdere del tempo che può diventare per noi preziosissimo. Cornac, hai udito parlare della vecchia torre di Barrekporre?

– Sí, sahib, – rispose il conduttore d’elefanti. – Vi sono stato una volta per tre giorni, per non venire divorato dalle tigri.

– È là che noi ti aspetteremo. Si trova quasi di fronte alla punta settentrionale di Raimatla, sul margine estremo della jungla.

– Condurrò là i tuoi uomini, in quattro o cinque giorni noi vi giungeremo.

– Fa’ mettere l’haudah al coomareah.

I due cornac, aiutati dai malesi, bardarono l’elefante che era ridiventato docilissimo, assicurando la cassa con catene e larghe cinghie d’una solidità a tutta prova, poi caricarono i bagagli e le cassette delle munizioni.

Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed il francese presero posto nell’haudah ed il coomareah ad un fischio del suo conduttore partí al trotto, dirigendosi verso oriente, ossia nella direzione presa dai rapitori di Surama.

Il ciclone dopo quelle tre o quattro raffiche poderose, che avevano sconvolta la jungla, devastandola completamente, si era calmato.

Quei perturbamenti atmosferici, se sono d’una violenza inaudita, come abbiamo già detto, hanno una durata brevissima, talvolta di pochi minuti.

Le masse di vapore cominciavano a lacerarsi qua e là e fuggivano verso il golfo del Bengala. L’oscurità si diradava e attraverso gli strappi delle nuvole scendevano dei raggi di sole, producendo uno strano effetto.

La jungla però si era tramutata in un caos di vegetali ammucchiati qua e là capricciosamente. Vi erano ammassi di bambú alti parecchi metri, che l’elefante era costretto a girare; tronchi atterrati, enormi cumuli di foglie ed anche un gran numero di animali morti, specialmente cervi, axis e nilgò.

Il suolo poi si era cosí inzuppato d’acqua da tramutare la jungla in un immenso pantano, entro cui talvolta il coomareah sprofondava fino al ventre, imprimendo all’haudah delle scosse cosí brusche, da obbligare i cacciatori a tenersi bene stretti alle corde per non venire sbalzati fuori.

Dei rapitori di Surama non si scorgeva però alcuna traccia, quantunque l’elefante avanzasse con una velocità tale da superare il galoppo d’un buon cavallo.

Invano Sandokan, Yanez ed i loro compagni giravano gli sguardi in tutte le direzioni: i Thugs non si scorgevano in alcun luogo, eppure non sarebbe stato difficile scoprirli, ora che i bambú erano stati abbattuti e che i kalam, ossia le alte erbe, giacevano piegate al suolo.

– Che ci siamo ingannati sulla direzione che hanno presa? -chiese Yanez dopo un’ora di continuo galoppo. – Dobbiamo già aver percorso almeno dieci miglia a quest’ora.

– O che li abbiamo invece sopravvanzati? – disse Tremal-Naik.

– In tal caso li avremmo veduti. La jungla è scoperta e da questa altezza si può scorgere facilmente un uomo.

– E meglio ancora un elefante, – ribatté il bengalese.

– Che cosa vuoi dire, Tremal-Naik?

– Che è piú facile che i Thugs abbiano prima scorto il coomareah, che noi.

– Vorresti quindi concludere? – chiese Sandokan.

– Che potrebbero essersi nascosti per lasciarci passare.

– Ed i nascondigli qui non mancano, – disse il luogotenente. – Basta cacciarsi sotto uno di questi ammassi di canne e di foglie per rendersi invisibili.

– Udiamo, – disse Sandokan, volgendosi verso Tremal-Naik. – Dove credi che conducano la fanciulla?

– A Rajmangal di certo, – rispose il bengalese.

– È un’isola, Rajmangal, è vero?

– Sí.

– Divisa da che cosa dalla jungla?

– Da un fiume: il Mangal.

– Per raggiungerla dove credi che si imbarchino?

– In qualche rada della vasta laguna.

– Sicché se noi incrociassimo presso l’isola…

– Potremmo sorprenderli, arrivando prima, potendo avere a nostra disposizione una scialuppa.

– Avranno buone gambe i Thugs, ma che possano rivaleggiare con un elefante che va di galoppo, non lo ammetterò mai.

– No di certo.

– Allora concludo, – disse Sandokan che parea seguisse un’idea fissa. – Noi spingeremo l’elefante meglio che potremo, in modo da giungere sulle rive delle Sunderbunds con un notevole vantaggio sui rapitori di Surama.

Quando ci saremo messi in comunicazione col mio praho, armeremo la baleniera e andremo ad incrociare sulle coste di Rajmangal.

– E li prenderemo prima che sbarchino sulla loro isola, – disse il signor de Lussac.

– E li fucileremo come cani, – aggiunse Yanez.

– Allora avanti e sempre di galoppo, – disse Sandokan. – Ehi, cornac, cinquanta rupie di regalo se puoi portarci sulle rive delle Sunderbunds prima di mezzanotte. Lo credi possibile, Tremal-Naik?

– Sí, se l’elefante non rallenta, – rispose il bengalese. – Siamo ben lontani, tuttavia vi giungeremo.

Il coomareah ha le gambe lunghe e vince un buon cavallo nella corsa. Spingi, cornac, spingi sempre.

– Sí, sahib, – rispose il conduttore. – Mettete solo a mia disposizione alcuni chilogrammi di zucchero ed il coomareah non smetterà di trottare.

L’elefante manteneva un galoppo ammirabile, senza che il suo conduttore avesse bisogno di aizzarlo coll’arpione, quantunque il terreno si prestasse poco per un corridore cosí pesante, essendo sempre pantanoso.

In meno di due ore attraversò il tratto spazzato dal ciclone e raggiunse la jungla meridionale, che pareva non avesse sofferto nulla da quelle trombe d’aria.

Infatti i bambú giganti, i calamus ed i foltissimi cespugli di mindi e di mussenda riapparivano a macchioni, interrotti di quando in quando da gruppi di splendidi cocchi, di pipal, di mangifere, di palmizi tara e di latanie, che crescevano sulle rive degli stagni.

Un’ora piú tardi l’elefante, che non aveva cessato di trottare, si cacciava in mezzo ad una immensa piantagione di bambú spinosi e di bambú tulda, d’altezza straordinaria.

– Apriamo gli occhi, – disse Tremal-Naik. – Questo è un vero posto da imboscate e un uomo potrebbe facilmente ammazzarci l’elefante con un colpo di tarwar nelle gambe posteriori. – Nulla però accadde e nessun pericolo minacciò l’elefante.

Verso il tramonto Sandokan ordinò la fermata, per concedere un po’ di riposo al bravo animale, il quale cominciava a dare segni di stanchezza e anche per preparare la cena.

D’altronde tutti sentivano il bisogno di un po’ di tregua, giacché le incessanti scosse li avevano completamente fiaccati.

Il cornac che ci teneva a guadagnare le cinquanta rupie promessegli da Sandokan, fece un’ampia raccolta di foglie di bâr (ficus indica) e di rami di pipal e erbe di typha di cui gli elefanti sono ghiottissimi e raddoppiò la razione di ghi e di zucchero, onde il pachiderma conservasse le sue forze.

Alle nove il coomareah ben pasciuto e rinvigorito da una bottiglia di gin tracannata d’un sol fiato come fosse semplice acqua, riprendeva il trotto sfondando impetuosamente l’enorme massa dei vegetali.

L’influenza dell’aria marina cominciava a farsi sentire. Una brezza abbastanza fresca ed impregnata di salsedine soffiava dal sud, indicando la vicinanza delle immense lagune che si stendono fra la costa del continente e la moltitudine d’isole e d’isolotti che formano le Sunderbunds.

– Fra un paio d’ore e anche prima, giungeremo sulle rive del mare, – disse Tremal-Naik.

– Ma noi non abbiamo pensato ad una cosa, – disse ad un tratto Yanez. – Se il praho incrocia nel canale di Raimatla, come lo raggiungeremo mentre non possediamo alcuna scialuppa?

– Non vi è alcun villaggio di pescatori sulle rive? – chiese Sandokan.

– Una volta ve n’erano, – rispose Tremal-Naik, – ora i Thugs hanno distrutte le capanne e anche gli abitanti. Non vi è che la piccola stazione inglese di Port-Canning, però troppo lontana e perderemmo un tempo troppo prezioso per noi.

– Bah! Costruiremo una zattera, – disse Sandokan. – I bambú si prestano benissimo.

– E l’elefante? – chiese Yanez.

– Il cornac lo condurrà là dove abbiamo dato appuntamento ai tuoi malesi, – rispose Tremal-Naik. – Se poi… Oh!

Un urlo acuto in quel momento ruppe improvvisamente il profondo silenzio che regnava nella jungla.

– Uno sciacallo? – chiese Sandokan.

– Bene imitato, – rispose Tremal-Naik che si era bruscamente alzato, interrompendo la frase.

– Come! non credi che sia stato veramente uno sciacallo?

– Che cosa dici cornac, di quell’urlo? – chiese Tremal-Naik, volgendosi verso il conduttore del coomareah.

– Che qualcuno ha cercato d’imitare il mangiatore di carogne, – rispose l’indiano con accento inquieto.

– Vedi nulla tu?

– No, sahib.

– Che siamo stati seguiti? – chiese il francese.

– Tacete! – comandò Tremal-Naik.

Una nota metallica echeggiò in mezzo ai folti bambú spinosi, seguita da alcune modulazioni.

– Ancora il ramsinga! – esclamò Tremal-Naik.

– Ed il suonatore non deve essere lontano piú di tre o quattrocento passi, – disse Yanez afferrando la carabina e armandola precipitosamente. – L’avevo detto io che questo era un vero luogo d’imboscate.

– Sono diavoli o spiriti quegli uomini! – esclamò Sandokan.

– O uccelli? – disse il signor di Lussac. – Devono avere le ali per seguirci sempre.

– Ascoltate! – esclamò Tremal-Naik. – Si risponde!

Un altro ramsinga aveva risposto, assai lontano. Tre volte squillò su diversi toni, poi il silenzio tornò.

I quattro cacciatori, in preda ad una viva agitazione, si erano alzati colle carabine in pugno, scrutando attentamente le alte canne della jungla.

Erano però in quel luogo cosí fitte e l’oscurità cosí profonda, che non era possibile discernere un uomo nascosto fra quel caos di vegetali d’alto fusto.

– Che ci tendano una imboscata? – chiese Sandokan, rompendo il silenzio. – Se fermassimo l’elefante e facessimo una battuta? Che te ne pare Yanez?

Il portoghese stava per rispondere, quando quattro o cinque lampi balenarono fra i bambú, seguiti da parecchie detonazioni.

Il coomareah si era arrestato di colpo, imprimendo all’haudah una tale scossa che per poco gli uomini che la montavano non furono scaraventati in aria, poi fece uno scarto improvviso mandando contemporaneamente un barrito spaventevole.

– L’elefante è stato toccato! – si udí a gridare il cornac. Sandokan, Yanez ed i loro compagni avevano fatto fuoco verso il luogo ove avevano veduto balenare i lampi.

Parve a loro di udire un grido, ma non ebbero il tempo di accertarsene, poiché l’elefante si era slanciato a corsa disperata, riempiendo la jungla di clamori assordanti.

– Sahib! – gridò il cornac, che aveva le lacrime agli occhi.

– Il coomareah è ferito! Udite come si lagna?

– Lascialo correre finché esalerà l’ultimo respiro, – rispose freddamente Sandokan.

– È una fortuna che perderete, sahib!

La Tigre della Malesia alzò le spalle, senza rispondere.

Il pachiderma, che doveva aver ricevuto piú d’una palla, reso furioso pel dolore, divorava la via colla velocità d’un cavallo arabo, tutto atterrando e fracassando sul suo passaggio.

Barriva incessantemente ed imprimeva all’haudah tali scosse che i quattro cacciatori dovevano tenersi ben stretti ai bordi e alle funi per non venire sbalzati fuori.

Quella corsa indiavolata durò venti minuti, poi il coomareah s’arrestò.

Si trovava sulla riva della laguna: stava per morire a giudicarlo dal tremito che scuoteva il suo corpo e dai suoi barriti che diventavano rapidamente piú deboli, ma la sua missione l’aveva compiuta.

I cacciatori si trovavano all’estremità della jungla e le Sunderbunds pantanose si stendevano dinanzi a loro, al di là della laguna.

Il cornac aveva mandato un grido:

– Scendete: il coomareah sta per cadere!

I cacciatori gettarono frettolosamente la scala di corda, presero le loro armi e scesero a precipizio, mentre il cornac si lasciava scivolare lungo il fianco destro del colosso.

Si erano appena allontanati di pochi passi quando il povero coomareah cadde pesantemente colla testa in avanti, spezzandosi le due zanne.

Era morto sul colpo.

– Ecco altre cinquantamila lire perdute, – disse Yanez. – Bah! Non è il denaro che ci fa difetto, ed i Thugs pagheranno anche questa morte!

Capitolo XX. LA TORRE DI BARREKPORRE

L’elefante era stramazzato a venti passi dalla riva, su un suolo cosí fangoso e cedevole, che pochi minuti dopo metà dell’enorme massa di carne era sprofondata.

L’acqua trasudava da tutte le parti come se quell’estremo lembo della immensa jungla fosse spugnoso e traforato come un crivello.

Piante acquatiche crescevano dappertutto, con uno sviluppo prodigioso ed un enorme gruppo di paletuvieri esalanti miasmi deleteri, costeggiava la spiaggia, avanzandosi molto innanzi sulle acque della laguna.

Un tanfo ammorbante che faceva arricciare il naso a Yanez ed al francese, e che pareva prodotto dall’imputridire di carogne gettate in acqua, regnava dovunque, tanfo pericoloso che doveva produrre febbri e cholera.

– Bel luogo! – esclamò Yanez, che si era spinto verso i paletuvieri, mentre Sandokan, il cornac e Tremal-Naik vuotavano l’haudah prima che il fango la inghiottisse. – Ne avete veduto mai uno di piú splendido, signor de Lussac?

– Queste sono le nostre Sunderbunds, signor Yanez, – rispose il francese.

– Qui non potremo nemmeno accamparci. Il terreno cede sotto i nostri piedi e mi pare che non se ne possa trovare un palmo di resistente.

E da che cosa proviene questa puzza orribile?

– Guardate dinanzi a voi, signor Yanez: non vedete quei marabú che sonnecchiano alla superficie dell’acqua e che vanno lentamente alla deriva?

– Sí, anzi mi chiedevo come quei brutti uccellacci, quei rapaci divoratori di carogne, si tengono cosí a galla, ritti sulle zampe.

– Sapete su che cosa s’appoggiano?

– Su delle barchette invisibili, formate forse da foglie di loto.

– No, signor Yanez. Ogni marabú ha sotto di sé il cadavere d’un indiano, piú o meno intero e che a poco a poco passerà tutto nel suo ventre.

I bengalesi che non posseggono tanto da poter pagare le spese della cremazione, quando sono morti, si fanno gettare nel Gange, il fiume sacro che deve condurli nel paradiso di Brahma, di Siva o di Visnú ed a poco a poco, se per via non vengono divorati dai gaviali, passando di canale in canale, finiscono qui.

Su questa laguna vi sono dei veri cimiteri galleggianti.

– Me ne accorgo da questo delizioso profumo che mi fa rivoltare gli intestini. Potevano scegliere un luogo migliore i signori Thugs.

– Sono sicuri qui.

– Avete veduto nulla? – chiese Sandokan che aveva finito di vuotare l’haudah.

– Sí, degli uccelli che dormono, e dei cadaveri che passeggiano a fior d’acqua. Uno spettacolo superbo pei beccamorti, – rispose Yanez, cercando di sorridere.

– Speriamo di andarcene presto.

– Non vedo alcuna barca, Sandokan.

– Ti ho detto che costruiremo una zattera. Forse la Marianna è piú vicina di quello che tu credi, giacché siamo sulle rive del canale di Raimatla, è vero Tremal-Naik?

– E anche vicini alla torre di Barrekporre, – rispose il bengalese. – La vedete ergersi dietro quel gruppo di tara?

– È abitabile? – chiese Yanez.

– Deve essere ancora in ottimo stato.

– Andiamo a rifugiarci colà, amico Tremal-Naik. Qui non possiamo accamparci.

– E poi sarebbe pericoloso fermarci su questa riva, coll’elefante cosí vicino.

– Non vedo quale fastidio potrebbe darci quel povero pachiderma.

– Lui no, bensí quelli che fra poco accorreranno per divorarselo. Tigri, pantere, cani selvaggi e sciacalli non tarderanno ad accorrere per disputarselo, e quei carnivori, messi in appetito potrebbero gettarsi anche su di noi.

– Se la prendessero almeno coi Thugs che ci hanno tesa l’imboscata – disse il francese.

– Tiravano bene, quelle canaglie!

– E come hanno colpito il coomareah, – disse Sandokan. – Hanno forata la pelle in tre luoghi, in direzione dei polmoni.

Uno scoppio di urla acutissime miste a latrati rauchi, echeggiò in quel momento fra le immense canne, a non breve distanza dalla spiaggia.

– Ecco i bighana che hanno già fiutato l’elefante e che accorrono, – disse Tremal-Naik. – Amici sgombriamo e lasciamoli banchettare.

Stavano per mettersi in marcia quando in mezzo ad una macchia di mussenda si udirono dei belati.

– Toh! – esclamò Yanez, sorpreso. – Vi sono delle pecore qui?

– Sono le tcite che precedono i cani selvaggi ed ai quali disputeranno coraggiosamente la preda.

– Che animali sono? – chiese Sandokan.

– Dei graziosi leopardi, d’una audacia a tutta prova, sanguinarissimi e che nondimeno si addomesticano facilmente per farne dei cacciatori insuperabili. Eccone uno: lo vedete? Non ha paura nemmeno di noi; ma non temete, non ci assalirà.

Un bell’animale snello, sottile, con le gambe un po’ alte, che aveva la testa del gatto ed il corpo di un cane, lungo meno d’un metro e mezzo e alto poco piú di due piedi, coperto da un pelame lungo e ispido, era balzato agilmente fuori da un cespuglio e si era fermato a venti passi dai cinque uomini, fissando su di loro i suoi occhi verdastri e fosforescenti.

– Somiglia ad un piccolo leopardo e anche un po’ alla pantera, – disse Sandokan.

– E possiede il coraggio dell’uno e lo slancio dell’altra, – rispose Tremal-Naik. – È piú lesto perfino delle tigri e raggiunge alla corsa le antilopi piú veloci, però non resiste oltre i cinquecento passi.

– E si addomesticano?

– Senza difficoltà e cacciano volentieri pel padrone, purché si lasci loro il sangue delle prede che riescono ad atterrare.

– Ne avrà da bere fino da scoppiare quel grazioso animale, – disse Yanez. – L’elefante deve averne parecchi barili nel suo corpaccio. Buona digestione, amica mia!

La tcita in quattro slanci era già addosso all’elefante.

I due europei, i due indiani e Sandokan, udendo echeggiare piú minacciose ed in luoghi diversi, le urla dei bighana affrettarono il passo, costeggiando la sponda della laguna, dove le piante non erano cosí fitte da permettere ad una tigre d’imboscarsi.

Al di là delle immense foglie dei palmizi tara, si vedeva spiccare la torre segnalata dal bengalese, col suo cocuzzolo piramidale.

Procedendo cautamente, colle carabine montate, attraversarono quel gruppo di piante che formava un piccolo bosco, e giunsero finalmente su uno spiazzo ingombro solamente di calamus, attortigliati su se stessi, come serpenti smisurati e nel cui mezzo si ergeva la torre coi suoi quattro piani.

Era un edificio quadrangolare, adorno di teste di elefanti e di statue rappresentanti dei cateri, ossia de’ giganti dell’antichità, e colle pareti qua e là screpolate.

A che cosa avesse potuto servire anticamente quella torre, piantata in mezzo a quei pantani, abitati solamente dalle belve feroci, sarebbe stato un po’ difficile a dirlo a meno che avesse potuto servire di difesa avanzata contro le scorrerie dei pirati arracanesi.

La scala che metteva nell’interno era crollata assieme a parte della muraglia prospettante verso la laguna, però ve n’era stata collocata un’altra di legno che metteva al secondo piano. Probabilmente il primo non sussisteva piú.

– Si vede che qualche volta degli uomini sono qui venuti a rifugiarsi, – disse Tremal-Naik. – Questa scala a mano non si sarà fabbricata da sé.

Già il francese pel primo aveva cominciato a salire, quando un’ombra si slanciò fuori da un gruppo di calamus, cadendo in mezzo ad un folto cespuglio di mindi.

– Badate! – gridò il cornac, che pel primo se n’era accorto. – Su fate presto!

– Che cos’era? – chiese Sandokan, mentre Tremal-Naik e Yanez seguivano precipitosamente il francese che era quasi sulla cima delle scale.

– Non so, sahib… un animale…

– Sali… spicciati!

Il cornac non se lo fece dire due volte e si slanciò a sua volta su per la scala di bambú che crepitava e s’incurvava sotto il peso di quei quattro uomini.

Sandokan aveva fatto invece un rapido voltafaccia, imbracciando la carabina. Aveva veduto vagamente quell’ombra attraversare lo spazio e cadere fra i mindi, quindi non sapeva se si trattasse d’una tcita, o di qualche animale piú pericoloso.

Vedendo i rami delle piante rimanere immobili, si gettò sulla scala montandola rapidamente.

Era giunto a metà altezza, quando provò un urto che per poco non lo fece cadere abbasso.

Qualcuno erasi slanciato sulla scala un po’ piú sotto di lui, ed i bambú avevano provata una scossa cosí violenta da temere che si spezzassero.

Nel medesimo istante si udí il signor de Lussac, che si trovava già sulla piccola piattaforma che girava intorno alla torre, a gridare:

– Presto, Sandokan! Sta per prendervi!

La Tigre della Malesia invece di innalzarsi, si era voltato tenendosi con una mano ben stretto alla scala ed impugnando coll’altra la carabina per la canna.

Un grosso animale che sembrava un gigantesco gatto, colla testa grossa e rotonda, il muso sporgente ed il corpo coperto da un pelame giallo rossastro con macchie nerastre in forma di mezza-luna, era piombato sulla scala, un po’ al di sotto del pirata e si sforzava a raggiungerlo, aggrappandosi ai bambú colle unghie.

Sandokan non aveva mandato né un grido, né fatto atto di fuggire. Alzò rapidamente la carabina il cui calcio era guernito di una grossa lastra di ottone e vibrò un colpo formidabile sul cranio della belva che risuonò come una campana fessa. L’animale mandò un ringhio sordo, girò attorno alla scala tentando ancora di reggersi colle potenti unghie, poi si lasciò cadere al suolo.

Sandokan aveva approfittato per raggiungere i compagni, prima che la belva rinnovasse l’assalto.

Il francese che aveva armata la carabina stava per far fuoco, quando Tremal-Naik lo trattenne, dicendogli:

– No, signor de Lussac, non segnaliamo con uno sparo la nostra presenza in questo luogo. Non dimentichiamo che abbiamo i Thugs alle calcagna.

– Bel colpo, fratellino mio, – disse Yanez, aiutando Sandokan a salire sulla piattaforma. – Devi avergli spaccato il cranio, perché vedo che quell’animalaccio si trascina a stento fra i calamus. Sai che cos’era?

– Non ho avuto il tempo di osservarlo.

– Una pantera, mio caro. Se ti trovavi due piedi piú sotto ti balzava addosso.

– E come era grossa! – aggiunse Tremal-Naik. – Non ne ho mai veduta una di simile.

Se la scala invece di essere di bambú fosse stata di altro legno, non avrebbe resistito a quel salto e saremmo caduti tutti l’uno sull’altro.

– Sono abituate le pantere a fare questi colpi e lo sanno gli incaricati di rinnovare le provviste delle torri di rifugio disseminate sull’Hugly – disse il francese.

– Un giorno ne ho salvati due mentre stavano per venire sbranati sulla scala che metteva nel rifugio.

– Per precauzione ritiriamo la scala, – disse Yanez. – Le pantere sono abili arrampicatrici e quella che Sandokan ha cosí ben punita potrebbe cercare di vendicarsi di quella tremenda mazzata.

– Ed entriamo se è possibile, – disse Tremal-Naik.

Una finestra metteva nell’interno della torre. Il bengalese salí sul davanzale ma ridiscese subito sul terrazzino.

– Tutti i piani sono crollati, – disse, – e la torre è vuota come un camino. Passeremo la notte qui: fa piú fresco.

– E potremo nel medesimo tempo sorvegliare i dintorni, – disse Sandokan. – Dov’è scappata la pantera che non la vedo piú?

– Pare che se ne sia andata, a menoché non sia nascosta fra i calamus per assalirci quando scenderemo, – rispose Yanez.

– Non mi sorprenderebbe, – disse de Lussac. – Quantunque siano molto piú piccole e meno robuste delle tigri, sono piú coraggiose e assalgono sempre anche quando la fame non le spinge. È capace di assediarci, come quelle che avevano assalito i due provveditori della torre di Sjawrah.

– Quelli che poi avete salvati? – chiese Sandokan.

– Sí, capitano.

– Signor de Lussac, raccontateci un po’ quell’avventura, – disse Yanez, levandosi da una delle sue dieci tasche un pacco di sigarette e offrendole ai compagni. – Credo che nessuno di noi abbia desiderio di dormire.

– Non mi fiderei a chiudere gli occhi, – disse Tremal-Naik. – Qui siamo allo scoperto ed i Thugs che ci hanno tesa l’imboscata avevano delle carabine e non sparavano male.

– Sí, raccontate signor de Lussac, – disse Sandokan. – Il tempo passerà piú presto.

– L’avventura risale a quattro mesi fa. Avevo un vivissimo desiderio di fare una partita di caccia fra i canneti della jungla costeggiante l’Hugly, ed essendo amico d’un tenente di marina, incaricato di provvedere e rinnovare i viveri alle torri di rifugio, aveva ottenuto il permesso d’imbarcarmi su una di quelle scialuppe a vapore che ogni mese visitano quei posti dei naufraghi. Eravamo in otto a bordo: un master, un vice-master, tre marinai, un macchinista, un fuochista ed io

Avevamo già visitate parecchie di quelle torri, rinnovando qua e là i viveri, quando una sera, poco prima del tramonto, giungemmo dinanzi al rifugio di Sjawrah, che s’alzava ad un centinaio di metri dalla riva, essendo il terreno assai fangoso presso il fiume.

Avendo scorto molte oche volteggiare al di sopra dei canneti e anche delle antilopi a fuggire, mi unii ai due marinai incaricati di portare i viveri da depositare nella torre.

Avevo preso con me un fucile da caccia, per maggior precauzione mi ero anche armato d’una buona rivoltella di grosso calibro, essendo stato avvertito che potevo incontrare delle tigri o delle pantere.

Ci eravamo inoltrati sul sentiero che conduceva alla torre, aperto a colpi di scure fra un caos di bambú e di paletuvieri, quando udimmo il master della scialuppa a urlare.

Nell’istesso momento vidi la scialuppa allontanarsi precipitosa mente dalla riva, per mettersi fuor di portata dagli assalti di quei feroci carnivori.

«Badate, le pantere. Salvatevi nella torre!»

Quell’avvertimento era appena giunto ai miei orecchi, quando udii dietro di me un rumore di rami spezzati.

«Gettate i viveri e fuggite!» gridai ai due marinai che mi precedevano.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
30 августа 2016
Объем:
360 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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